Mentre attende la visita di Papa Francesco, Cristóbal López Romero, arcivescovo di Rabat, spiega quali sono le priorità di una Chiesa che vuole essere samaritana

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:32

Cristóbal López Romero è stato nominato Arcivescovo di Rabat il 29 dicembre del 2017, e ha fatto il suo ingresso in Diocesi il 10 marzo 2018. Dopo aver ricoperto diversi incarichi in Paraguay, Bolivia e Spagna, il nuovo ministero lo ho costretto a rimettersi in gioco, ma non lo ha trovato impreparato. Sette anni passati in Marocco, dal 2003 al 2010, come direttore di una scuola salesiana, gli hanno infatti insegnato le vie possibili del dialogo con i musulmani. Mentre si appresta a ricevere la visita del Papa, ci ha raccontato in questa intervista la sua esperienza.

 

Intervista a cura di Claudio Fontana

 

 

Eccellenza, che significato ha per la Chiesa in Marocco e per il tutto il Paese la visita del Papa?

 

Per noi la visita del Papa significa molte cose. In primo luogo, che il Papa apprezza e ama questo Paese, così come apprezza gli sforzi che Sua Maestà e tutto il popolo stanno facendo da molto tempo per migliorare le condizioni di vita della gente. In secondo luogo, che desidera rafforzare, qui e ovunque nel mondo, il dialogo interreligioso e, più concretamente, l’incontro islamo-cristiano. In terzo luogo, significa che il Papa approva e incoraggia il cammino di questa piccola comunità cristiana, visitandola nel momento in cui celebriamo l’anno giubilare per gli 800 anni di presenza francescana in questa terra, nello stesso anniversario dell’incontro tra Francesco di Assisi e il Sultano al-Malik in Egitto.

 

Il Papa viene a compiere la sua missione di confermarci nella fede, a sostenere la nostra speranza (“Servitore della speranza” è il motto della visita) e ad accendere in noi l’amore. Francesco è un Papa che non si limita a predicare con parole e documenti, ma parla e trasmette il Vangelo con gesti e fatti, come quello di venire qui prima ancora di visitare popoli e nazioni tradizionalmente cristiani.

 

 

Prima di essere nominato Arcivescovo di Rabat lei era già stato in Marocco dal 2003 al 2010, come direttore di una scuola. Ci può raccontare la sua esperienza?

 

Ho passato quasi otto anni a Kenitra, una città di più di mezzo milione di abitanti a nord di Rabat. Sono salesiano ed ero direttore della scuola Don Bosco. Non insegnavo, ma ogni giorno parlavo coi ragazzi, con i loro genitori, partecipavo alle riunioni con i professori. Nella scuola primaria e secondaria erano tutti musulmani. C’erano solo due cattolici: la scuola e io. Tutti gli insegnanti erano musulmani e solo sporadicamente abbiamo avuto dei collaboratori francesi cattolici. L’esperienza è stata molto interessante perché, nonostante fossero tutti musulmani, la scuola era veramente salesiana.

 

 

Cosa intende? Come è possibile definire salesiana una scuola dove sono tutti musulmani?

 

Lo spirito di famiglia, l’ambiente della comunità educativa, l’amabilità, il sistema preventivo di don Bosco, il senso religioso (non cristiano, ma musulmano), sono gli elementi che anche oggi caratterizzano quella scuola. Ogni venerdì si proclama il Corano, e questa è stata una mia personale decisione. Io stavo in piedi accanto al ragazzo che, al microfono, recitava il Corano. Pregavo per conto mio, come cristiano.

 

La scuola don Bosco fa parte dell’ECAM (Enseignement Catholique Au Maroc, insegnamento cattolico in Marocco), un coordinamento che raggruppa 15 scuole, frequentate per lo più da musulmani, che seguono uno stesso progetto educativo. Quando ho letto il progetto, ho pensato: non ci sono citazioni esplicite, ma questo è il Vangelo! E allo stesso modo, quando i musulmani leggono il progetto educativo dicono: questo risponde alla nostra religione. Per me questo è un esempio di dialogo interreligioso: cristiani e musulmani, lavoriamo insieme con un unico e solo progetto educativo che mira a formare «onesti cittadini e buoni musulmani» [riferimento alla citazione di Don Bosco «onesti cittadini e buoni cristiani»]. Il dialogo infatti non è fatto soltanto di discussioni teologiche, ma si articola su quattro livelli: quello ordinario della vita, dell’amicizia e della convivialità. Poi c’è il secondo livello: lavorare insieme per le grandi cause dell’umanità: educazione, sanità, diritti umani... Il terzo livello è quello teologico: condividere la fede che ciascuno vive. Anche questo terzo livello è praticato nelle scuole dell’ECAM. Esiste infatti un gruppo di professori che tengono delle riunioni per parlare del giorno della Pasqua, della festa islamica del sacrificio, del Ramadan, della donna secondo le rispettive religioni. Sono tutti momenti in cui si condivide la fede e la pratica religiosa.

 

 

Chi sono gli interlocutori di questo dialogo teologico?

 

Sono i professori delle nostre scuole, selezionati tra coloro che hanno più apertura e desiderio di vicinanza con noi. Il massimo del dialogo (quarto livello) sarebbe poi quello mistico: pregare insieme, o almeno pregare ciascuno a suo modo ma insieme. È chiaro che il più semplice e più importante, perché riguarda tutti, è il primo livello, quello dell’amicizia, poi quello del lavoro insieme, via via gli altri. Nell’ECAM trovano spazio quasi tutti i livelli: il primo e il secondo tutti i giorni, il terzo è minoritario e il quarto solo ogni tanto.

 

 

Nella scuola di Kenitra quindi i professori conoscono la figura di don Bosco?

 

Quando sono arrivato non la conoscevano. Ma ho fatto vedere un film su di lui, distribuivo libri sulla sua vita e ne parlavo tanto. Abbiamo anche organizzato delle giornate pedagogiche su di lui e sul sistema preventivo [il metodo educativo elaborato da Don Bosco, che, basato su ragione, religione e amorevolezza, si contrappone a quello repressivo in vigore nel XIX secolo e mira a mettere gli allievi nella condizione di non sbagliare, NdR, NdR]. Molti professori sono diventati “fanatici” di don Bosco, l’hanno studiato a lungo scoprendone la ricchezza pedagogica. C’era addirittura un professore che, mentre era a Lione per laurearsi in scienze dell’educazione, ha saputo che si sarebbe tenuto in città un congresso dei salesiani e ha voluto partecipare. Durante l’incontro un direttore di una scuola salesiana francese ha chiesto: «come possiamo mettere in pratica il sistema preventivo di don Bosco quando nella mia scuola il 20% degli allievi è musulmano»? Il professore allora ha alzato la mano e ha detto: «io sono musulmano, nella scuola don Bosco di Kenitra siamo tutti musulmani, professori e allievi, e mettiamo in pratica il sistema preventivo senza problemi». Tutti sono rimasti a bocca aperta. Questo vale per tutte le scuole dell’ECAM. Quella di Kenitra può essere un po’ particolare perché ha alle spalle una comunità religiosa ma ci sono altre scuole dell’ECAM dove il direttore è musulmano. Ma il progetto educativo è veramente cristiano.

 

 

Quanti sono i fedeli nella diocesi di Rabat?

 

Diciamo 30.000, ma è molto difficile saperlo con precisione; circa il 75% proviene dall’Africa subsahariana, ma ci sono anche filippini. Si tratta di una chiesa veramente cattolica e universale: ci sono fedeli di 100 nazionalità, i sacerdoti e le religiose sono di 40 paesi diversi. La domenica di Pasqua ho celebrato l’Eucarestia a Casablanca e c’erano 1200 persone per una messa che è durata 2 ore. Penso che in Europa sia impossibile trovare qualcosa di simile. La nostra è una Chiesa dove ci sono più uomini che donne, più giovani che vecchi e più neri che bianchi. L’età media dei fedeli è circa 35 anni.

 

 

Sulla base di questa natura particolare della Chiesa marocchina, quali sono le sue priorità di arcivescovo?

 

La priorità è sempre una: l’amore, come ho ricordato durante la mia ordinazione. Questa è la mia priorità, amare le persone: i preti, le religiose, i fedeli e i musulmani tutti. Mi considero inviato a tutti, non soltanto ai cristiani: nella mia diocesi non ci sono 30.000 persone, bensì 35 milioni. La seconda priorità è costruire il regno di Dio. Per questo ho scelto nel mio stemma la frase: adveniat regnum tuum. Perché la priorità non è la Chiesa: la Chiesa è lo strumento, il segno del regno di Dio. Quindi non devo preoccuparmi troppo che la Chiesa cresca in termini numerici, ma che il regno di Dio si sviluppi. Tradotto, questo significa che devono aumentare la giustizia, la pace, la verità, la vita, l’amore. Naturalmente sono molto contento che nell’ultima notte di Pasqua ci siano stati più di 30 battesimi, e che nel maggio scorso abbia fatto 70 cresime, ma non è questo l’obiettivo primario.

 

 

Come si può far crescere il regno di Dio?

 

Lavorando con i musulmani. Certo, dire che stiamo lavorando per far crescere il regno di Dio è un linguaggio nostro. Ma se diciamo «lavoriamo perché la donna sia rispettata», questo è un obiettivo comune che per noi coincide con la crescita del regno di Dio. Poi c’è una terza priorità: costruire ponti. In un mondo dove ci sono tanti costruttori di muri, noi vogliamo costruire dei ponti. Nel mio stemma c’è il mare, ma c’è anche un ponte, che è la croce. Vogliamo essere piccoli ponti, che è anche il significato di Kenitra (dall’arabo Qunaitra, NdR). Vorrei che ogni cristiano fosse un piccolo ponte tra cristiani e musulmani, tra Europa e Africa, tra i ricchi e i poveri, tra Occidente e Oriente, sulla scorta del Papa, che è il Sommo Pontefice.

 

 

In Europa si parla tanto di migranti. Cosa può dire al riguardo dal Marocco?

 

Molti dei migranti che arrivano in Marocco si fermano per qualche anno, ma l’obiettivo è sempre raggiungere l’Europa. L’impresa però è difficile, rischiosa e molto costosa. Molti dei migranti presenti in Marocco sono camerunensi, ivoriensi e guineani, ma in generale arrivano da tutta l’Africa subsahariana, da dove scappano – ed è un diritto umano – per questioni politiche, legate alle guerre, ed economiche.

 

La nostra vuole essere una Chiesa samaritana. Questo si realizza soprattutto con i migranti, ma anche con i musulmani che lavorano nei villaggi lontani dai centri cittadini. Tanto avviene attraverso Caritas Maroc, che lavora molto con i migranti. C’è un programma che si chiama Qantara (ponte) con 30/40 persone che ci lavorano. Qui a Rabat c’è il CAM (Centre d’Accueil Migrants), e a Casablanca il SAM (Service Accueil Migrants) gestiti dalla Caritas. Poi ci sono altre realtà più piccole a Meknès, Fez e a Oujda. Accogliere, accompagnare e aiutare materialmente e spiritualmente è importante per cristiani e musulmani. Anche economicamente l’accoglienza dei migranti è un capitolo importante del nostro bilancio. Il servizio ai migranti e agli ammalati, come fanno a Casablanca le suore di Madre Teresa, è l’aspetto dove più concretamente si vive una Chiesa povera e per i poveri.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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