Siria. Con l’appello del Papa qualcosa è successo. Se non altro ha spinto a guardare all’inferno della guerra considerandone tutti i risvolti. La questione profughi in primis, emergenza umanitaria, ma anche sociale e politica sempre più fuori controllo. E il tema delle minoranze e della loro “protezione”

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:27

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«Rivolgo un forte Appello per la pace, un Appello che nasce dall’intimo di me stesso! Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi! C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza! […] Una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà! È un forte e pressante invito che rivolgo all’intera Chiesa Cattolica, ma che estendo a tutti i cristiani di altre Confessioni, agli uomini e donne di ogni Religione e anche a quei fratelli e sorelle che non credono: la pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità». (Francesco, Angelus 1° settembre 2013)

 

«Domanda alla sabbia del Sinai, da che sangue è stata irrorata? Il sangue di Hanna o Mina o il sangue dei musulmani? Sempre sangue di egiziani»

Suona così una canzone patriottica di questi tempi, capace di descrivere la ferita che attraversa tutto il Medio Oriente e brucia soprattutto in Siria. Qui una guerra in corso da troppo tempo distrugge tutto ciò che incrocia. Ammazza cristiani e musulmani, svuotando il Paese del suo popolo: le giovani generazioni o sono fuggite all’estero o sono morte in battaglia. Chi ancora resta, è impegnato a sopravvivere. Come dice quel verso, la domanda non è più se il sangue versato sia cristiano o musulmano, sciita o sunnita. Ma come arrestare un’emorragia che sembra interminabile.

Anche solo il tentativo di definire questa guerra è divisivo: chi la chiama “guerra civile”, tra “fratelli” che si combattono; chi invece la qualifica come “incivile” perché finita in mano solo al demonio, che ammette ogni genere di arma e crudeltà; chi la interpreta come una guerra ingiusta del regime contro i suoi oppositori e chi, al contrario, la considera una legittima difesa dello Stato contro dei terroristi… Tutti invece sembrano d’accordo nel ritenere che questo Paese sia diventato un campo di battaglia prestato a potenze straniere che si contendono, in questo ritaglio degli accordi Sykes-Picot, interessi di grande portata.

 

Nel campo di Marj el-Khokh

L’appello di Papa Francesco per la pace dello scorso primo settembre, una decina di giorni dopo l’utilizzo delle armi chimiche contro civili inermi a Damasco, ha segnato un cambiamento di passo, ha spostato decisioni che apparivano acquisite. Ha spinto tutti a guardare all’inferno siriano con addosso quella domanda certo non nuova, ma rimasta silenziata: si può trovare una via diversa da quella dei bombardamenti esterni, dall’intervento unilaterale, dal rifornimento continuo di armi e di combattenti stranieri alle fazioni in guerra?

Il Papa ha invitato al gesto più umile (e perciò forse anche più realista?) della preghiera comune. A parte la critica di chi ha voluto interpretarlo come una fuga spiritualista, la catena umana della preghiera auspicata da una piccola finestra su Piazza San Pietro si è realizzata in tanti luoghi del mondo, fino ai più remoti e apparentemente fuori dalla storia. Come nel Sud del Libano, non lontano dal confine assicurato dal filo spinato e dalle ronde dei blindati israeliani. A Marj el-Khokh, in uno scampolo di terra sassosa rubata all’agricoltura, dove sventolano insieme le bandiere del Libano, di Hezbollah e della Palestina, sta un campo profughi, fino ad alcuni mesi fa sconosciuto agli operatori umanitari: tra tende improvvisate divenute nei mesi dimore stabili, vivono un migliaio di profughi siriani, sunniti. L’Avsi, ONG che lavora in tutto il mondo accanto agli ultimi, ha promosso con Oasis un momento di preghiera nella data proposta dal papa. Un gesto semplice: la lettura dell’Angelus del Papa tradotto in arabo e di una sura del Corano (la 93), infine una manciata di minuti in un silenzio condiviso dalle famiglie presenti, dagli operatori, da alcuni abitanti dei villaggi vicini, circondati da militari di guardia. Un’inezia in sé, ma resa potente dalla sua adesione alla realtà del luogo e dalla comunione con centinaia di altre simili nel mondo. In tanti si aspettavano agli inizi di settembre le bombe americane sulla Siria e quindi la possibile risposta di Hezbollah contro Israele e, a ruota, la reazione di quest’ultimo. Invece no. Si è rimessa in gioco la partita diplomatica.

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Risvolti rimossi della guerra

Intanto la guerra interna non è ancora finita, anche se è scomparsa dalle prime pagine. E mentre si convocano e si disfano le conferenze internazionali che dovrebbero portare alla firma di nuovi accordi, avanza un risvolto preoccupante: l’emergenza profughi. Non è poesia lo sguardo profondo e smarrito dei bambini, in troppi ancora analfabeti, che con i loro fratelli, madri e padri trascorrono un nuovo inverno in campi improvvisati in continua espansione, dopo essere scampati ai rapimenti, ai massacri, alla fame. La questione “profughi” è prosa tragica. La loro presenza, sempre più imponente fuori dai confini della Siria, ha una contabilità allarmante. Sono oltre 2 milioni i siriani fuggiti all’estero, per metà bambini. E molto probabilmente con la fine del 2013 si sfonderà il tetto dei 3 milioni. Mentre secondo l’ultimo dato ufficiale gli sfollati all’interno del Paese sarebbero oltre 4 milioni. Sempre più numerosi sono quelli che, attraversando l’Africa del Nord, cercano di raggiungere l’Europa sui barconi dei trafficanti di uomini, donne e bambini. Se approdano vivi alle coste estreme della Sicilia.

Sono 500.000 in Turchia, 200.000 in Iraq, 120.000 in Egitto, un milione in Libano (sui 4 milioni della popolazione complessiva). In Giordania superano quota 550.000 e hanno accresciuto la popolazione del 10%. Il campo profughi di Za’tari, a 30 km dal confine con la Siria, il secondo più popoloso del mondo, è ormai di fatto la quarta città del Paese: militarizzato, sostenuto da organizzazioni di vari Paesi del mondo, con le sue migliaia di microattività commerciali, gli “ospedali” e le scuole sostenute da Paesi stranieri, resta un inferno per chi ci vive: la violenza, la povertà, la prostituzione, la diffidenza, la disperazione sono la compagnia costante di migliaia di vite sospese. Se anche domani la guerra finisse, se domani il regime cadesse o vincesse, quelle oltre centotrentamila persone non potrebbero istantaneamente sbaraccare e rientrare in patria. Del resto basta guardare alla geografia giordana e libanese: quelli che erano nati come campi profughi dei palestinesi, ora sono quartieri stabili, corpi estranei attorno a cui le città hanno continuato a crescere. Attraversano le barriere porose del campo le onde della radio nazionale siriana: arriva fin qui attraverso il deserto e incita al martirio per la propria nazione. C’è chi si lascia convincere, in patria, e chi invece decide di arruolarsi nelle milizie dei “ribelli”.

Provocazione costante per un’Europa imbarazzata, che non trova il modo di gestire le migliaia di arrivi indesiderati, i profughi sono un’autentica bomba innescata per il Medio Oriente: una bomba sociale, economica, politica. Nei Paesi che li ospitano, rischiano di far saltare equilibri già precari. Hanno bisogno di tutto, di assistenza sanitaria e alimentare. Le cifre per mantenere il sostentamento minimo garantito fino ad oggi sono esorbitanti, insostenibili nel lungo periodo.

 

Riconoscere la polveriera

La tensione dentro la Siria e nei Paesi vicini è così alta che ogni scelta, ogni passo, può avere una serie di ricadute incalcolabili e pesanti, come in un domino: «Il nostro equilibrio è fragilissimo, il Libano è una polveriera» – sostiene l’avvocato libanese Hadi Rashed, melchita – «ci vuole molto poco perché si ritorni a combattere: Hezbollah è ben armata, così anche il “14 marzo”. I cristiani? Ora non lo sono, ma in una settimana potrebbero procurarsi le armi necessarie».

Anche per Pascal Monin, professore dell’Università Saint Joseph di Beirut, il Paese rischia di saltare in ogni momento: «L’emergenza profughi, come tutta la guerra in Siria, è strumentalizzata per regolare conti interni al nostro Paese. Non si affronta il problema in modo oggettivo, ma viene usato dalle forze politiche per contrastarsi a vicenda, così tutto si inceppa. Di fatto i campi profughi non sono riconosciuti ufficialmente. E questo si intreccia a un atteggiamento se non altro naïf dell’Occidente: sono morti centomila siriani e non ha mosso un dito. Poi all’improvviso ha deciso che doveva intervenire. Ma per punire chi? La posizione della Francia è paradossale: in Mali ha combattuto i jihadisti, in Siria stava per spalleggiarli!». Per chi viaggia in Medio Oriente in questo periodo ogni incontro è occasione per ascoltare una valutazione diversa sulle implicazioni della guerra siriana.

 

“Proteggere” la libertà?

Una delle parole chiave ricorrenti e più taglienti oggi è “protezione”, espressione moderna della dhimmitudine, la mentalità di una minoranza che, discriminata, va in cerca di un garante. C’è chi vede nel regime di Asad il “custode” insostituibile della minoranza cristiana, che rischia di essere cacciata via dalla sua terra da fondamentalisti islamici interessati a trasformare la Siria in un emirato, e a qualsiasi costo. E chi invece nella parola protezione vede un inganno, un’autentica illusione e una gabbia.

La distruzione dei luoghi sacri di Malula ha alimentato la convinzione dei primi: «Leggo i nomi dei cristiani assassinati dai terroristi e penso che questo non succedeva prima di questa ribellione – osserva Jocelyne Khoueiry, già comandante delle Falangi femminili, oggi responsabile di una comunità di consacrate. I cristiani potevano vivere in Siria, oggi devono fuggire. Non saranno le bombe straniere a risolvere i problemi. Dove sono cadute, è rimasta solo distruzione».

Al contrario questo istituto della “protezione” per Antoine Messarra, membro del Consiglio Costituzionale libanese, va sradicato dalla mentalità del Medio Oriente: «È la legge che “protegge”, non un regime. Anche i cristiani devono comprenderlo. Solo la legge regola la libertà, per liberarla». Dello stesso avviso Ibrahim Shamseddine, docente di scienze politiche all’American University di Beirut, sciita: «Se sei un cristiano in Siria, come ti proteggi meglio? Se sei parte del grande numero o se ti ritagli il posto di una porzione da proteggere? I cristiani in Siria sono siriani, non l’entourage di un re». Chiede tempo questo tema per essere affrontato, intrecciato in modo inestricabile com’è alla guerra in corso, incarnato in circostanze storiche che sembrano impossibili e nella storia concreta di persone e popoli. Ma non può essere aggirato. Esige il realismo e l’intelligenza di tutte le parti del gioco. Che, forse, possono attingere anche all’esperienza passata.

I copti raccontano che già nell’Ottocento una grande potenza propose la protezione alla loro comunità “minoritaria” oggetto di persecuzioni. Allora il Patriarca Butrus VII si domandò: «Meglio cercare riparo sotto un vivente che morirà o sotto il Vivente che non muore?». Quella volta la risposta di Butrus fu netta: la riconferma della certezza nel Vivente che non muore.

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