Allen J. Fromherz, Qatar. A Modern History, Georgetown University Press, 2012

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:02

«Dal più importante al più miserabile, siamo tutti schiavi di un solo padrone, la Perla» (114). Così un capo locale, Muhammad Ibn Thani, sintetizzava la condizione dei qatarioti a beneficio del viaggiatore inglese William Palgrave. Era il 1863 e l’impero britannico, nell’intento di garantire la sicurezza della navigazione, iniziava a interessarsi anche alla remota penisola che si proietta nelle acque del Golfo. Cinque anni dopo il Colonnello Pelly, convocati a bordo della nave Vigilant tutti gli shaykh locali, avrebbe indicato proprio in Muhammad Ibn Thani l’interlocutore unico del governo inglese. Era nato il moderno Qatar. All’epoca nulla lasciava presagire le straordinarie fortune che il Paese avrebbe conosciuto a partire dalla metà del Novecento. L’unica ragione per un insediamento umano in un clima così avverso (caldo e umido, ma senza piogge) era appunto la pesca della perla. Gli abitanti vivevano concentrati in alcuni insediamenti costieri, mentre l’interno rimaneva pressoché disabitato. La schiavitù dalla perla si traduceva in una totale dipendenza dalle oscillazioni del mercato. Se a metà degli anni Venti si potevano contare nel Paese 60.000 pescatori, nel 1944 erano crollati ad appena un decimo a causa della contrazione della domanda. Erano gli “anni della fame”, di cui si conserva ancora il ricordo nelle generazioni più anziane, finché la scoperta del petrolio e poi del gas inaugurò un’era di benessere apparentemente illimitato. Oggi il Paese conta 225mila abitanti, ma circa un milione e mezzo di espatriati e la sua economia cresce a ritmi del 16-18% l’anno, forte di enormi giacimenti di gas naturale che viene liquefatto negli impianti di Ras Laffan. Ad accrescere l’importanza strategica si aggiunge la base aerea di al-Udeid, sede dell’US Central Command, uno dei sei teatri operativi dell’esercito americano. Di fronte a uno stravolgimento così radicale è forte la tentazione di leggere gli eventi nel segno della totale discontinuità. Il libro di Fromherz si pone nella prospettiva opposta, tendendo a mettere in luce gli elementi di continuità: «Moltissimo è cambiato nelle infrastrutture e nell’ambiente fisico, costruito del Qatar. Pochissimo è cambiato all’interno dell’ambiente sociale basilare del cittadino qatarino» (13). L’autore riesce a provare il suo assunto in modo convincente per quanto riguarda la capacità di mediazione diplomatica di cui il Qatar dà attualmente prova e che si dimostra profondamente radicata nella storia del Paese. Il Qatar infatti è «una delle entità politiche più improbabili al mondo» (41) [is one of the world’s most unlikely political entities»] e il fatto che sia emerso come Stato indipendente, malgrado la vicinanza a realtà politicamente più organizzate come l’isola del Bahrain o il Regno saudita, merita in sé una spiegazione. Probabilmente la ragione risiede appunto nell’abilità dei qatarioti nell’appoggiarsi alla presenza britannica per contrastare l’avanzata ottomana e le pressioni dei vicini: ancora oggi la battaglia di Wajbah (un modesto scontro avvenuto nel 1892, in cui le forze dello shaykh Jassim ebbero ragione di 200 soldati turchi) è celebrata come festa nazionale. Questa stessa tradizione continua a manifestarsi nella capacità del Qatar di giocare su tavoli diversi: ospita la più grande base americana nella regione, ma intrattiene buoni rapporti con l’Iran, nel 2008 è riuscito a riconciliare tutte le fazioni libanesi e poi ha cercato di fare lo stesso con quelle palestinesi, ma fino al 2009 manteneva sul suo territorio un ufficio d’affari israeliano. E soprattutto, attraverso la televisione al-Jazeera, ha sostenuto le rivoluzioni arabe un po’ dappertutto (soprattutto in Libia e ora in Siria), tranne che a casa propria o nel vicino Bahrein. Un secondo aspetto di continuità su cui Fromherz insiste è la persistenza dei vincoli tribali. Anche se la tribù è un’entità elusiva per le categorie politiche occidentali, l’impressione è che in questo caso Fromherz attribuisca un’eccessiva importanza a una realtà sociale che, pur vitale fino a pochi anni fa, appare ora superata da una decisa concentrazione del potere nelle mani della famiglia al-Thani. In entrambi i casi comunque, la domanda di fondo rimane l’impatto della modernità su una società tradizionale. Per rispondere l’autore mette in campo la categoria durkheimiana di anomia. L’ipotesi è che l’enorme presenza di espatriati permetta finora ai qatarioti di godere dei soli frutti positivi della modernità. «Il prezzo [...] è l’esistenza di una cultura espatriata. Ma questa cultura espatriata è mantenuta in posizione subordinata, in termini di diritti e accesso all’economia del Qatar» (10) [The price [...] is the existence of an expatriate culture. However, this expatriate culture is kept subservient, in terms of rights and access to Qatar’s economy]. Di qui la curiosa osservazione del presidente dell’Università del Qatar, la Professoressa Sheykha Abdullah al-Misnad, sull’«assenza di postmodernismo» [the lack of postmodernism] tra i giovani che rappresenterebbe la più importante sfida per l’avvenire del Paese, di gran lunga più impegnativa della diversificazione economica. Al libro di Fromherz avrebbe giovato qualche mese in più di elaborazione. Avrebbe così evitato diverse ripetizioni e ripartito in modo più strutturato degli argomenti. Anche le fonti sono limitate, quasi tutte in lingua occidentale e più articoli che libri, benché la scarsità della letteratura sull’argomento offra una parziale giustificazione. Malgrado questi limiti, il libro offre una ricca messe di dati su un Paese ancora poco conosciuto ma che si è ritagliato un ruolo centrale nel mondo arabo contemporaneo, e mette a frutto in modo originale diverse categorie attinte alle scienze umane.