La maggior parte dei musulmani di ogni epoca non è mai stata sottomessa all’autorità di un califfo

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:17

La maggior parte dei musulmani di ogni epoca non è mai stata sottomessa all’autorità di un califfo. Il discorso sullo “Stato islamico” in quanto Stato legittimo è un’ideologia recente, emersa tra gli anni ’30 e gli anni ‘60 del XX secolo, che collega la legittimità del regime politico dello Stato a una determinata idea di religione. Al mondo islamico occorre oggi una riforma religiosa, che riapra la riflessione sul regime politico inteso non come istituzione religiosa ma come amministrazione della cosa pubblica; e una riforma politica, che promuova l’alternanza al potere.

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“Stato islamico” è un termine relativamente tardivo. Esso fu usato per la prima volta dai viaggiatori e dagli storici bizantini per designare le terre dominate dagli ottomani. Gli storici e i giuristi musulmani erano invece soliti usare l’espressione dār al-islām, ovvero la “casa” i cui abitanti sono in maggioranza musulmani, dove il musulmano e il dhimmī[1] godono della sicurezza e dove nessuno può impedire ad alcuno di erigere luoghi di culto islamici e praticare il culto islamico.

 

Emigrare o non emigrare?

Quando i britannici occuparono l’India e gradualmente conquistarono il sultanato Moghul fino a farlo cadere in seguito all’insurrezione del 1857, alcuni giuristi affermarono che quel territorio non era più “casa dell’Islam”. Altri giuristi risposero dicendo che i britannici erano sì un nemico che andava combattuto, ma che quel territorio continuava a essere “casa dell’Islam” visto che gli occupanti non si opponevano alla presenza delle moschee, dei musulmani e ai loro atti di culto. A supporto del loro argomento essi citarono il caso del sultano ottomano che, persa la penisola di Crimea in una guerra con i russi, stabilì nell’accordo di Küçük Kaynarca del 1774 che i musulmani non avrebbero dovuto emigrare fintantoché non fossero stati toccati i loro luoghi di culto, le loro moschee, i loro beni di manomorta e i loro giudici.

Questo dibattito si è ripetuto ogni qualvolta gli abitanti musulmani hanno perso il controllo di un loro territorio – dalla Sicilia e l’Andalusia all’India, all’Algeria, all’Asia centrale, all’Egitto e al Sudan. Nelle regioni occupate si produsse un flusso migratorio dovuto al fatto che la colonizzazione o l’occupazione facevano uscire quei territori dal quadro della legittimità islamica. Noi sappiamo tuttavia che nel caso della Sicilia e dell’Andalusia l’emigrazione fu forzata e non dipese da una scelta religiosa. Nell’Asia centrale degli anni ‘80 del XIX secolo e, prima ancora, nell’Algeria degli anni ‘30 e ‘40 i giuristi hanafiti (cioè di una delle quattro scuole giuridiche sunnite, NdR) obiettarono che l’occupazione non trasformava l’identità della “dimora”; che l’emigrazione avrebbe fatto cessare la resistenza; e che la legittimità non sarebbe venuta meno fintanto che si fosse praticato l’Islam e fosse stata possibile la vita. Ricordavano a questo proposito il versetto coranico che recita: «Dio non vi proibisce di agir con bontà ed equità verso coloro che non vi combattono per religione e non vi hanno scacciato dalle vostre dimore, poiché Dio ama gli equanimi» (60,8).

 

Un’invenzione recente

Il discorso sullo “Stato islamico” in quanto Stato legittimo è un’ideologia recente, emersa tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60 del XX secolo. Essa si fonda su idee e su tendenze animate dal timore che l’identità islamica fosse minacciata dall’occidentalizzazione e dalla sottomissione di gran parte della popolazione musulmana. In India tale questione si sviluppò nell’ambito della Lega musulmana e nella riflessione di Abul A‘lā al-Mawdūdī, fondatore della Jamā‘at Islāmiyya, e nel 1947 portò alla separazione delle regioni a maggioranza islamica e alla creazione del Pakistan. Questo da un lato mise i musulmani rimasti in India di fronte al problema di essere una minoranza, alimentando diffidenze reciproche, e dall’altro non risolse il problema dei separatisti, che si divisero in due Stati su base etnica (il Pakistan e il Bangladesh, NdR). Nonostante la separazione non fosse dovuta a motivi religiosi, fu in questo contesto che comparvero buona parte delle organizzazioni estremiste tuttora esistenti.

La manifestazione più recente di questa tendenza schizofrenica, che collega la legittimità del regime politico dello Stato a una determinata idea di religione, è l’idea di ripristinare il califfato delle origini, il califfato ben guidato, ritenuto l’unica forma legittima di potere, escludendo dall’Islam chi non si rifà a tale visione. Essa presenta in realtà due varianti: una che ritiene il sistema politico un pilastro della religione, e l’altra che considera il califfato, ovvero la forma di governo scelta dai musulmani dopo la morte del Profeta (su di Lui la preghiera e la pace) l’unica forma in grado di assicurare la legittimità dello Stato e applicare la sharī‘a. Si tratta di idee ignote alla religione e, prima dell’epoca contemporanea, alle interpretazioni dei musulmani. Esse hanno causato divisione e distruzione negli Stati, nelle società e nella religione. Nell’Islam sunnita infatti il sistema politico – compreso il califfato – è scelto dalle persone, e cambia ed evolve secondo quanto esse ritengono conveniente.

 

Regimi politici a-religiosi

La maggior parte dei musulmani di ogni epoca non è mai stata sottomessa all’autorità di un califfo, né a quella del sultano ottomano, che a partire dal XVIII secolo adottò e utilizzò il titolo califfale. Nell’Islam, l’identità religiosa non è definita dal regime politico, ma dai musulmani, con le loro dottrine, i loro atti di culto e i loro comportamenti, tra i quali non rientra l’organizzazione politica. In ogni società è razionalmente e legalmente necessaria la presenza di un potere che salvaguardi gli interessi delle persone e la sicurezza, e respinga le aggressioni esterne. Ma tale potere non ha alcuna funzione religiosa, nel senso che né la sua esistenza, né la sua permanenza sono legate alla religione, ed esso non è vincolato ad alcuna forma particolare. Lo dimostra il fatto che nel corso della storia la maggior parte dei musulmani ha abbandonato il califfato per il sultanato, l’emirato o altri regimi politici, e nessuno ha mai detto che per questa ragione essi si sono allontanati dalla religione. Come affermò l’imam al-Juwaynī (1028-1085), sono la scelta, l’accordo e il consenso tra le persone a determinare la legittimità del potere. I teologi e i giuristi sunniti concordano sul fatto che si tratta di un accordo sulla salvaguardia degli interessi pubblici, indipendente dalle pratiche di culto e dalle dottrine. Su questo punto concordano anche i musulmani dell’epoca contemporanea. Pensiamo per esempio ai movimenti nazionalisti che misero fine al colonialismo e agli ordinamenti nazionali che sono riusciti e riescono ancora oggi a garantire gli interessi del popolo senza essere legati ad alcuna religione o credo.

Lo Stato islamico è lo Stato sulla cui istituzione si esprime favorevolmente la maggioranza dei musulmani e, come ogni regime politico nel mondo, trae da questa maggioranza la propria legittimità. Oggi, nei regimi politici in vigore nei Paesi a maggioranza islamica si è costituito un consenso attorno alla cittadinanza, ciò che implica la parità dei diritti e dei doveri, tra cui il diritto di scegliere il governante attraverso le elezioni. Noi, in quanto musulmani, esseri umani e cittadini arabi, e in questo momento principali vittime delle milizie confessionali, siamo chiamati a lottare per impedire che la nostra religione sia fagocitata dalla Stato, e difendere così e la religione e lo Stato.

Per questo abbiamo oggi bisogno di due riforme: una riforma religiosa, che riapra la riflessione sul regime politico inteso non come istituzione religiosa ma come amministrazione della cosa pubblica; e una riforma politica, che promuova l’alternanza al potere e la creazione di regimi di governo retti e ordinati. Come disse Ibn Qayyim al-Jawziyya (1292-1350), ovunque la giustizia si disveli diventa legge.

 

*Testo presentato con il titolo “Al-Dawla al-Islāmiyya wa-l-Khilāfa” (Lo Stato islamico e il califfato) alla “Conferenza sul contrasto dell’estremismo e del terrorismo” tenutasi ad al-Azhar (il Cairo) il 4 dicembre 2014.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Note

[1] Cioè il non-musulmano, solitamente ebreo o cristiano, che ottiene la protezione e il diritto a praticare la propria religione in cambio del pagamento di una tassa (NdR)

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ridwan Al-Sayyid, Non è la fede a imporre il califfato, «Oasis», anno XII, n. 23, giugno 2016, pp. 80-83.

 

Riferimento al formato digitale:

Ridwan Al-Sayyid, Non è la fede a imporre il califfato, «Oasis» [online], pubblicato il 20 giugno 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/non-e-la-fede-imporre-il-califfato.

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