Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:05:25

Questa settimana, la stampa araba ha commentato ampiamente gli scontri avvenuti lunedì a Jenin, in Cisgiordania, e successivamente nell’insediamento di Eli. Il quotidiano panarabo londinese al-Quds al-‘Arabi, letteralmente “la Gerusalemme araba”, ha pubblicato un commento del politologo libanese Gilbert Achcar, secondo il quale se Israele pensa di poter agire impunemente è anche a causa degli Accordi di Abramo, che hanno di fatto posto lo Stato ebraico in una posizione di forza. Achcar punta il dito contro «i traditori arabi», i Paesi che tre anni fa hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche con Israele e successivamente stipulato accordi di cooperazione militare e nell’ambito della sicurezza. Questi Paesi, Emirati e Marocco in testa, con Israele hanno firmato anche contratti di fornitura di armi e «contribuendo a far prosperare e arricchire le industrie militari israeliane, essi facilitano l’utilizzo sionista delle armi contro il popolo palestinese».

 

Sul al-‘Arab, quotidiano dalle posizioni vicine agli Emirati, il giornalista palestinese Fadel Manasfa sostiene invece che uno dei problemi principali dei palestinesi sia quello delle divisioni interne, nella fattispecie il contrasto tra Hamas e l’Autorità palestinese: «Sebbene Hamas mostri pubblicamente il suo sostegno agli appelli al dialogo nazionale, continua di nascosto a definire l’Autorità di Ramallah come un’autorità sottomessa, e vede nella sua caduta l’unica soluzione che le consenta di colmare il vuoto in Cisgiordania. D’altro canto, Israele continua a sfruttare in ogni modo questa frattura nella casa palestinese; vede in questo una separazione geografica e politica dei due fronti e la assenza di un’azione congiunta che si opponga fermamente al piano di lungo periodo per annettere ciò che resta della Cisgiordania». La situazione, conclude l’editorialista, è destinata a restare tale «fino a quando i palestinesi non si desteranno dal loro sonno profondo e non si renderanno conto che il permanere della loro divisione è un regalo senza pari a Israele. La Cisgiordania corre il pericolo dell’annessione, Gaza si trasforma in uno staterello e i palestinesi sognano una patria».

 

L’altro tema che viene sollevato è chi, oggi, potrebbe svolgere il ruolo di mediatore tra Israele e Palestina. Al-Quds al-Arabi si domanda se la Cina abbia qualcosa da offrire in un processo di pace. L’autore dell’editoriale, l’egiziano Ibrahim Nouar, non nutre molte speranze al riguardo: «la presenza della Cina sulla scena e il suo obbiettivo di trovare una soluzione pacifica alla questione palestinese giocando il ruolo di attore principale rappresenta un cambiamento fondamentale nel comportamento della diplomazia cinese, anche se non dovremmo contare troppo su questa presenza». Oltre il fatto che al momento è escluso che Israele accetti di partecipare ai negoziati sulla base «della terra in cambio della pace», della «soluzione dei due Stati» e della «coesistenza israelo-palestinese». Analogamente non è realistica l’idea cinese di ospitare una conferenza internazionale allargata finalizzata a stabilire un quadro per i negoziati diretti israelo-palestinesi, un’opzione definita «una vecchia idea fallimentare», tentata più volte – la conferenza al Mena House in Egitto (1977) e la conferenza di Madrid (1991) – e sempre conclusasi con un nulla di fatto. Questa idea, ha spiegato Nouar, «al momento si scontra con la politica statunitense di isolamento internazionale della Cina e la guerra fredda tra i due Paesi. La diplomazia cinese deve prima lavorare per far maturare le posizioni delle altre potenze principali e convincerle che la conferenza internazionale è un’idea efficace che può portare frutto. In questo contesto, i primi Paesi con cui è necessario aprire i contatti sono la Germania, la Francia e l’Italia, oltre alla Norvegia e alla Svezia. Inoltre, si dovrebbero includere anche la Russia e i principali attori regionali come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Turchia e l’Iran». La Cina è sempre più determinata a ritagliarsi un ruolo internazionale, soprattutto dopo il successo dell’iniziativa volta a ripristinare le relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran, «ciò che pare abbia stuzzicato l’appetito della Cina, che adesso guarda ad altre sfide come la guerra ucraina e la causa palestinese». Pechino si trova in una posizione privilegiata per poter mediare: da un lato, è stata uno dei primi Paesi al mondo a riconoscere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e lo Stato palestinese, e a stabilire relazioni diplomatiche con l’Autorità nazionale palestinese, dall’altro ha forti interessi con Israele.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid il ricercatore palestinese Osama Abu Irshaid ha sollevato la questione del «dilemma morale», posta dalla visita a Pechino del presidente palestinese Mahmoud Abbas (13-16 giugno scorso). «Una delle dimensioni della visita è lo sforzo palestinese di trovare un corrispettivo al ruolo degli Stati Uniti, troppo sbilanciato a favore di Israele in quello che viene descritto il processo di pace israelo-palestinese. […] Tuttavia, se è comprensibile che la parte palestinese ufficiale voglia rompere il monopolio americano sul dossier della riconciliazione, è inaccettabile che ciò avvenga in cambio del consenso e dell’accettazione, e persino del sostegno alla persecuzione cinese della minoranza uigura musulmana nella regione dello Xinjiang». La dichiarazione congiunta sino-palestinese firmata al termine dell’incontro dai due presidenti rappresenta un sostegno esplicito alle politiche cinesi contro gli uiguri e, come tale, è scandalosa – spiega Abu Irshaid. Il testo della dichiarazione recita infatti che «le questioni relative allo Xinjiang non sono affatto questioni di diritti umani, ma sono legate alla guerra al terrorismo violento, al contrasto dell’estremismo e alla lotta contro le tendenze separatiste». La conclusione è che il fine non giustifica i mezzi: «non è accettabile che chi dice di rappresentare un popolo oppresso sostenga l’oppressione di altri popoli in nome della Palestina. Quante volte noi abbiamo espresso il nostro disgusto per il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che si presenta come difensore del suo popolo di fronte a un’invasione russa, mentre sostiene i crimini commessi da Israele ai danni del popolo palestinese? Che cosa rende questi leader palestinesi diversi da lui? Se le costrizioni della politica e gli “interessi superiori” che essi affermano impediscono loro di urlare la verità, allora nulla impedisce a noi, élite e palestinesi comuni, di correggere il discorso e regolare la bussola prima di perdere la simpatia di altri popoli oppressi come noi, e prima di perdere anche la nostra profondità arabo-islamica».

 

Infine, è significativo che al-Sharq al-Awsat, uno dei principali quotidiani panarabi, finanziato dall’Arabia Saudita, alla vicenda israelo-palestinese non abbia dedicato neppure un editoriale nel corso di tutta la settimana.

 

L’Egitto in caduta libera [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Su Al-‘Arabi al-Jadid l’attivista politico siriano Louay Safi ha fatto una panoramica delle condizioni di (non) salute in cui versa l’Egitto, un Paese che «ha guidato la rinascita araba all’inizio del XX secolo e che oggi sta affrontando un momento critico della sua storia moderna, dopo sette decenni di governo militare, iniziato con il colpo di Stato degli Ufficiali Liberi cappeggiati da Gamal Abdel Nasser nel 1952». Da Paese arabo più importante con una propria produzione e industria, l’Egitto si è trasformato «in uno dei Paesi arabi più poveri, dipendente dagli aiuti finanziari esteri, ciò che ha influito negativamente a livello delle entrate pubbliche e della capacità dello Stato di fornire i servizi al cittadino egiziano, in particolare l’istruzione e la sanità». Grande produttore di grano, cotone ed energia in passato, oggi l’Egitto è diventato un importatore di vari prodotti industriali e alimentari. Il PIL è in calo mentre la disoccupazione è in forte aumento, ciò che spinge gli egiziani a emigrare. Quali sono le cause di questa catastrofe economica? La ragione principale è la consuetudine dei regimi militari che si sono susseguiti ad affidare la gestione delle istituzioni pubbliche «a pensionati dell’esercito, che hanno trattato queste istituzioni come ricompensa per i servizi che hanno reso nell’esercito egiziano» e non sono stati capaci di svilupparle non avendo alcuna esperienza in questo ambito. Questo processo ha finito per ingenerare una grande corruzione, esattamente ciò a cui si sono opposti i manifestanti nel 2011. Oggi l’Egitto è nuovamente «scivolato verso un governo dal pugno di ferro». Se è vero che l’Egitto è dominato dai militari, rimane però una differenza sostanziale tra il colpo di Stato con cui Nasser prese il potere nel 1952 e quello condotto da Sisi nel 2013: «Il golpe del 1952 contribuì a liberare il contadino egiziano dal controllo della classe feudale, che possedeva la maggior parte delle terre agricole egiziane, cercò di sviluppare l’industria, l’agricoltura e l’istruzione, oltre il fatto ce il presidente della prima Repubblica viveva in una casa normale, lontano dai palazzi, dagli sprechi finanziari e dagli eccessi praticati dai presidenti che l’avrebbero succeduto. Le politiche perseguite dai leader del golpe del 2013 hanno invece generato sofferenza nel cittadino egiziano: le persone sono state silenziate, è aumentato il divario tra la classe agiata e le classi a medio e basso reddito, è cresciuto il tasso di inflazione e sono state introdotte delle imposte sul valore aggiunto che vanno a colpire in particolare chi ha un reddito basso». Oggi «l’Egitto è sull’orlo del collasso economico», con un deficit annuo che si avvicina a 44 miliardi di dollari, un debito nazionale quadruplicato rispetto al 2010 e con la previsione che possa arrivare a 557 miliardi di dollari entro il 2026 (90% del PIL). L’accusa che viene mossa al governo è quella di investire il denaro preso a prestito in infrastrutture che non possono generare le entrate necessarie per estinguere il debito, come la nuova capitale amministrativa nel deserto fuori dal Cairo e il progetto di ampliamento del Canale di Suez. L’unica via d’uscita dalla crisi economica in Egitto, conclude Safi, è separare l’esercito dalla politica e restituire il potere alla società civile.

 

Tra pochi giorni il mondo islamico festeggerà la festa del Sacrificio (‘Id al-adha), celebrata ogni anno durante il mese lunare di dhu al-hijja, mese in cui ha luogo il pellegrinaggio a Mecca. Nel giorno della festa del Sacrificio, i musulmani di tutto il mondo sacrificano un animale in ricordo del sacrificio di Abramo, che nel racconto coranico è disposto a immolare suo figlio (Ismaele, non Isacco, come nel racconto biblico) a Dio, prima di venire fermato dall’angelo, che gli chiede di sacrificare un ariete al posto del figlio. Quello del pellegrinaggio è dunque uno dei momenti dell’anno in cui nel mondo arabo si consumano maggiori quantità di carne. Da qualche anno a questa parte, però, i prezzi della carne sono in aumento, andando a ripercuotersi sulla capacità di spesa delle famiglie musulmane. Questo è ciò che sta accadendo, per esempio, in Egitto, come ha spiegato su Al-Jazeera l’economista Mamduh al-Wali. Negli ultimi 20 anni allevare bestiame nel Paese è diventato sempre più difficile per la scarsità di foraggi e di acqua e per le malattie che sempre più spesso colpiscono il bestiame provocando la morte di molti capi. La produzione nazionale di carni rosse è andata sempre più diminuendo: nel 2021 ne sono state prodotte 554mila tonnellate contro le 821mila del 2002, cifre più che dimezzate rispetto al 2009, quando si registrò una produzione di un milione e 12mila tonnellate. Contestualmente sono aumentate le importazioni di carne dai mercati d’importazione tradizionali come il Sudan, il Brasile e l’India, a cui si sono aggiunti nuovi mercati (Ciad, Somalia, Gibuti, Uganda e Tanzania).

 

La Turchia dopo le elezioni: neo-ottomanesimo (al negativo) e stampelle arabe [a cura di Mauro Primavera]

 

Nel bene o nel male, la Turchia rappresenta il grande osservato speciale della stampa araba. Alcuni osservatori e analisti sottolineano la necessità di Ankara di creare una partnership economica e geostrategica più organica con i principali attori del mondo arabo. Una parte di giornalisti e intellettuali prende a modello la Turchia e la studia nel tentativo di trarne una qualche lezione valida anche per la politica e per la società araba o, più semplicemente, decanta le politiche e il carisma di Erdoğan. Un’altra, però, si mostra piuttosto scettica, se non proprio critica, sul percorso avviato dal presidente turco, sia per quanto riguarda le manovre economiche sia per quello che concerne l’idea di Nazione a metà tra l’Islam politico e le nostalgie ottomane.

 

Il quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, preso atto del verdetto elettorale, sembra utilizzare un approccio pragmatico dato che fino a poco tempo fa il reis non era visto positivamente dallo Stato arabo: «l’avvicinamento con la Turchia dimostra l’applicazione della Carta dei 50», documento su cui gli Emirati hanno definito i loro principali obiettivi economici dei prossimi cinquant’anni, dai partneriati strategici allo sviluppo del digitale e delle tecnologie spaziali. L’intesa bilaterale intende rafforzare la sicurezza e la stabilità regionale e internazionale e, in particolare, predisporre un piano di aiuti per la Siria. «Gli Emirati non cercano, come alcuni si immaginano, di conciliare le contraddizioni, anzi vogliono la partecipazione di tutti in accordo con una visione che realizzi gli interessi comuni evitando contraddizioni e dissensi». Rimane tuttavia una certa distanza, come dimostra un altro articolo della testata emiratina: «nessuno in Turchia parla dell’inizio di un nuovo secolo senza spendersi concretamente  per curare i numerosi problemi e le crisi che attendono soluzioni sia negli affari interni che in quelli esteri. Negli ultimi tempi le priorità di Ankara sono cambiate […] A volte la Turchia ha ottenuto quello che voleva, ma altre volte ha fallito nel raggiungere i suoi obiettivi». «Non sorprende» quindi che molti analisi e articoli prendano in considerazione un maggiore avvicinamento e apertura tra turchi e arabi, rafforzando il legame di Ankara con l’Egitto, con l’Arabia Saudita e naturalmente con gli Emirati. Nonostante il successo alle elezioni, la strada di Erdoğan verso il “secolo turco” appare impervia e accidentata e non può essere percorsa in solitaria.

 

Sdolcinata la versione di al-Quds al-‘Arabi che spiega come dietro alla vittoria del reis si celi una «forza invisibile»: il rispetto e l’attenzione per la gente comune e per i suoi famigliari. Al Jazeera si sofferma invece sullo stato di salute delle opposizioni, appena uscite sconfitte da un appuntamento elettorale che da più parti era stato descritto come cruciale e decisivo. La sensazione di aver mancato un’occasione più unica che rara si sta ripercuotendo all’interno della coalizione e alcune «voci critiche», tra cui il sindaco di Istanbul Akram Imamoğlu, stanno invocando il “cambiamento” chiedendo un cambio di rotta a Kiliçdaroğlu. Se Al Jazeera è prudente nei giudizi, Al-‘Arabi 21  parla apertamente di una «competizione interna» tra i due per la leadership del Partito Repubblicano destinata a intensificarsi nei prossimi giorni. A prescindere da come andrà a finire il duello (il giornale vede ancora in vantaggio Kiliçdaroğlu sul sindaco di Istanbul), resta il fatto che il principale partito d’opposizione «dopo la sconfitta elettorale è entrato in un tunnel buio» e, cosa ancora più grave, «anziché leggere i risultati del voto, interpretare il messaggio degli elettori e correggere gli errori, sta ordendo congiure bizantine portate avanti dai membri che aspirano alla guida della formazione». Il rischio è che la faida porti alla sconfitta alle amministrative.

 

Molto più pessimista l’editoriale pubblicato su al-‘Arab, che descrive la Turchia come un Paese addirittura «messo peggio del Libano». «La prima risposta dei mercati del ritorno elettorale di Erdoğan è stato il tracollo della lira turca», questo l’incipit gelido del giornalista iracheno ‘Ali al-Sarraf. Dati alla mano, le casse di Ankara sono talmente disastrate che la situazione sarebbe «molto peggiore di quella del Libano. La verità è che l’amministrazione di Erdoğan ha ripetuto lo stesso errore che aveva commesso il sultanato ottomano prima di crollare. Questo, infatti, sperperava più entrate di quante l’impero potesse produrne, e per mantenere l’espansione economica fu costretto a contrarre debiti».

 

A proposito di passato, un altro articolo di Al Jazeera dal titolo “Perché gli arabi hanno fallito mentre i turchi hanno vinto la battaglia della democrazia e della modernizzazione? inquadra il tema in una dimensione storico-culturale, proseguendo il confronto della scorsa settimana sulle fortune dell’islamismo turco e arabo. Per comprendere l’attuale disparità tra i due sistemi occorre tornare indietro al periodo ottomano, quando l’Anatolia rappresentava il cuore dell’impero mentre il mondo arabo era una sua periferia negletta e sottosviluppata. Un dato che da solo, però, non basta a spiegare l’insuccesso: a pesare sono state anche le mancanze della classe intellettuale e politica araba, che non è stata in grado di portare a compimento i progetti riformisti e costituzionali. Di conseguenza, questo vulnus istituzionale ha inficiato la “democratizzazione” dello scenario politico, rendendo le società poco coese e attraversate da molteplici spaccature ideologiche, etniche e confessionali. La tensione tra governante e governati ha generato infine una vera e propria «fobia della democrazia», vista come un elemento destabilizzante. In questo senso può tornare utile, secondo l’autore, la “lezione turca”: a voler essere precisi nemmeno la Turchia dopo il crollo dell’impero si è trasformata immediatamente in una democrazia, ma ha adottato un metodo peculiare che si articola su tre passaggi fondamentali. Per prima cosa, si rafforzano le fondamenta dello Stato al fine di renderlo autonomo dall’influenza delle grandi potenze. Successivamente si avviano dei programmi di sviluppo economico e sociale e solo una volta realizzati si può procedere con l’introduzione del sistema democratico, evitando in tal modo gli scontri culturali e le dispute sull’identità dello Stato e della società. A questo punto si può procedere con l’elaborazione di un piano geostrategico e con l’assunzione di una postura più assertiva in politica estera.  

 

L’inno nazionale algerino irrita l’Eliseo. O c’è dell’altro? [a cura di Mauro Primavera]

 

Ha fatto discutere la decisione del presidente algerino Abdelmajid Tebboune di ripristinare per intero il testo originale dell’inno nazionale – il Qasaman, “giuriamo” – che, scritto durante la colonizzazione francese, riflette un certo clima politico profondamente legato alla rivoluzione armata e alla guerra di indipendenza portata avanti dal Fronte di Liberazione Nazionale. Il passaggio reintrodotto da Tebboune contiene in effetti frasi poco concilianti nei confronti dell’ex potenza coloniale («O Francia, il tempo degli ammonimenti è ormai finito e l’abbiamo chiuso come si chiude un libro. Questo è il giorno della resa dei conti, preparati a ricevere la nostra risposta») al punto da suscitare l’indignazione del ministro degli Affari esteri Catherine Colonna, che ha bollato le frasi incriminate come appartenenti a un passato ormai lontano. Al-Quds al-‘Arabi ha approfittato di questo “incidente diplomatico” per rispolverare uno dei suoi leitmotiv: il doppiopesismo culturale tra europei e arabi. «È curioso – scrive l’autore del pezzo – come (Colonna) abbia riconosciuto il senso “guerresco” dell’inno omettendo però di riconoscere che la celebre “Marsigliese” contiene espressioni violente, sanguinarie e truculente, rendendola un canto di guerra, un desiderio di sangue e di vendetta, non l’inno di una nazione che pretende di essere il Paese dei lumi, della tolleranza e del rispetto dei diritti dell’uomo». Il tutto senza considerare che l’autore dell’inno algerino, il poeta Mufdi Zakarya, lo aveva scritto in cella prigioniero dei francesi.

 

Il giornalista iracheno ‘Ali al-Sarraf riconosce sul quotidiano panarabo al-‘Arab l’importanza del passato, ma si sofferma anche sull’errore di Algeri nell’approvare un testo così diviso e imbarazzante: «la Francia coloniale si merita tutto l’odio degli algerini e non solo, ma gli algerini non hanno il diritto di rendere l’isteria un metodo di cooperazione con la Francia contemporanea. È isterico parlare alla Francia dicendo: “O Francia, il tempo degli ammonimenti è ormai finito e l’abbiamo chiuso come si chiude un libro. Questo è il giorno della resa dei conti, preparati a ricevere la nostra risposta” […] l’Algeria sarebbe in condizioni migliori, almeno con sé stessa, se eliminasse la Francia dalla carta geografica, se tagliasse tutti i vincoli con lei». L’autore non si capacita di questa “provocazione”, sostenendo che potrebbe danneggiare le relazioni bilaterali senza una reale motivazione: «perché l’isteria? Vivere nel passato è una afflizione patologica […] il discorso violento che era motivato, anzi sacrosanto, nella lotta al terribile colonialismo, ora non appare più fondato dopo l’ottenimento dell’indipendenza e della libertà».           

 

Un atteggiamento del genere potrebbe spiegarsi, secondo al-Quds al-‘Arabi, con la delicata situazione geopolitica del Paese, ormai vicino a una “sindrome dell’assedio”: «l’Algeria sta attraversando una fase critica; ad eccezione dell’Italia con cui ha buoni legami, le relazioni con Madrid hanno raggiunto la tensione massima e non è riuscita a migliorare i rapporti con Parigi», anzi, come abbiamo visto, li ha peggiorati. Al-Arabi21 individua un altro elemento di criticità: la visita di Tebboune da Putin a Mosca del 14 giugno che sarebbe stata organizzata «all’ultimo momento, senza consultarsi con Parigi». Al-Arabiya aggiunge un altro elemento di tensione tra i due Paesi, ossia «la campagna politica lanciata a Parigi con l’obiettivo di cancellare gli Accordi del 1968, in linea con il tentativo del governo francese di introdurre una nuova legge che regoli l’immigrazione».    

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