Un dialogo aperto tra intellettuali e professori all'Università Saint-Joseph di Beirut sul possibile futuro della regione e sul destino dei rapporti tra cristiani e musulmani ha mostrato quanto può essere vivace il Libano e quanto può essere di aiuto alla vecchia e stanca Europa.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:23

Ci sono una nutrita rappresentanza del corpo accademico dell’Università Saint-Joseph, alcuni intellettuali di varia provenienza e vari studenti ad attendere il cardinale Angelo Scola per il momento di dialogo a tutto campo sul Medio Oriente promosso dal rettore dell'ateneo, monsignor Selim Daccache, di concerto con Oasis. Dopo una presentazione del progetto Oasis, che ha superato i primi dieci anni di vita, dell’omonima rivista, di recente rinnovata dopo venti numeri di pubblicazione, della newsletter e dei progetti di ricerca, il cardinale Scola pone due domande di fondo ai presenti, per avviare il confronto: la prima su quale avvenire si intraveda realisticamente per la Siria e più in generale per il Cristianesimo orientale dal Libano; la seconda su cosa abbia scatenato in Medio Oriente la miscela esplosiva di modernità, post-modernità e tradizione. Ne nasce un articolato dibattito, acceso in alcuni passaggi, nel quale si sono avvertite voci diverse di libanesi che si misurano e confrontano. Una “polifonia” che ha offerto a chi veniva dall’Europa la possibilità di leggere con occhi nuovi la situazione medio-orientale e i modelli di coesistenza tra cristiani e musulmani. È Fadia Kiwan, direttrice dell’istituto di scienze politiche, a intervenire per prima, con una tesi forte: «Rifiutiamo l’idea dei cristiani come minoranza che l'Occidente deve proteggere. La mentalità è cambiata. Stiamo uscendo dall’idea di minoranza per pensarci in primo luogo come cittadini». Per Mohammad Nokkari, shaykh sunnita e ideatore della festa islamo-cristiana dell’Annunciazione, «i musulmani sono arrivati a porre al centro della loro riflessione il ruolo dei cristiani in Libano e a constatare che la religione autentica non ha nulla a che fare con il terrorismo». Una posizione con cui concorda in pieno Hares Chihab, co-segretario generale del comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano. Per Chihab «nell'Islam oggi il problema è l'interpretazione dei testi. Non può restare immutata nei secoli: c'è bisogno di una riforma che aggiorni le categorie interpretative». C'è anche chi, come p. Richard Abi Saleh, pone domande più che offrire risposte: «Dobbiamo chiederci se i cristiani sono attori o spettatori in questo Paese. Come cristiani non possiamo eludere questa domanda: qual è la nostra missione qui ora? Siamo figli di un Dio incarnato e dobbiamo interrogarci su cosa significhi per noi restare incarnati in questo Paese». Sulla stessa lunghezza d’onda p. Gaby Hachem, p. Edgar el Haiby, direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose, e p. Thom Sicking, preside della facoltà di scienze religiose, che sottolineano tutti l’importanza della dimensione ecumenica. In questo senso, richiama Thom Sicking, «la crisi di ISIS ha anche un aspetto paradossale, in quanto spinge i cristiani della regione a unirsi». Antoine Corbane riformula a suo modo la categoria di meticciato di popoli e di culture: «Io la comprendo come un’osmosi culturale reciproca, a livello locale, regionale e globale. In Medio Oriente abbiamo bisogno di spazi inclusivi, e di apprendere la cittadinanza come testimonianza nella società, secondo il modello della Lettera a Diogneto». Secondo Saoud al-Mawla, sciita, «cristiani e musulmani in Oriente hanno preso coscienza del proprio ruolo, sono più vicini reciprocamente. Abbiamo la missione, qui in Libano, di trovare un cammino arabo che unisca tradizione e modernità. A volte i cristiani sono più musulmani dei musulmani a proposito della conoscenza del Corano. I problemi non mancano: Isis costituisce una sfida anzitutto per l'Islam. E poi per l'Occidente, che non ha fatto ancora i conti con la presenza dei musulmani, specialmente in Europa». Un'altra voce islamica fa autocritica: «Da sempre siamo pronti a dare corpo a teorie di complotti esterni, stranieri, per spiegare i nostri problemi. Ma occorre essere realisti, andare alla radice degli elementi problematici che fanno veramente paura. Isis, per esempio, non è una novità, perché riprende un’eredità antica, di derive negative del passato, dal kharijismo all’ismailismo degli assassini, al wahhabismo». Antoine Messarra, membro del Consiglio costituzionale, sposta il discorso sulla questione della “protezione”: «Ci sono casi gravi in cui noi siamo stati spettatori, se non complici, favorendo regimi autoritari. Come cristiani dobbiamo passare dall'idea rassicurante della protezione da parte del tiranno, con tutto ciò che di negativo ne consegue, alla convinzione che a proteggerci basta la legge». Un elemento di realismo è introdotto da Pascal Monin, responsabile del master informazione e comunicazione, per cui «sempre i cristiani locali hanno pagato il prezzo dell’intervento dell’Occidente». Per Monin questa non è la prima crisi che investe il Medio Oriente, ma la differenza è che si rischia l’irreparabile, l’esodo totale dei cristiani. «Il problema centrale è il takfîr, ma dobbiamo uscire dal dilemma tirannia o takfirismo, dobbiamo difendere lo stato di diritto. Per questo il Libano è fondamentale; se si perde il Libano, si perde tutto il Medio Oriente». Un giudizio su cui convergono anche numerosi altri interventi. Ibrahim Najjar, già ministro della giustizia, si domanda ancora: «In Libano i cristiani hanno ricevuto un potere. Che cosa ne hanno fatto? Che cosa ne possono ancora fare?», lamentando la carenza di senso dello Stato e invitando a collaborare con quei politici musulmani che hanno a cuore l’avvenire del Libano come nazione. In conclusione, due interventi richiamano la tragicità del frangente. Per la preside facoltà di lettere, Christine Babikian Assaf, armena figlia di discendenti del genocidio del 1915, «i nostri discorsi sulla cittadinanza sono molto belli e giusti, ma se domani mattina Daesh arrivasse fin qui, tutto quello di cui abbiamo parlato apparirebbe come pura astrazione». E Lena Gannagé, nuova preside della facoltà di diritto, sintetizza così l’eterno dilemma: «Credo sia onesto dire che in ognuno di noi, cristiani orientali, convivono due dimensioni, di cittadinanza e di comunità. Sono le circostanze a decidere quale delle due prevalga». E la circostanza presente per il Libano è segnata prima di tutto dalla crisi politica che attanaglia le istituzioni del Paese, a cominciare dalla nomina del Presidente della Repubblica. Pur essendo frutto della lotta regionale, non sarebbe arrivata fino al punto attuale se non avesse trovato la colpevole complicità di alcuni politici cristiani. Nelle sue conclusioni il Cardinal Scola ha ringraziato i presenti per la disponibilità alla testimonianza e all’analisi critica e ha sottolineato come siano evidenti i grandi passi avanti compiuti dalla società libanese. Nonostante la paralisi a livello politico, la società civile di questo Paese si pone come una provocazione forte per un’Europa che appare infiacchita e stanca, come inceppata.