Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:46

Dopo Abu Dhabi, il Papa va in Marocco

 

Papa Francesco è atteso sabato e domenica in Marocco. La Sala Stampa vaticana ha diffuso in questi giorni il programma aggiornato del viaggio, che vedrà nella giornata di sabato il Pontefice impegnato nell’incontro con il popolo marocchino e successivamente con il re Mohammed VI. Le Reporter ha riportato a tal proposito le dichiarazioni del ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale marocchino Nasser Bourita, che ha sottolineato

 

l’aspetto simbolico dell’incontro tra il Papa e il Comandante dei Credenti, due autorità religiose importanti. Il Papa viene in un Paese in cui il Capo di Stato ha uno statuto religioso particolare e non è soltanto Comandante dei musulmani. Ha la responsabilità di proteggere e preservare le tre grandi religioni monoteiste. Il titolo di Comandante dei Credenti esiste dall’IX secolo, è una nozione unica nel mondo musulmano. È questo balcone sul mondo che il Papa ha scelto per lanciare il suo messaggio. Un Paese che svolge un ruolo importante per questioni importanti come la migrazione, la lotta contro il terrorismo e la radicalizzazione, la compassione per i più vulnerabili.

 

 La visita proseguirà nel pomeriggio con la tappa all’Istituto Mohammed VI per la Formazione degli Imam e delle Guide religiose, pilastro del programma di riforma della sfera religiosa, interna ed esterna, iniziato nel 2002. Il portavoce della Sala Stampa vaticana, Alessandro Gisotti, riferisce a La Croix come questo sarà un momento di ascolto per il Santo Padre. Sabato si concluderà infine con l’incontro con i migranti nella sede della Caritas diocesana.

 

La giornata di domenica si aprirà con la visita privata al centro rurale per i servizi sociali di Témara, seguita alle 10.35 dall’incontro con i sacerdoti nella cattedrale di Rabat. Ed è proprio l’arcivescovo di Rabat, Cristóbal López Romero, ad aver spiegato in un’intervista a cura di Claudio Fontana per Oasis i significati della visita papale per la Chiesa marocchina. Un viaggio la cui importanza è sottolineata anche da Padre Jean Koulagna, direttore dell’Istituto ecumenico di teologia al-Mowafaqa di Rabat, che auspica che, grazie all’incontro con Papa Francesco, «il dialogo acquisisca una velocità più sostenuta e riesca a compiere passi concreti». Tel Quel ha riservato un approfondimento proprio all’Istituto, inaugurato nel 2014 e finalizzato alla formazione universitaria in teologia cristiana a studenti cattolici e protestanti. Bakary Sambe, professore all’Istituto, spiega come il Marocco costituisca un modello alternativo di apertura fin dagli anni ’90: «L’offerta di un Islam di pace e aperto al mondo è seducente sotto tutti i punti di vista in un momento in cui altri Paesi sprofondano sotto le espressioni radicali di cui l’Islam è ostaggio». Ma allo stesso tempo, «il religioso è uno strumento di soft power che il Marocco ha posto al centro della sua politica di influenza».

 

Come nella precedente visita ad Abu Dhabi, il Papa celebrerà la Santa Messa alle 14.45 di domenica nel complesso sportivo Principe Moulay Abdellah, prima di ripartire per Roma alle 17.15.

 

Il viaggio di Papa Francesco è il secondo in meno di due mesi in un Paese a maggioranza musulmana, dopo quello negli Emirati a febbraio. I due Paesi, così lontani geograficamente, hanno in realtà alcuni aspetti in comune. Rabat e Abu Dhabi, infatti, promuovono una lettura moderata dell’Islam, rappresentando così un interlocutore valido per il Pontefice, e ospitano comunità cristiane legate all’immigrazione. Come riporta Le Monde, la visita sarà l’occasione per incontrare i 30.000 cristiani del Paese, che hanno recentemente espresso, per bocca del Coordinamento dei cristiani marocchini, il desiderio un Marocco libero che riconosca la diversità religiosa. Il quotidiano francese La Croix ha dedicato un reportage ai cristiani in Marocco. In pochi anni, decine di migliaia di africani subsahariani hanno ridato linfa vitale alla Chiesa cattolica del Marocco, che era ridotta all’osso. Felice coincidenza, quest’anno il Marocco celebra 800 anni di presenza francescana nel Paese. Il tema della libertà religiosa è di grande attualità nel Regno, dove l’Islam è la religione di Stato e il cosiddetto “proselitismo aggressivo”, definito come lo scuotere la fede di un musulmano o convertirlo a un'altra religione, comporta pene fino a tre anni di carcere.

 

Un ruolo politico per la religione non è una prerogativa marocchina, ma accomuna diversi Stati, fra cui la Turchia. In un articolo del Financial Times, Markus Kerber, un alto funzionario del Ministero degli Interni tedesco, ha infatti denunciato il ruolo politico che l’Islam turco gioca in Germania, dove 900 delle 2400 moschee sono vicine alla visione politica dell’Islam promossa da Ankara. La riduzione delle ingerenze straniere, la formazione degli imam sul suolo tedesco e una maggior integrazione nel tessuto sociale dei musulmani sono i tre principali obiettivi di Berlino, che mira a introdurre una forma di Islam tedesco, conforme ai valori liberal-democratici e libero dalle influenze politicizzanti di matrice turca. Se da una parte molti intellettuali musulmani liberali hanno applaudito all’iniziativa, dall’altra l’Unione Turco-Musulmana per gli Affari Religiosi in Germania, meglio nota con l’acronimo DITIB ed emanazione della Presidenza degli Affari religiosi (Diyanet), ha ribadito la sua contrarietà, poiché un Islam nazionale sarebbe «in netta contraddizione con l’universalità dell’Islam».

 

 

Quale Islam in Cina?

 

La tendenza a “nazionalizzare” una religione non è comunque un fenomeno che si ritrova solo nella relazione fra Ankara e Berlino. Ci si può infatti imbattere nello stesso tema quando si guarda alla Cina, dove da anni il governo centrale ha avviato una politica di “cinesizzazione” dell’Islam. Inizialmente, le attenzioni di Pechino erano rivolte alla comunità di etnia turca degli uiguri, vera spina nel fianco per il governo a causa delle continue rivendicazioni in termini di libertà religiosa e autonomia. La creazione di campi di rieducazione e le violenze ai danni degli uiguri hanno però attirato le attenzioni della comunità internazionale. Ultimo ad aver denunciato gli abusi governativi ai danni della popolazione uigura è il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, come riportato in questo articolo del Guardian.

 

Eppure le brutalità contro le minoranze musulmane, storicamente limitate alla comunità uigura, sono arrivate a colpire anche l’etnia Hui, tradizionalmente più vicina alla cultura cinese e maggiormente incline a una posizione quietista. Questa escalation, ricostruita su Foreign Policy da Liwei Wu (pseudonimo di un accademico che vive in Cina), ha raggiunto un primo picco nel 2016, quando il Presidente Xi Jinping ha sottolineato la necessità «di guidare tutte le religioni verso la compatibilità con una società socialista». Un secondo momento chiave è stato raggiunto nel 2017, quando tutte le attività religiose non ufficiali sono state vietate e le cosiddette “case-moschee” sono state chiuse con il sigillo dell’Ufficio per gli Affari Etnici e Religiosi. Un terzo picco è stato infine registrato nel gennaio di quest’anno con l’inaugurazione di un piano quinquennale di cinesizzazione dell’Islam, che prevede il divieto di ogni forma di educazione religiosa, anche nelle moschee riconosciute da Pechino.

 

 

Quale Islam in Siria?

 

Mentre la Germania cerca un Islam tedesco conforme ai propri valori fondanti, la Turchia propone un Islam nazionale politicizzato e la Cina mira a una cinesizzazione dell’Islam attraverso una rigida repressione, anche in Siria si sta assistendo a un riassestamento della sfera religiosa.

 

Come evidenziato in questo report del Carnegie Middle East Center pubblicato mercoledì, le autorità religiose hanno da sempre rivestito un ruolo chiave per il regime alawita, che le ha gestite attraverso una strategia di cooptazione per ottenere legittimità sociale. La progressiva, sebbene limitata, liberalizzazione del campo religioso perseguita da Bashar al-Assad, insieme all’instabilità regionale e alle rivolte del 2011, ha permesso agli imam di svolgere un ruolo sempre più importante nello spazio pubblico siriano.

 

Il report però si concentra sul periodo successivo al 2011, quando la sfera religiosa siriana si è divisa in sostenitori e oppositori del regime. Questi ultimi erano attivi in tre aree: la periferia meridionale di Damasco (Babila, Yalda e Beit Sahim) con gli imam Anas al-Taweel, Salih al-Khatib e Mohammed Noureddin al-Hindi; la zona di al-Tall, con un gruppo di giovani imam; e infine la città di Kfar Bana nella Ghouta orientale, con lo sheikh Bassam Dafdaa.

 

L’avanzata del governo centrale, la presenza di milizie jihadiste, le fratture all’interno dei gruppi ribelli e il deterioramento delle condizioni dei civili hanno però contribuito a un riposizionamento di questi clerici. Questi elementi hanno infatti spinto i religiosi a riconsiderare il proprio schieramento e a diventare parte attiva dei comitati di riconciliazione. In questo modo sono riusciti a garantirsi allo stesso tempo una certa influenza sui civili, grazie a beni e servizi che sono riusciti a procurarsi tramite lo Stato, e le simpatie del governo, che ha ancora una volta dimostrato il successo di quella strategia di lungo corso quale è la cooptazione.

 

 

La (non) fine di Isis

 

L’attenzione in Siria è però stata capitalizzata, in particolare dopo il 2014, da un altro attore, ovvero Isis. La liberazione da parte delle Forze Democratiche Siriane di Baghouz, ultima roccaforte del sedicente Stato Islamico, ha fatto pensare a molti alla sua fine. Dal 10 al 23 marzo, infatti, sono state condotte tre operazioni parallele finalizzate a smantellare definitivamente l’autoproclamato Califfato. Accanto all’offensiva di terra di marca curda e parte dell’Operazione Jazeera Storm, la Coalizione Internazionale ha condotto 193 raid aerei e l’esercito siriano ha lanciato un attacco dalla zona di Abu Kamal.

 

Ma molti osservatori internazionali hanno accolto con estrema cautela i proclami delle milizie curde, domandandosi se Isis potesse essere considerato definitivamente sconfitto. In realtà, già lo stesso portavoce delle SDF, Mustafa Bali, aveva parlato in un tweet di «sconfitta territoriale», lasciando intendere che non si potesse parlare di completa distruzione di Isis.

 

La stessa tesi è ripresa anche sul New York Times da Fawaz Gerges, secondo cui non è possibile parlare di sconfitta definitiva, almeno fino a quando le cause che hanno portato alla formazione di Isis non verranno totalmente rimosse. E secondo l’autore le cause di lungo corso sono tre: una crisi organica dei sistemi di governo della regione, un inasprimento dei rapporti fra mondo sunnita e mondo sciita e una destabilizzazione degli equilibri mediorientali. A questi elementi va aggiunto anche il fatto che in questi anni lo Stato Islamico si sia ramificato, dando vita a un network internazionale che rende parzialmente inefficaci le tradizionali strategie anti-terrorismo.

 

Ed è proprio sull’internazionalizzazione di Isis che si è concentrata Tabitha Sanders su Washington Monthly, raccogliendo le opinioni di Lina Rafaat, docente all’Università di Chicago. Secondo Rafaat, la propaganda dello Stato Islamico è in costante crescita, pur avendo proposto per lo più una narrativa incentrata sulla resistenza e sulla resilienza ed essendosi maggiormente concentrata sulle filiali locali. Basta infatti visitare il sito https://jihadology.net/ (un sito web di natura accademica che raccoglie le comunicazioni social di numerosi gruppi jihadisti) per notare come gli ultimi messaggi arrivino da gruppi affiliati a Isis attivi in Afghanistan e nel Sinai.

 

La diffusione frammentata di Isis e il ritorno alla guerriglia come forma di conflitto armato non possono però essere solamente sostenuti da un’efficace propaganda: l’accesso a ingenti risorse è infatti un elemento fondamentale per l’esistenza stessa del Califfato. Pur non dovendo più sostenere le spese proprie di qualunque Stato, la “sconfitta territoriale” ha inflitto un apparente colpo mortale alle finanze dello Stato Islamico, privandolo di due grandi fonti di sostentamento, ovvero petrolio e tasse. Nonostante ciò, Isis può ancora contare su ampie riserve di denaro da cui attingere, come scrive su The Atlantic da David Kenner. In particolare vi sono sei attività dalle quali Isis trae ancora un beneficio non indifferente. Accanto alle attività commerciali siriane e irachene e ai conti bancari turchi riconducibili a Isis, vi sono altre fonti illegali: il furto di petrolio, la corruzione e le estorsioni ai danni della popolazione. Merita però un piccolo approfondimento l’ultimo sistema usato da Isis per finanziarsi, ovvero la hawala. La hawala è un sistema economico informale che si basa sulla mediazione. Si ha per esempio la necessità di trasferire una certa somma da Baghdad a Damasco. Anziché rivolgersi a una banca, si interpella un broker a cui viene data la cifra. Lui contatterà un suo pari a Damasco, che erogherà la cifra a chi spetta. Entrambi gli intermediari, però, trattengono una piccola percentuale e il debito fra di loro verrà saldato o con una successiva operazione sull’asse Damasco-Baghdad oppure con un ripianamento diretto del debito. Secondo alcuni analisti citati da The Atlantic, Isis sarebbe a capo di una rete capillare di hawala, che gli permetterebbe di muovere ingenti capitali in poco tempo, senza lasciare traccia e all’interno di un circolo chiuso.

 

Se dunque, alla luce di quanto detto, è fuorviante parlare di eliminazione del Califfato, è altrettanto legittimo parlare della fine territoriale dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Viene però spontaneo chiedersi: se Isis è stato sconfitto, chi ha vinto?

 

Ed è proprio a questa domanda che prova a rispondere per ISPI Eugenio Dacrema, che identifica quattro tipi di vincitori. «Alcuni sono vincitori di Pirro, come i curdi delle Unità di Protezione Popolare», dovendo ancora fare i conti con Turchia e Siria. Ed è proprio il regime di Assad a uscire come «vincitore per interposta persona», essendosi liberato di Isis grazie alla Coalizione Internazionale. In quest’alleanza hanno poi giocato un ruolo importante gli Stati Uniti, definiti quindi come i «vincitori tiepidi», poiché sì in prima linea contro Isis, ma sempre più intrappolati nell’intreccio regionale.

 

C’è però almeno un altro grande – anche se inaspettato – vincitore, ovvero George W. Bush. La vittoria dell’ex presidente è indiretta ed è legata alla sua dottrina in materia di anti-terrorismo, che è stata riproposta contro il Califfato. La forza di questo approccio si fonda su tre assunti: la concezione del terrorismo come male estremo, la dicotomia del “noi contro loro” e l’adozione di un approccio militarista, sia sul campo sia nelle narrative. Una forza che ha permesso a questa strategia di confermarsi sicuramente come longeva, ma purtroppo quasi mai come efficace.

 

 

IN BREVE

 

Arabia Saudita: Rick Perry, Segretario dell’Energia degli Stati Uniti, avrebbe approvato un programma, noto come Part 810s, che permetterebbe a sei compagnie americane di trasferire a Riyadh tecnologie nucleari. L’indiscrezione arriva dal Daily Beast ed è subito stata ripresa da Reuters.

 

Turchia: come riportato dal quotidiano turco Hurriyet, il Presidente Erdogan ha espresso ancora una volta l’intenzione a trasformare Santa Sofia in una moschea. La proposta ha suscitato le critiche da parte di alcuni intellettuali musulmani, come Mustafa Akyol.

 

Mali: oltre 130 pastori di etnia Fulani sono caduti vittime di un attacco fa parte di centinaia di agricoltori di etnia Dogon. Questo articolo della BBC ricostruisce le origini degli attriti e i numerosi scontri fra i due gruppi.

 

Algeria: mentre continuano le proteste in un clima di festa, come riferisce Jadaliyya, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Ahmed Gaid Salah, ha definito il Presidente Bouteflika inadatto a governare davanti al Consiglio Costituzionale

 

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