Conclusioni di Mario Mauro per la conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa” del 28 settembre 2023

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:12:03

La giornata è stata interessantissima, tutti sono stati molto bravi. Io mi limiterò a essere molto breve. Vorrei mettere in evidenza quello che, secondo me, è il cuore del lascito con cui abbiamo aperto i nostri lavori, cioè l’intuizione della Fondazione Oasis o, meglio, l’intuizione del Cardinale Scola, che ormai da anni ci ha proposto la chiave di lettura del meticciato di civiltà.

Cambiare rotta, per chi sa di mare, è apparentemente un’operazione semplicissima, ma molto spesso ha delle controindicazioni. Alla fine di questa giornata e al termine dei nostri lavori possiamo dire di avere gli elementi che ci consentono di cambiare rotta andando nella direzione giusta. Io credo che il senso di molti degli interventi che ho ascoltato indichi un primo elemento ineludibile per cambiare rotta all’interno di un complesso di fattori come quelli che sono stati sottolineati sul piano politico, geopolitico, sociologico, economico, e via dicendo. Quello che io vedo come un’alternativa concreta o, meglio, come un suggerimento concreto che possiamo mettere a disposizione del tentativo di trovare risposte a un fenomeno così complesso, è favorire delle “dinamiche di comunità”. Meticciato di civiltà essenzialmente vuol dire questo: non è il migrante, è il mio ospite, e quell’ospite è un volto a cui nel tempo, dando fiducia, consentirò di poter generare con me un’esperienza nuova. Qualcuno potrebbe dire una nuova civiltà. È andata sempre così, in fondo, nella storia. Il problema è che oggi ci sono dei nodi che sono particolarmente cruciali, se vogliamo dare una speranza ad una generazione, perché tutti i fenomeni di carattere migratorio portano con sé una logica destabilizzante. In che senso destabilizzante? Se prendete il Libano è cento volte vero: un Paese da quattro milioni di abitanti in cui più di un milione di persone hanno cercato rifugio dalla tragedia siriana. Questi, che all’inizio hanno vissuto della generosità libanese, oggi rischiano di soccombere al suo risentimento. Pensiamo alle molte persone rese povere dalla crisi economico-finanziaria e politica libanese: fino a ieri sentivano come punta d’orgoglio il fatto che negli ospedali e nei dispensari si desse la precedenza al rifugiato, perché era il modo di illustrare la grandezza della storia del Paese. Oggi, invece, lo vivono come una ferita perché loro stessi sono poveri. È una cosa destabilizzante. Lo avete sentito nelle parole e nelle titubanze di gran parte del nostro ceto politico, che entra in un curioso cul de sac perché, quando pensa al nostro Paese, pensa solo all’immigrazione e non riesce più a pensare all’emigrazione. Eppure, nel saldo, l’Italia è, oggi, non ieri, un Paese con più emigrati che immigrati. Emigrano i nostri ragazzi: se lunedì mattina andate a Linate e prendete l’aereo per London City Airport delle 7 del mattino è pieno della meglio gioventù, cioè di quella che vive la dimensione dell’emigrazione, peraltro solo da pochi mesi, da quando è accaduta la Brexit, perché fino al giorno prima non potevano nemmeno essere considerati in quella condizione. Per quanto riguarda la sfida politica, occorre fare attenzione a un punto molto interessante: l’invasione paventata è fatta da centinaia di migliaia di persone che, in anni alterni, fino al milione clamoroso della fuga dalla Siria, ha investito l’Europa rendendola preoccupata per il proprio futuro, addirittura sovrapponendo questa preoccupazione alla paura del terrorismo di matrice islamista e alla visione dello “scontro di civiltà”. In una notte, con buona pace di tutti, l’Unione Europea ha reso europei non un milione di siriani, ma 150 milioni di persone: tutto quello che cadeva giù dall’implosione del sistema sovietico, i polacchi, gli ungheresi, i cechi, gli slovacchi, gli sloveni. Lo ha fatto perché, nella “dinamica di comunità” che ha investito il senso di responsabilità di chi viveva allora l’esercizio della cosa pubblica, è apparso più logico e immediatamente conveniente favorire un’oggettiva integrazione, fino all’integrazione politica e istituzionale, piuttosto che correre il rischio di una frammentazione che aveva già la forma dei polacchi a migliaia fuori dalla stazione centrale di Milano, di Parigi e di Amsterdam: il famoso plombier polonais, colui che rappresentava quella “dinamica di comunità” che ci avrebbe poi portato alla Costituzione europea, la prima nella storia di questo progetto politico. “Dinamica di comunità” ha un significato enorme, vuol dire guardarsi, voler andare a guardare le ragioni dell’altro.

 

C’un secondo fattore: il lavoro che abbiamo fatto oggi, ci aiuta a passare dai numeri alle facce. Nel 2013 affondarono 367 persone al largo di Lampedusa, anzi non al largo, a pochi metri da Lampedusa. Quella tragedia portò quel governo e chi in quel momento reggeva il dicastero della Difesa, cioè il sottoscritto, a varare Mare Nostrum, operazione militare e umanitaria italiana che, nell’anno in cui funzionò, salvò 150.000 persone in mare. In quell’anno non ci furono altri morti annegati. Passiamo, una volta per tutte, dai numeri alle facce, perché pesa sul conto della storia e pesa sul senso di responsabilità di chi gestisce la cosa pubblica. Se invece di metterci nella posizione di affrontare il fenomeno migratorio, lo eludiamo, la storia si vendica. Guardate che noi siamo ancora in questa circostanza cruciale. Mare Nostrum nasce per le ragioni che ho detto. Ma per quali ragioni finì dopo appena un anno? Perché l’Unione Europea era preoccupata che quel tipo di intervento nel Mediterraneo diventasse pull factor, attraendo nuove persone e facendo passare l’idea che si potesse attraversare il Mediterraneo in sicurezza. Per di più col rischio che, nei cosiddetti movimenti secondari, le persone si potessero spostare facilmente dall’Italia verso la Francia, la Germania e verso tutti quei Paesi che hanno maggiori capacità di attrazione. In alternativa fu proposta l’operazione “Triton”, poi seguita da “Sophia”, poi sostituita da “Irini”, che avevano come scopo dichiarato il pattugliamento, in modo tale da rendere sicuri i confini europei. Ma il primo concreto effetto, perché il diavolo è nei dettagli, è che arretrarono la zona di pattugliamento dalle 400 miglia in cui si spingeva la flotta militare italiana alle 30 miglia. Risultato? 370 miglia in più a disposizione per morire.

 

Io vorrei che tutti ricordassimo che non è la prima volta che il governo italiano e la sua Marina militare vengono usate per una questione di immigrazione. È già successo nel 1977 e nel 1979, soprattutto quando unità della Marina vennero dislocate nel Mar Giallo, nel Sud-Est asiatico, a prendersi i cosiddetti “Boat People”. In quella specifica missione ne salvarono mille e li portarono in Italia. Poco tempo fa abbiamo celebrato quell’evento con grande dovizia di particolari e servizi televisivi. Che cosa vuol dire questo? Cosa vuol dire passare dai numeri ai volti delle persone? Vuol dire che – anche attraverso gli strumenti della conoscenza, della religione e della politica e via dicendo – quell’analisi che fa uscire dalla logica del bar è proiettata ad accompagnare il destino di una generazione, facendoti fare il tifo per l’altro e la responsabilità per la realtà che ti è affidata.

 

Nel momento in cui compare un’empatia di questo tipo, una modalità che genera questo approccio, tutte le difficoltà vengono vinte, persino quelle che oggi ci appaiono addirittura incredibili: 10.000 chilometri fatti per andarsi a prendere i migranti, non un pattugliamento per timore del giudizio storico. Era appena finita la guerra del Vietnam, e il mondo di allora era diverso. Ma quello che conta è come io guardo te. Quello che conta è stato bene espresso in tanti interventi, come quello dell’arcivescovo di Rabat che ha richiamato le parole della nostra amica italo-siriana. Le suore di quella determinata confessione hanno detto: «Ma noi ci rifiutiamo di chiamarli migranti, è una persona». E, per chi ha inciso nel proprio cuore l’esperienza della relazione col trascendente, quel volto lì è un altro volto. È il volto sanguinante e misterioso che ha dato senso e confine ai termini della Storia. È proprio per questo che l’approfondimento che Oasis ha inteso fare in questa circostanza è un fattore a disposizione della comunità, la comunità della scienza, la comunità dell’intelletto, ma anche la comunità politica che sente responsabilità per il destino di una generazione. E starei per dire anche la comunità internazionale, che troppo spesso fa approfondimenti nelle sedi più opportune alla luce dei numeri, dimenticando la lezione di Manzoni. Nei Promessi sposi Manzoni lo dice con chiarezza: c’è una Storia che è scritta dai potenti, perché sono loro i vincitori dei conflitti e quindi te la raccontano come vogliono loro. Si tratta dell’ideologia, di cui si è parlato in uno degli ultimi interventi, quello della nostra amica sociologa. Ma c’è una Storia che è scritta dagli umili ed è l’unica che dà senso alle dinamiche di questo mondo: una comunità internazionale, una comunità intellettuale, una comunità fatta dai vicini di casa. Si capirà quindi che la categoria della destabilizzazione, cioè dell’inquietudine che i fenomeni migratori portano, si accompagna sempre a un’altra categoria, quella della rigenerazione.

 

Non ci credete? Andate alla clinica Mangiagalli a Milano e forse capirete bene che cosa intendo dire. Ma se andate alla Camera di Commercio (se ci fosse ancora la professoressa Beretta potrebbe tenere una dotta analisi su questo punto), su 100 aziende che nascono, 65 sono messe in piedi da immigrati. Se non è questa la rigenerazione del tessuto sociale, civile, economico, finanziario, politico di una nazione, cos’altro dovrebbe essere? Grazie.

 

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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