Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:40

«Della perdita del passato, ci si consola facilmente; è della perdita del futuro che non ci si riprende». E ancora «il Paese di cui l’assenza mi rattrista e mi ossessiona non è quello che ho conosciuto nella mia giovinezza, è quello che ho sognato e che non ha mai potuto vedere il giorno». Queste parole estrapolate dall’ultimo romanzo di Amin Maalouf, scrittore libanese che vive in Francia dal ’76, sono capaci di descrivere con una sintesi geniale quello che Oasis ha visto e sperimentato recentemente in Medio Oriente, visitando i campi profughi, ascoltando le testimonianze di chi, stando dentro la ferita della guerra, li aiuta e accompagna. Anche il titolo di questo romanzo, I disorientati, aiuta a comprendere cosa c’è in gioco oggi. Da una parte, infatti, descrive in modo particolarmente aderente il profilo di chi si trova trapiantato in un altrove non scelto, imposto da circostanze storiche che investono le vite dei singoli in modo imprevedibile. Rimanda al volto di una delle tante donne incontrate in un campo nella Bekaa. Giovane di neanche trent’anni, il volto pallido incorniciato da un velo vero stretto, con i suoi bambini appesi alle braccia, una signora siriana esprimeva il dolore per la perdita del marito assassinato vicino a casa, ma ancor di più il vuoto per la sua vita sospesa, l’angoscia per un futuro incerto, per una vita sospesa nell’incertezza più totale: privata della possibilità di tornare indietro e di andare avanti. E dall’altra questa parola del titolo, “disorientati”, contiene in sé “oriente”. Come rilevato dallo stesso Maalouf, essa richiama chi ha perso il suo “Oriente”, o il suo personale sogno, e al tempo stesso l’idea di un Oriente che, perdendo i suoi “sognatori”, va smarrendo se stesso. Si svuota. La suggestione che porge Maalouf ai suoi lettori sembra dire qualcosa anche all’Occidente e dell’Occidente.

Ma per comprenderlo occorre tornare a Beirut. Qui, a inizio settembre, quando la situazione era molto tesa per la minaccia del bombardamento americano, il prof. Pascal Monin, dell’Université Saint Joseph spiegava che nulla fa più paura ai libanesi delle autobombe, perché colpiscono imprevedibili e vigliacche le vittime più innocenti in momenti ordinari, come i bambini sulla via verso la scuola. E, aggiungeva Monin, la vera bomba innescata oggi pronta a saltare non si sa bene dove è quella dei profughi: un milione sui quattro di popolazione (dati dello scorso settembre), diffusi in tutto il territorio, armati in alcuni casi, sicuramente arrabbiati, sono uno dei problemi rimossi dalle istituzioni, incastrati in logiche dei blocchi contrapposti delle varie forze politiche. In Libano si parla di un milione di persone, alle quali vanno aggiunte le centinaia di migliaia in Giordania, Turchia, Iraq, Egitto… E in Europa? Qui si litiga su dove e come sistemare gli immigrati che arrivano dal Sud e dall’Est del mondo. Qualche giorno fa un giornale milanese pubblicava un titolo che diceva: A Milano non c’è più posto per i profughi siriani.

Ma, avendo in mente i numeri mediorientali e l’immagine della distesa di Za’tari, il campo nel nord della Giordania, il secondo più popoloso del mondo con i suoi 150.000 ospiti, sorge immediata la domanda: quanti sono i profughi che giungono a Milano? Secondo alcuni dati registrati in Prefettura, i siriani che hanno chiesto asilo politico a Milano sono centoventi. Solo centoventi. Certo si tratta di numeri ufficiali, sappiamo che spesso non corrispondono alla realtà, ma il numero è esiguo se paragonato al movimento registrato tra Siria, Libano e Giordania. E Milano è Milano, una delle capitali europee.

Mons. Maroun Lahham, quand’era vescovo a Tunisi, nel 2011 aveva usato toni forti per dire all’Europa che era paradossale vedere la fatica che faceva ad accogliere poche migliaia di immigrati tunisini in cerca di cibo e lavoro, non delinquenti, quando la stessa Tunisia aveva fino ad allora accolto numerosi profughi libici potendo offrire molto di meno. «L’Europa si salva - aveva detto Mons. Lahham - finché è fedele alle sue origini cristiane. E uno dei valori cristiani più forti è la condivisione, la solidarietà. Apritevi allora al fratello che si trova in difficoltà, anche se diverso». Senza voler semplificare la questione molto complessa dei profughi né scivolare in facili buonismi, è indubitabile che questo tema ancora una volta sta smascherando il volto impagliato della vecchia Europa, per la quale può risultare vitale un paragone con l’esperienza che viene da Oriente.

Su questo crinale tra Oriente e Occidente, tra musulmani e cristiani, si colloca il lavoro di Oasis. Per tornare a usare l’immagine dei “disorientati”, Oasis è nata proprio per favorire quello scambio reciproco utile a “orientare” i processi storici, come quello del meticciato di civiltà e culture che si manifesta anche nella forma della questione profughi. E lo fa attraverso i suoi vari strumenti, la rivista plurilingue, la newsletter, i libri, il sito, gli eventi promossi a livello internazionale… Nell’incontro infatti tra persone che si giocano nella testimonianza personale, si affinano le categorie culturali necessarie a leggere la realtà in tutta la sua complessità e in tutti i suoi fattori, non solo attraverso il “buco della ferita” che può essere una guerra. Tra le espressioni più interessanti che ci sono state rivolte c’è quella di un musulmano che al termine di un dibattito ha osservato: «Interessante Oasis, perché non parla dei musulmani ma con i musulmani». Espressione resa ancor più significativa se si considera che Oasis non rinuncia mai a chiarire la propria identità e a dichiarare la propria ipotesi interpretativa della realtà radicata nell’esperienza cristiana. «Io sono giusto, è la storia a essere sbagliata», dice ancora uno dei protagonisti de I disorientati. Per comprendere questa storia, che alle volte può apparire sbagliata, Oasis procede sul crinale con quella prudenza, auriga virtutum, che non è vigliaccheria, ma il tentativo di stare alla larga da partigianerie e di tenere lo sguardo su tutta l’ampiezza dell’orizzonte, da Est a Ovest.

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