Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:24

VaticanInsider - sabato 22 giugno 2013 L’architetto saudita Sami Angawi è certamente un personaggio fuori dal comune, fin nel suo modo di fare e di vestire. Esordisce con l’ordine cosmico universale e le serie dei profeti, per approdare ai bulldozer che nella sua città natale, la Mecca, stanno distruggendo un monumento dopo l’altro per far posto ai nuovi grattacieli. Il wahabismo odia la storia, eccezion fatta per l’epoca d’oro delle prime tre generazioni di musulmani, e la considera un cumulo di deviazioni. Negli anni Settanta Angawi aveva provocatoriamente costruito un foto-montaggio che raffigurava la Ka’ba soffocata dai grattacieli. “Ma la realtà oggi è molto peggio del mio fotomontaggio”. Abbiamo perso l’equilibrio – osserva Angawi – e quanto avviene alla Mecca non può non riflettersi sul resto del mondo islamico. La prospettiva è mistica, di un misticismo fortemente connotato in senso gnostico. Eppure,nonostante la distanza culturale, Angawi avverte in pieno la questione della tecno-scienza, tanto che dopo aver ascoltato Mauro Magatti, professore alla Cattolica, parlare di “immanenza in movimento” e del sistema delle comunicazioni, si avvicina e lo invita al suo centro culturale a Jeddah. La magia di Arafa (la scienza moderna) che scalza il vecchio Ghabalawi (il Dio della creazione), di cui ha parlato il Cardinal Scola nella sua relazione introduttiva, non si limita al solo Occidente. Sono questo tipo d’incontri e di corrispondenze a volte inaspettate che appresentano probabilmente il frutto più importante di questo decimo comitato di Oasis, svoltosi a Milano il 17 e 18 giugno scorsi. Prima ancora dei singoli contenuti, delle analisi o delle testimonianze, l’aspetto più interessante è stato l’emergere, in modo più marcato rispetto al passato, di quella che il Cardinal Scola ha chiamato “una grammatica comune”. Grammatica comune che è fondamentale per il futuro di Oasis, perché la fondazione è chiamata a lavorare sulla frontiera, facendo interloquire tra loro cristiani e musulmani nella concretezza dell’ora attuale. L’aspetto del contesto è decisivo: come hanno mostrato le relazioni dal versante “occidentale” è importante comprendere fino in fondo le domande che emergono dai processi storici. La secolarizzazione – è stata la tesi di Francesco Botturi – nasce ad esempio come radicale messa in discussione dell’universalismo cristiano, pur rovesciandosi paradossalmente nella perdita postmoderna di ogni universalismo. Oggi infatti – ha dichiarato Rémi Brague – viviamo piuttosto un anti-antiumanesimo, sappiamo dire che cosa non vogliamo ma non che cosa vogliamo, né soprattutto perché. Ed è perciò anche sulla domanda di un nuovo universalismo e di un nuovo umanesimo, dopo il dramma di quello ateo, che sarà misurata la proposta cristiana. Senza comprendere il contesto e le sue domande si rischia di “mancare il bersaglio”, come ha osservato ancora il Cardinal Scola riferendosi al travaglio di molte chiese europee. D’altra parte, numerosi interventi dal versante “orientale” hanno evidenziato la crisi (il termine è stato usato più volte) che il mondo islamico sta attraversando e che nasce dall’imporsi di una sola visione, “ristretta e anti-umana” come l’ha definita Sayyed Jawad al-Khoei sciita iracheno, ai danni della pluralità. In questo senso, è stato ampiamente denunciato il rischio dell’ideologizzazione della religione, dalla Nigeria, al Marocco all’Iran. “È impossibile capire al-Azhar o i salafiti senza una buona conoscenza dell’Islam – ha osservato l’egiziano Tewfik Aclimandos. Ma per capire il funzionamento della leadership dei Fratelli Musulmani è molto meglio andare a studiarsi la storia dei partiti leninisti del Novecento”. La realtà incalza: è stata la drammatica e sincera testimonianza del rettore dell’università Saint-Joseph, in un Libano al collasso istituzionale, come anche di un giovane frate domenicano di Istanbul. “Studio la mistica ottomana, ma quando l’altro giorno, uscendo dalla chiesa dove celebro vicino a Piazza Taksim, non riuscivo più a respirare a causa dei lacrimogeni, mi sono domandato che senso avesse quello di cui mi occupavo. Mi è stato buttato in faccia il problema del male”. Tra secolarismo e ideologia, come recitava il titolo, Oasis ha cercato di tracciare un cammino, sfidando una doxa della società post-secolare, che cioè la secolarizzazione sia la strada obbligata per la democrazia moderna. Lo ha fatto poggiando sull’esperienza religiosa integrale, sempre bisognosa di purificazione e sempre culturalmente interpretata. Perché il dramma, come ha ricordato Olivier Roy rispondendo a una domanda sulle identità religiose in Medio Oriente, non è una cultura che si radica, ma una fede che si sradica.