I “valori” nazionali che un certo consenso proclama impermeabili al terrorismo suonano ormai vuoti, e non si sa più esattamente che cosa significhi laicità

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:58

Dal gennaio 2015, la Francia vive sotto una minaccia tanto più destabilizzante in quanto le resta incomprensibile. Non si tratta semplicemente di non sapere quando e come avrà luogo il prossimo massacro. Sono i moventi a essere insondabili. Il male sembra provenire dal nulla e finire nel nulla. Si fatica a immaginare quali vantaggi possano ricavare gli eventuali mandanti di questo terrorismo. Al contrario, l’orrore risuscita una coesione altrimenti inesistente: “Je suis Charlie”, proclamano tutti (o quasi). L’emozione produce manifestazioni, altrimenti rare, di compassione e solidarietà. La vittimizzazione rafforza la convinzione di avere ragione e di essere dalla parte della Storia, del Progresso, del Bene. Dopo la carneficina di Charlie Hebdo ci si è potuti domandare se la violenza non sia intrinseca all’Islam: è per aver deriso il Profeta che gli iconoclasti del giornale satirico erano stati selvaggiamente uccisi. La pubblicazione concomitante dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq avrebbe potuto alimentare questo sospetto: Soumission racconta infatti l’arrivo al potere per via elettorale in Francia di un musulmano sedicente moderno, che presto impone la sharia; la popolazione lascia fare, non avendo niente di sostanziale da mettere al posto. Ma la condanna delle carneficine da parte di imam di ogni provenienza e la riprovazione dei numerosi immigrati e cittadini di origine maghrebina hanno dissuaso dall’incriminare l’Islam in quanto tale. E gli attentati successivi hanno assassinato alla cieca, colpendo anche musulmani. Si è allora data la colpa all’islamismo, aggiungendo a “Islam” la desinenza “ismo”, ciò che permette di designare come nemico non una “grande” religione, ma la sua corruzione in un’ideologia che fa rima con nazismo, stalinismo e tutte le utopie assassine del secolo scorso. I servizi segreti e la polizia si sono dunque messi a individuare e sorvegliare gli individui “radicalizzati”, sedotti dal jihad, pronti a partire per il Medio Oriente per unirsi a Isis, e, al loro ritorno, suscettibili di preparare attentati-suicidi. Compito oscuro, ingrato, necessario, che ha già permesso di sventare progetti spaventosi e che tuttavia non è la panacea: l’uomo che il 14 luglio 2016 a Nizza guidava il camion lanciato come un ariete sulla folla non era stato schedato. La propaganda “islamista” su internet è stata probabilmente sufficiente a esasperare le sue frustrazioni personali. Appiccicata al male da combattere, l’etichetta “radicalizzazione” non fornisce dunque il rimedio che potrebbe arginarlo e infine sradicarlo. Ci si può anche chiedere se questa identificazione, per quanto rassicurante e non priva di efficacia nell’immediato, non mascheri in realtà un problema ben più grave: quello segnalato da Houellebecq nel suo romanzo, su cui è calato un frettoloso silenzio, e cioè che i “valori” che un certo consenso proclama impermeabili al terrorismo suonano ormai vuoti – di fatto, come ha notato Pierre Manent nel suo Situation de la France, dopo il regime di Vichy e la guerra d’Algeria –, mentre il liberalismo che dopo il ’68 ha invaso prima la morale e poi l’economia, non ha risolto nulla. I dibattiti sulla laicità sono esemplificativi di questo crollo: non si sa più esattamente che cosa sia. Per gli uni è la libertà di coscienza e di culto, la neutralità dello Stato, la tolleranza nei limiti dell’ordine pubblico, o la cooperazione in ambito educativo, umanitario, sanitario, culturale… Per gli altri, la religione, qualsiasi essa sia, deve essere ferocemente relegata nella sfera privata, nell’attesa che sparisca ineluttabilmente, perché essa corrisponde a uno stadio passato dell’umanità, in cui avrebbe generato e giustificato i peggiori abomini. La “laicità aperta” è realista, ma l’ideale del rispetto e di civiltà che timidamente la sottende è minimale e non mobilita molto. Inoltre, questo pragmatismo subisce la visibilità crescente dell’Islam senza essere in grado di gestirla, perché il suo unico riferimento è il Cristianesimo, che è meno disunito e molto meno teocratico. Da parte sua, nel suo dogmatismo ideologico, il “laicismo” intransigente è obbligato a vedere nell’affermazione dell’identità musulmana soltanto un errore che non resisterà alla prova del tempo. Infine, da entrambe le parti c’è un problema con la storia e dunque con la verità: non si vuol sentir parlare di radici cristiane dell’Occidente, tra gli uni per non urtare nessuno, tra gli altri perché si è convinti che per andare avanti occorra rinnegare il passato. È improbabile che le elezioni del 2017 possano regolare il conflitto e imprimere un nuovo slancio. Tuttavia, ridefinire la laicità interiorizzando il fatto che non soltanto le religioni non muoiono affatto, ma che in Francia occorre ormai tenere conto dell’Islam e della sua specificità è una questione decisiva. Probabilmente è il modo migliore di disinnescare le “radicalizzazioni”. A destra come a sinistra e nella galassia populista si trovano allo stesso tempo laici moderati ma evasivi e laicisti intransigenti. I principali candidati si guarderanno dal prendere posizioni troppo nette, e tutto rischia di giocarsi sulle personalità. Il vincitore sarà allora chi avrà suscitato meno rifiuti. Ma non tutto dipenderà dalla politica, né dagli sforzi per riconoscere l’Islam come una realtà prossima e indiscutibile, con contenuti che condizionano la vita personale e sociale. Perché gli stessi musulmani devono raccogliere la sfida: sapranno trovare nella loro tradizione, che non prevede niente di simile, le risorse per assumere la situazione di minoranza ufficialmente non oppressa? E la loro religione sarà in grado di superare, come ha fatto anche il Cristianesimo, l’esame critico e scientifico delle proprie fonti, inevitabile nel contatto con la modernità?