I Paesi musulmani erano stati i protagonisti della fase storica aperta dall’11 Settembre. Oggi il tema della violenza religiosa è passato in secondo piano, mentre Medio Oriente e Nord Africa hanno un peso soprattutto in quanto aree geopolitiche rilevanti. Ma nei rapporti tra Occidente e mondo musulmano continuano a pesare il passato coloniale dell’Europa e le disastrose guerre americane

Ultimo aggiornamento: 29/03/2023 18:00:07

 

15 agosto 2021 – 24 febbraio 2022: i 193 giorni che separano il ritiro americano dall’Afghanistan dall’aggressione militare russa all’Ucraina segnano lo spartiacque tra il mondo geopolitico di ieri e quello di oggi. Le due date sono in realtà legate da qualche nesso. Putin ha probabilmente deciso di passare all’azione vedendo nel caotico ritiro degli Stati Uniti dal Paese centroasiatico un segno del declino a stelle e strisce. Biden ha portato a termine in tutta fretta il processo avviato da Obama e accelerato da Trump pensando forse alle nuove sfide che attendevano il suo Paese. Ma i due eventi restano l’emblema della fine di un’epoca e dell’inizio di un’altra. A quella che è finita possiamo dare un nome: sono i vent’anni della “guerra al terrore” lanciata da George W. Bush dopo l’11 Settembre. Quella apertasi l’anno scorso è più difficile da etichettare (crisi dell’ordine liberale? de-globalizzazione?) sia perché i processi che la caratterizzano sono in realtà iniziati prima del conflitto e sia perché la sua natura dipenderà anche dall’esito della guerra.

 

Il mondo musulmano era stato il grande protagonista dei primi due decenni del Ventesimo secolo. Al suo interno era nata quella che sembrava la minaccia più seria all’ordine politico internazionale emerso dopo il crollo dell’Unione sovietica. Al suo interno si è cercata una soluzione. Bush jr. si era inopinatamente convinto che questa consistesse nell’esportazione della democrazia. Le rivolte del 2010-2011 ci hanno fatto sperare che la democrazia potesse svilupparsi in Medio Oriente e Nord Africa come processo endogeno. Accantonata l’opzione della democratizzazione, ci siamo accontentati di sostenere un Islam “moderato” capace di contrastare le letture estremiste.

 

Intanto i grandi leader jihadisti, Osama Bin Laden, Ayaman al-Zawahiri, Abu Bakr al-Baghdadi, sono stati eliminati. Le loro organizzazioni sono in declino. Non è finito il jihadismo tout court, che ancora prospera lontano dai nostri occhi: nell’Africa Saheliana e sub-sahariana, nell’Asia sud-orientale. Ma non è più una minaccia globale e soprattutto non è più percepito come tale. Quando il 26 luglio del 2016 padre Jacques Hamel è stato assassinato nella sua chiesa in Normandia, la reazione emotiva è stata imponente: la notizia campeggiava sulle prime pagine dei giornali e i musulmani sono stati invitati nelle chiese ad assistere alla messa. Dopo che il 29 ottobre del 2020 Brahim Aouissaoui ha ucciso tre persone nella cattedrale di Nizza, l’effetto mediatico è stato più contenuto, ma c’è stato. Quando nel gennaio di quest’anno Diego Valencia, sacrestano di una chiesa di Algeciras, è stato assassinato al grido di Allah Akbar, il fatto è stato pressoché ignorato.

 

La guerra in Ucraina ha completato quello che la pandemia di Coronavirus aveva iniziato, spodestando il jihadismo nella gerarchia delle emergenze planetarie. L’Islam non è del tutto estraneo al conflitto in corso sulla frontiera orientale dell’Europa. Combattenti ceceni si trovano su entrambi i fronti: gli uni per confermare la propria fedeltà alla Federazione russa di Vladimir Putin, gli altri per riaprire la questione dell’indipendenza del loro Paese. I Tatari di Crimea sono perlopiù schierati dalla parte dell’Ucraina, che negli ultimi trent’anni ha garantito i loro diritti molto più di quanto abbiano fatto i russi. Ma è significativo che l’invocazione del jihad da parte del leader ceceno Ramzan Kadyrov non abbia suscitato grandi reazioni, mentre solo qualche anno fa sarebbe bastata la parola per animare ore e ore di talk show.

 

Se l’Islam è passato in secondo piano, lo stesso non può dirsi di Medio Oriente e Nord Africa come aree geopolitiche. La guerra in Ucraina ha avuto effetti rilevanti per tutto il Mediterraneo. Il blocco o comunque la riduzione delle esportazioni di grano da Ucraina e Russia ha messo a repentaglio la sicurezza alimentare di diversi Paesi arabi. La fame di energia dei Paesi europei ha invece restituito agli Stati esportatori di idrocarburi una centralità politica ed economica che la pandemia e l’imperativo della decarbonizzazione sembravano aver compromesso. Il conflitto, però, ha anche messo in luce un movimento culturale più profondo, le cui radici precedono l’aggressione russa e le cui ramificazioni delineano tendenze valide per il mondo arabo e il Medio Oriente dei prossimi anni.

 

Con la guerra al terrore, gli Stati Uniti erano riusciti a imporre una logica bipolare anche dopo la fine della guerra fredda: o con noi o contro di noi, aveva sentenziato George W. Bush. Molti Stati musulmani si erano adeguati, anche perché il terrorismo jihadista li riguardava dall’interno ed essi avevano tutto l’interesse a utilizzare lo stato d’emergenza per silenziare varie forme di dissenso. La nuova formula coniata dall’amministrazione Biden per riaffermare uno schema bipolare, la lotta tra democrazia e autoritarismo, cede visibilmente sul fronte della cooperazione con i regimi arabi. Mentre molti di questi non hanno esitato di fronte all’alternativa tra “moderazione” ed “estremismo”, lo schieramento all’interno di un ipotetico fronte democratico non è al loro ordine del giorno. Questo non ha compromesso la loro posizione, che anzi è stata rafforzata dalla loro imprescindibilità come partner commerciali.

 

Finora sia gli Stati Uniti che i Paesi europei hanno sostanzialmente ratificato l’operato di Kais Saied, il presidente tunisino che sta affossando l’esperimento democratico del suo Paese. Nel luglio scorso Biden ha riabilitato l’erede al trono saudita Muhammad Bin Salman, rimangiandosi le parole pronunciate in campagna elettorale. Il regime algerino, la cui crisi di legittimità è stata evidenziata dal movimento di piazza del 2019, sta vivendo una nuova vita grazie alla ritrovata rendita da idrocarburi. Peraltro, tale indulgenza non produce alcun effetto sul piano internazionale. Molti Paesi del Medio Oriente non hanno ragioni particolarmente solide per distanziarsi dalla Russia né dalla Cina, Paesi con cui condividono interessi e valori senza doversi giustificare per il loro deficit democratico. E soprattutto la Cina, con la sua combinazione di autoritarismo e sviluppo tecnologico ed economico, è un modello particolarmente attraente. In sintesi: diversi Stati arabo-musulmani stanno scommettendo su un mondo multipolare e giocano secondo le regole che questo impone.

 

Da questo punto di vista è emblematica la parabola degli Emirati Arabi Uniti, non più solo attore emergente ma ormai vera e propria potenza regionale. Per gran parte del periodo che va dalla formazione della Federazione nel 1971 alla morte nel 2004 del suo padre fondatore, lo shaykh Zayed, la politica estera del Paese ha avuto per bussola la cooperazione e la solidarietà con gli altri Stati del Golfo e in generale con i Paesi arabo-musulmani. Quest’orientamento si è tradotto tra le altre cose in un sostegno attivo alla causa palestinese. A partire dagli anni ’90 sono andate intensificandosi le relazioni con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la cooperazione militare nella guerra per la liberazione del Kuwait dall’invasione irachena. Da quel momento, con l’eccezione della guerra in Iraq del 2003, gli Emirati hanno partecipato a tutte le operazioni condotte dagli Stati Uniti nel Medio Oriente allargato (Somalia, Kosovo, Libia, Afghanistan, campagna contro lo Stato Islamico). Le cose sono cambiate significativamente negli ultimi anni. Non solo Abu Dhabi ha di fatto abbandonato il suo impegno in favore dei palestinesi, firmando gli Accordi di Abramo nel 2020, ma ha di molto accresciuto la sua autonomia nei confronti degli Stati Uniti e oggi Dubai è la meta principale degli oligarchi russi in fuga dalle sanzioni.

 

Paradossalmente, questo allontanamento da Washington giunge in un momento in cui cultura e passatempi dei Paesi del Golfo, oggi vero baricentro del mondo arabo, sembrano ispirarsi molto più che in passato al modello occidentale. Quando nel 2018 Muhammad Bin Salman ha deciso di far riaprire i cinema nel suo Paese dopo decenni di oscurantismo, il primo film proiettato nelle sale è stato un blockbuster hollywoodiano: Black Panther. Nel dicembre del 2021, a Riyad si è tenuto un inedito convegno di filosofia, durante il quale il filosofo americano Michael Sandel ha potuto dialogare con giovani sauditi invitandoli a coltivare il pensiero critico. E da qualche anno, concerti e rave party sono di casa nella culla del wahhabismo. Nel 2022, il più importante premio letterario arabo, l’International Prize for Arabic Fiction, promosso da Abu Dhabi, è stato assegnato allo scrittore libico Muhammad Alnaas, il cui primo romanzo mette in discussione gli stereotipi di genere raccontando le vicende di un giovane che proprio non riesce a esibire la virilità che la sua società gli imporrebbe, preferendo dedicarsi all’arte della panificazione: non esattamente un tema putiniano.

 

È bastato il mondiale di calcio in Qatar, però, a ricordarci la distanza e le incomprensioni che separano l’Occidente dal mondo musulmano, nonostante l’apparente prossimità creata dal più classico degli eventi globali. Per diverse settimane, i commenti sportivi sono stati oscurati dalle polemiche sul consumo di alcolici e sui diritti umani, sia quelli di seconda generazione (le condizioni dei lavoratori stranieri) sia, soprattutto, quelli di terza generazione (gender e omosessualità), con il Qatar a fare la parte del Paese all’avanguardia in tecnologia e infrastrutture, ma conservatore nei valori, e l’Occidente percepito, non del tutto a torto, come un moralizzatore ipocrita e petulante.

 

Queste divergenze hanno un riscontro nelle posizioni assunte nei confronti della guerra in Ucraina. I sondaggi realizzati nell’ultimo anno nell’opinione pubblica di diversi Paesi mediorientali e nordafricani rilevano una propensione per le ragioni della Russia, che punta a presentarsi come la paladina del Sud del mondo contro l’arroganza imperialista dell’Occidente. I dati raccolti dalla settima rilevazione della Word Values Survey, inoltre, indicano che tra i Paesi più diffidenti nei confronti della NATO figurano l’Egitto e la Tunisia, entrambi Major Non NATO Ally, rispettivamente al primo e al terzo posto. Le cause di questo atteggiamento vanno naturalmente ben al di là delle valutazioni sull’invasione russa dell’Ucraina. In un recente articolo, l’intellettuale e dissidente siriano Yassin al-Hajj Saleh, certo non-tacciabile di filo-putinismo, ha denunciato per esempio l’insensibilità europea per le sofferenze politiche del Medio Oriente.

 

Questo è un problema non soltanto nel quadro della guerra in Ucraina, ma più in generale in quello dei rapporti tra l’Europa e i suoi partner extraeuropei. Lo è sicuramente per l’Italia, che pure sembra ambire a un ruolo da protagonista nel Mediterraneo. Non basta evocare la figura di Enrico Mattei per trasformare la nostra centralità geografica all’interno del Mare Nostrum in una centralità politica e culturale. La guerra in Ucraina ha peraltro dimostrato che, da soli, i rapporti commerciali non scongiurano tensioni e conflitti e che la globalizzazione, ma questo lo sapevamo già, non produce alcuna cultura condivisa. Il teorema degli archi dorati di Friedman (due Paesi in cui è presente il McDonald non si faranno mai la guerra) decisamente non regge alla prova dei fatti.

 

Ricordando la sua partecipazione a un convegno a Firenze nel 1972, uno dei maggiori intellettuali arabi contemporanei, il marocchino Abdallah Laroui scriveva di aver avuto ancora una volta la conferma «della capacità innata degli italiani a capire il dilemma degli arabi». Non sono sicuro che queste parole potrebbero essere pronunciate oggi. Qualche indicazione sulla vocazione che spetterebbe all’Italia si trova in un bel libro di Egidio Ivetic pubblicato l’anno scorso, “Il Mediterraneo e l’Italia”. Ivetic scrive che c’è una dimensione pratica della relazione con il Mediterraneo con cui ogni giorno il nostro Paese si misura e si deve misurare: lo sfruttamento del mare, le questioni energetiche ed economiche, il turismo, etc. Ma c’è anche una dimensione culturale, senza la quale non si può parlare di un ruolo politico veramente consapevole, e che implica la capacità di interagire con tutte le componenti storiche di quest’area: l’antichità classica, la tradizione cristiana latina, quella bizantina e quella orientale, la tradizione islamica, quella ebraica e quella laica moderna.

 

D’altra parte, che sia in senso dialogico o in senso polemico, l’Occidente continua a essere il principale interlocutore del mondo islamico. È con il vescovo di Roma che il grande imam di al-Azhar ha scritto e firmato il documento sulla Fratellanza, non con il Patriarca di Mosca o con il Dalai Lama. Ciò non toglie che sul rapporto tra i Paesi musulmani e l’Occidente continuino a pesare il passato coloniale dell’Europa e la stagione delle disastrose guerre americane in Medio Oriente. E oggi, la grande mobilitazione occidentale in favore dell’Ucraina stride con l’inazione su tanti altri fronti.

 

A questo proposito, è utile tornare su due osservazioni che Simone Weil faceva nel 1943 riflettendo sulla questione coloniale. La prima: «combattere contro i tedeschi – scriveva la filosofa francese – non è una prova sufficiente che amiamo la libertà. […] La prova decisiva sarebbe favorire ogni soluzione che garantisca una libertà almeno parziale a coloro a cui l’abbiamo tolta. Potremmo così convincere non soltanto gli altri, ma anche noi stessi, che siamo davvero ispirati da un ideale». In secondo luogo, Weil affermava che l’Europa non può essere ridotta alla sua dimensione occidentale, dal momento che essa «sembra avere periodicamente bisogno di contatti reali con l’Oriente per restare spiritualmente viva».

 

Commentando queste parole, Augusto Del Noce scriveva che se identificata soltanto con l’Occidente, l’Europa rischia di tradursi nel suo significato etimologico: “il luogo del tramonto”. Teniamolo presente oggi, mentre giustamente sosteniamo le ragioni dell’autodifesa dell’Ucraina.

 

*Testo dell’intervento pronunciato il 25 febbraio a Pesaro al Festival di Scenari