Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:23

Venerdì scorso, Samuel Paty, un professore francese di storia e geografia, è stato decapitato mentre tornava a casa dopo la fine delle lezioni a Conflans-Sainte-Honorine, poco distante da Parigi. L’attentatore era un diciottenne ceceno, Abdoullakh Anzorov, che è stato ucciso dalla polizia poco dopo l’aggressione. Una storia che sta facendo molto discutere in Francia, ma ha ricevuto molte meno attenzioni sui media italiani. A distanza di una settimana, le indagini hanno ricostruito gran parte dei retroscena della vicenda, chiamando in causa diversi elementi: dal ruolo svolto dai social network alla risposta dell’esecutivo francese, che da mesi parla di “separatismo” riferendosi all’islamismo.

 

Gli antecedenti

 

Nell’ambito del suo corso di libertà di espressione ed educazione civica, Samuel Paty, insegnante del College du Bois d’Aulne (equivalente a una scuola media italiana), aveva mostrato le vignette satiriche di Charlie Hebdo che ridicolizzavano il profeta Maometto, le stesse all’origine degli attentati del 2015 alla redazione del giornale. Secondo le ricostruzioni dei giornali francesi, Paty aveva ammesso per i suoi studenti musulmani la possibilità di uscire dall’aula nel caso si fossero sentiti offesi. Questo è avvenuto il 5 ottobre. Due giorni dopo, Brahim C., genitore di una alunna musulmana che secondo il padre si è sentita discriminata, posta dei video su YouTube e Facebook contro l’insegnante, definendolo un «criminale». In contemporanea denuncia l’insegnante per «diffusione di immagini pedopornografiche». Mentre anche la preside della scuola tenta di calmare le acque, entra in scena un altro personaggio, Abdelhakim Sefrioui, un islamista definito da Le Monde un «attivista radicale filopalestinese e virulento antisionista», membro del Collettivo Cheich Yassine (dal nome di uno dei fondatori di Hamas), che era entrato in contatto con Brahim C. e l’aveva aiutato a realizzare un ennesimo video contro Paty. Il professore denuncia il genitore per diffamazione il 12 ottobre, ma intanto i video erano già stati ampiamente diffusi sui social. Uno dei video viene infatti ricondiviso sull'account Facebook – seguito da quasi 100.000 persone – della moschea di Pantin (chiusa martedì dal governo francese insieme al Collettivo Cheikh Yassine), gestita da un imam salafita. Il 16 ottobre si è poi verificato l’attentato. Ma com’è entrato Abdoullakh Anzorov in questa vicenda?

 

L’attentato e il ruolo dei social

 

Il ragazzo ceceno, rifugiato diciottenne che viveva nel quartiere Madeleine di Evreux, non era un alunno del professore, non lo conosceva, ma ha avvicinato dei giovani studenti per farsi indicare il professore dopo aver visto i video di Brahim C. Per questa operazione, due adolescenti, ora in stato di fermo insieme a una serie di altri indagati, sono stati pagati circa 350 dollari, scrive il New York Times. Anzorov, che subito dopo l’uccisione aveva scattato una foto della testa decapitata del professore per postarla su Twitter (l’account ora è stato rimosso), non era stato segnalato alle forze di polizia per precedenti atti di terrorismo, ma secondo un’inchiesta de Le Monde, che ha potuto analizzare tutti i tweet di Anzorov, è evidente la radicalizzazione del giovane a partire dal 25 settembre, cioè il giorno in cui un uomo pakistano ha attaccato dei passanti davanti l’edificio dove si trovava la redazione di Charlie Hebdo: «Da quel giorno in poi Abdouallakh Abouyezidovitch Anzorov ha fatto un passo avanti cercando in almeno tre occasioni gli indirizzi di persone colpevoli ai suoi occhi di aver insultato il Profeta. Samuel Paty sarà il quarto».

 

«Si può dunque stabilire una complicità o una responsabilità morale» dei social network, si chiede Le Parisien, riflettendo sul ruolo che possono aver avuto i video di Brahim C.. Saranno le autorità giudiziarie a stabilirlo. Nel frattempo è emerso che la figlia di Brahim C. forse era assente il giorno in cui Paty ha mostrato le vignette e che Anzorov aveva tentato di contattare Brahim C., dopo che questi aveva lasciato il proprio numero di telefono nei video in caso qualcuno volesse contattarlo. Nel cercare di dipanare la matassa di contatti, le indagini hanno anche rivelato che Anzorov aveva tentato di contattare dei jihadisti a Idlib e che una sorellastra di Brahim C. era partita per la zona siro-irachena, ma era stato lo stesso Brahim a denunciarla nel 2014 al Centro nazionale per l'assistenza e la prevenzione del radicalismo. Ora la donna di trova nel campo di Al-Hol.

 

I social network hanno avuto un ruolo anche dopo l'accoltellamento di due donne musulmane che indossavano il velo nei pressi della Torrei Eiffel domenica. Al Jazeera spiega che «inizialmente le autorità non hanno rilasciato alcuna informazione sull'incidente, il che ha portato a critiche da parte degli utenti online».

 

La difficile convivenza tra Islam e République

 

L’attentato, avvenuto solo un paio di settimane dopo che Macron aveva annunciato di voler promuovere un “Islam dei Lumi” per contrastare il separatismo islamista, ha aperto l’ennesimo dibattito in Francia sulla convivenza tra Islam e valori repubblicani. Secondo Orient XXI è preoccupante la polarizzazione interna che si è creata intorno ai temi centrali dell’Islam: «Attaccare i “predicatori d’odio” attraverso politiche pubbliche o chiedere la riforma dell’Islam “malato” senza altra forma di riflessione o azione ignora la dimensione relazionale della violenza e delle tensioni che stanno lacerando la Francia». In altre parole, nel dibattito politico francese mancherebbe una riflessione sul contesto che ha permesso una certa radicalizzazione reciproca intorno all’Islam. Farhad Khosrokhavar scrive che negli ultimi decenni la Francia ha adottato una politica sbagliata, trasformando la laïcitè, che dovrebbe essere un «sistema di salvaguardia della neutralità dello Stato», in una «religione civile».

 

Anche Gilles Kepel ripercorre, da una prospettiva diversa, il difficile rapporto tra governo francese e Islam: tutti gli attacchi che si sono verificati in Francia negli ultimi anni sono stati scoperti ex post, ed è questa la ragione per cui la nuova legge sul “separatismo” voluta da Macron dovrà «affrontare le cause e non le sole conseguenze», ma dovrà anche avere «una buona conoscenza delle origini e delle deviazioni dell'islamismo politico – i cui attivisti sono alla ricerca di qualsiasi pretesto per capovolgere il processo contro di loro e indossare gli abiti della vittima, come hanno già iniziato a mostrare sui loro social network».

 

Il dibattito ha raggiunto anche gli Stati Uniti, dove diversi analisti hanno però messo in luce la peculiarità della laicità francese. Il problema cioè non soltanto l’Islam radicale, ma anche l’aggressività del secolarismo francese. È quello che sostiene per esempio il politologo Ahmet T. Kuru, il quale sottolinea come negli Stati Uniti sarebbe impensabile un progetto di costruzione di un “Islam dei Lumi” patrocinato dallo Stato. In Francia, aggiuge Kuru, «troppo spesso la laicité si traduce in una mancanza di disponibilità ad accogliere le richieste religiose dei musulmani», cosa che non succede con i cattolici, che per esempio godono anche di finanziamenti pubblici per le loro scuole. Lo studioso della San Diego State University concorda con Macron quando dice che l’Islam è una religione in crisi, ma «la “crisi” che l'islam sta affrontando sta nei fallimenti storici e politici del mondo musulmano, non nella religione stessa».

 

Anche il Washington Post critica la scelta di Macron di focalizzarsi sul «separatismo islamista» che rischia di stigmatizzare i musulmani, e allo stesso tempo denuncia le responsabilità delle istituzioni islamiche: «Quello che serve è incoraggiare le istituzioni musulmane ad assumere una posizione chiara sulla giurisprudenza islamica che giustifichi la violenza». La tradizione islamica salafita viene additata come il problema alla base della decapitazione di Paty e di tanti altri attentati: «Le istituzioni islamiche come Al-Azhar spesso denunciano la violenza e insistono sul fatto che i suoi autori non rappresentano il “vero islam”, come ha appena fatto il muftì egiziano. Eppure raramente affrontano le basi intellettuali di queste interpretazioni belligeranti dei testi islamici».

 

17 ottobre: a un anno dall’inizio delle proteste in Libano

 

Il 17 ottobre ha segnato un anno dall’inizio delle proteste in Libano, le stesse che hanno poi portato alle dimissioni del primo ministro Saad Hariri, leader del Movimento del Futuro. Giovedì c’è stato però un “ritorno al futuro”, visto che il governo libanese ha nominato come “nuovo” primo ministro proprio Saad Hariri, il quale ha subito dichiarato che formerà un governo imparziale allo scopo di implementare le riforme proposte dalla Francia per risollevare l’economia libanese. La nomina non ha fatto altro che corroborare le tesi sul fallimento della rivoluzione libanese apparse sui media internazionali nei giorni scorsi. Il Paese dei cedri è in crisi totale: il Washington Post riporta che il mese scorso l’inflazione era al 401%, c’è una crisi dell’elettricità e non ci sono i fondi per ricostruire la città di Beirut dopo l’esplosione del 4 agosto.

 

C’è rabbia e frustrazione in Liban e Hariri non gode dell’appoggio della popolazione commenta L’Orient-Le Jour, che riporta le conversazioni che si sentono nelle strade libanesi: «“La situazione non è mai stata così grave. Non c'è più niente. Tutto è costoso e tutto è difficile da ottenere”, ha detto un tassista […], “La rivoluzione non c'è stata”. “Cosa vuol dire?” interviene Mohammed Taleb, in piedi accanto a lui fuori dal taxi. “Ha fatto cadere due governi. Non c'è un ministro che osi andare a mangiare in un ristorante”».

 

Hariri era l’unico candidato possibile, ma bisognerà vedere come si porrà verso le richieste di Hezbollah, ha commentato Camille Eid: «Macron è venuto in Libano lo scorso primo settembre con tutta una serie di proposte e indicazioni. Un premier nominato in fretta e furia ha cercato di fare un governo di tecnici, come chiesto da Macron, ma ha dovuto arrendersi davanti alle pretese di sciiti e Hezbollah che volevano il ministero delle Finanze e la possibilità di proporre loro i nomi per i posti in altri ministeri, il che è anti-costituzionale».

 

Spiega Foreign Policy che «per ogni decreto del governo è necessaria la firma del ministro delle Finanze, che concede a lui e ai suoi sostenitori il diritto di veto sulle decisioni del governo. Inoltre, ha accesso ai documenti ufficiali necessari per dimostrare le spese superate e gli sprechi. Un ministro delle finanze fantoccio garantirà l'immunità a Hezbollah e ai suoi alleati». Un modo di fare politica che era proprio ciò che veniva contestato dalle manifestazioni, che secondo alcuni non hanno avuto successo per la disorganizzazione e la mancanza di un organico piano politico.

 

In un paragrafo

 

Nagorno-Karabakh

 

«Tutti hanno perso la speranza con i colloqui di pace» ha detto al New York Times Ulriya Suleymanova, che a sette anni fuggì con la sua famiglia da Jabrail, uno dei distretti intorno al Nagorno-Karabakh, per approdare a Baku come rifugiata. Ora di anni ne ha 34 e come molti azeri in queste settimane di conflitto sta appoggiando l’operato del presidente Ilham Aliyev, che sembra determinato a riprendersi ampie fette di territorio in precedenza occupate dalle forze armene. Sebbene Aliyev abbia intimato a Yerevan di arrendersi, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha risposto che non può esistere l’Armenia senza Artsakh. L’efficace offensiva azera è resa possibile grazie al sostegno militare turco, scrive il Foglio, che continua riportando i commenti di Nona Mikhelidze, dell’Istituto per gli affari internazionali, secondo cui è probabile che già ci sia un accordo tra Russia e Turchia su come debba andare il conflitto, considerato l’atteggiamento attendista di Putin e i legami che legano Mosca a entrambi i Paesi in guerra. Putin, in contatto con entrambi i Paesi, ha detto che il bilancio dei morti finora è di circa 5.000 persone. Oggi rappresentanti armeni e azeri si troveranno a Washington per cercare di mettere fine ai combattimenti. Nel frattempo a rimetterci sarà la gente del Nagorno-Karabakh, che non riesce a far fronte anche alla pandemia da coronavirus: l’Associated Press scrive che diversi membri del personale sanitario hanno continuato a operare sui pazienti nonostante sapessero di essere infetti.

 

Altre normalizzazioni

 

Lunedì il presidente americano Donald Trump ha annunciato la rimozione del Sudan dalla lista degli Stati che sponsorizzano il terrorismo, non appena Khartoum disporrà dei 335 milioni di dollari che ha accettato di pagare per gli americani vittime degli attentati terroristici in Sudan a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Un passo verso l’accordo di pace tra Sudan e Israele, che potrebbe essere annunciato questo fine settimana secondo Axios, dopo che una delegazione congiunta di Stati Uniti e Israele è volata in Sudan mercoledì. Avevamo già anticipato la settimana scorsa come una decisione del genere rischi di far collassare il governo sudanese, che è ancora alla fase del Consiglio di transizione. Nel frattempo la popolazione è tornata in piazza a protestare per le precarie condizioni di vita e la crisi economica. Il Washington Post riporta i commenti di diversi esperti, che mettono in evidenza come il governo sudanese non sia ancora maturo per questo tipo di accordo. Nel frattempo Israele e gli Emirati hanno siglato nuovi accordi, tra cui la possibilità di viaggiare da un Paese all’altro senza necessità di visto. Sempre Axios racconta dell’esistenza di una missione diplomatica israeliana in Bahrein, mentre MbS pare abbia dichiarato che se avesse normalizzato i rapporti con Israele sarebbe stato «ucciso dall’Iran, dal Qatar e dalla mia stessa gente».

 

In una frase

 

Continuano le proteste in Nigeria (ne avevamo parlato la settimana scorsa); secondo Amnesty International almeno 12 persone sono state uccise dalle forze di sicurezza e continuano i disordini nella capitale Lagos (BBC).

 

In Libia è stato raggiunto un accordo di cessate il fuoco, ma da quasi due mesi 18 pescatori italiani si trovano in stato di fermo vicino a Bengasi (Il Post).

 

Ersin Tatar è stato eletto primo ministro a Cipro del Nord, una vittoria che fa piacere a Erdogan e probabilmente spaccherà per sempre l’isola in due (L’Orient-Le Jour)

 

In Repubblica democratica del Congo lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco a una prigione: di 1447 carcerati, solo 145 non sono fuggiti (Jeune Afrique).

 

L’Iran piange la morte del cantante Mohammad Reza Shajarian, il “principe della musica persiana” (Al Jazeera).

 

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