Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:12:08

È crisi aperta tra il Presidente iracheno Abdul Latif Rashid e il Cardinal Louis Raphaël Sako, Patriarca dei caldei. Nei giorni scorsi, il presidente ha revocato il decreto n. 147 del 2013, che riconosce giuridicamente le funzioni esercitate dal Cardinal Sako in qualità di Patriarca dei caldei, conferendogli l’immunità e attribuendogli il ruolo di amministratore dei beni della Chiesa. In segno di protesta il cardinale ha lasciato la sede patriarcale di Baghdad per trasferirsi in un monastero a Erbil, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Il caso ha assunto una rilevanza internazionale e tutti i maggiori quotidiani panarabi hanno cercato di ricostruire i contorni della vicenda.  

 

Il quotidiano londinese al-‘Arab ha scritto che i fatti sarebbero diretta conseguenza della «lotta di influenza tra l’istituzione religiosa cristiana rappresentata da Sako e l’ala militare cristiana rappresentata da Rayan al-Kaldani [capo della milizia armata cristiana Babilonia, legata alle Forze di Mobilitazione Popolare], là dove il primo vuole preservare l’indipendenza decisionale cristiana, mentre il secondo vuole subordinarla alla propria agenda politica». L’obiettivo delle pressioni esercitate su Sako, scrive l’editorialista, è rimuoverlo e consegnare l’autorità religiosa a Rayan al-Kaldani.

 

Da parte sua, il presidente iracheno si è difeso diffondendo un comunicato in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione cercando di minimizzarne le conseguenze: «La revoca del decreto della Repubblica non pregiudica lo status religioso o giuridico del Cardinal Louis Sako, essendo questi nominato Patriarca della Chiesa caldea in Iraq e nel mondo dalla Santa Sede. La revoca del decreto corregge una situazione costituzionale, in quanto il decreto n. 147 del 2013 era stato emanato senza fondamento costituzionale o giuridico». In un secondo comunicato, la presidenza ha chiarito che «i decreti della Repubblica di nomina possono essere emanati solo a favore di chi lavora nelle istituzioni, nelle presidenze, nei ministeri e nelle agenzie governative», e questo non sarebbe ovviamente il caso di Sako. Dal punto di vista del Cardinale però la situazione non è così semplice come è stata spiegata dalla presidenza; in un’intervista rilasciata a un’emittente locale Sako ha infatti chiarito che il decreto era necessario nella misura in cui gli consentiva di amministrare le proprietà e i beni della Chiesa caldea. Il portavoce del movimento Babilonia è entrato a sua volta nel dibattito dichiarando il movimento estraneo alla vicenda e ingiustamente accusato dal Cardinale: «Coinvolgere Babilonia nella crisi è folle e noi non lo accetteremo. Il Cardinal Sako deve affrontare la questione in un modo adeguato alla sua posizione religiosa, non attaccando un blocco parlamentare e una brigata delle Forze di Mobilitazione Popolari, e accusandoci di terrorismo». Come ha riportato al-Jazeera, al-Kaldani ha pubblicato un comunicato sul suo account Twitter, in cui ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’affaire: «Noi riteniamo che ciò di cui Sua Beatitudine il Patriarca ha bisogno oggi è ritirarsi dalla politica, non dalla capitale storica del Patriarcato di Babilonia dei caldei. Questa è una prova della debolezza della cerchia patriarcale e della sua subordinazione a un’agenda politica, di conseguenza i cristiani sono usati, ancora una volta, come carta di pressione tra i pesi massimi della politica [letteralmente, “le balene della politica”]». Da mesi infatti, scrive l’editorialista, al-Kaldani e Sako si accusano vicendevolmente – il primo denuncia il ruolo “politico” del Cardinal Sako, mentre quest’ultimo accusa il leader del Movimento Babilonia di tentare di intestarsi la rappresentanza cristiana.

 

Lunedì il presidente iracheno ha ricevuto padre Charles Lwanga Ssuuna, Chargé d’Affaire della Nunziatura apostolica in Iraq. Da questo incontro è nata l’ennesima incomprensione tra le due parti in causa: l’ufficio della presidenza irachena ha diffuso una nota dicendo che «la Nunziatura apostolica non ha avuto nulla da ridire sulle procedure della Presidenza della Repubblica in merito alla revoca del decreto repubblicano del Cardinal Louis Sako». Poche ore dopo è arrivata la smentita dalla Nunziatura, che «si rammarica per l’incomprensione e per il trattamento inopportuno riservato a Sua Beatitudine il Patriarca Mar Louis Sako, custode delle proprietà della Chiesa caldea, oltre che per alcune relazioni faziose e fuorvianti sulla questione, che spesso ignorano [Sako] come figura religiosa molto stimata». Secondo fonti vicine al Cardinal Sako intervistate da al-‘Arabi al-Jadid, tra cui il direttore della fondazione irachena “Sorayah”, Nawzad Boulos, la decisione presidenziale era premeditata ed è stata preceduta da campagne mediatiche condotte dai canali satellitari vicini alle milizie armate e all’Iran.

 

La revoca del decreto ha suscitato ovviamente la reazione dei cristiani iracheni. Venerdì scorso centinaia di fedeli si sono riuniti nella città di Ankawa, nel governatorato di Erbil, e hanno organizzato una veglia in segno di protesta davanti alla cattedrale di San Giuseppe dei caldei. Al-Quds al-Arabi ha riportato alcuni stralci del loro comunicato in cui si sottolinea che «un tale insulto al capo della più grande Chiesa in Iraq è un precedente pericoloso e doloroso per tutti noi, è qualcosa di inedito nella storia dell’Iraq. Ciò avrà effetti e conseguenze negative per tutta la nostra esistenza cristiana, sia in Iraq che nell’intera regione. Questo precedente è un colpo al cuore, rivolto contro una componente pacifica da chi dovrebbe essere il protettore di tutti gli iracheni. […] L’emanazione di decreti riguardanti la sovranità dei patriarchi e dei vescovi […], dopo che questi hanno ricevuto la nomina dal Vaticano, è stata una consuetudine di tutti i governi che hanno preceduto il vostro e, prima di loro, in tutte le epoche, monarchiche e repubblicane, e prima ancora all’epoca dell’impero ottomano e del califfato abbaside, fino a diventata una consuetudine a cui sono stati dati dei fondamenti giuridici. La consuetudine è più forte del testo costituzionale».

 

L’ex ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari su al-Sharq al-Awsat si è domandato «che cosa vuole l’Iraq dai suoi cristiani». Quella dei cristiani è «una questione sovrana, che attiene alla sicurezza nazionale dell’Iraq», ha scritto Zebari. «I cristiani con la loro presenza sono una parte fondante dell’essenza dello Stato iracheno moderno, della sua sicurezza nazionale e della sua pace, interna e regionale. […] Essi erano e sono un valore aggiunto politico, sociale, culturale, evolutivo e spirituale per l’Iraq, per tutto l’Iraq. Di conseguenza, ogni istituzione o autorità irachena, qualunque sia la sua posizione e il suo livello di influenza, dovrebbe custodire questa presenza cristiana, innanzitutto per il bene dei cristiani che, in qualità di cittadini iracheni, godono di questo diritto secondo la Costituzione, e poi in considerazione del loro valore aggiunto, che non è mai andato a beneficio soltanto dell’Iraq».  «Costruire l’Iraq moderno non significa solo cambiare capo del governo, ma operare un cambiamento radicale nell’identità dello Stato e soprattutto nella forma del suo rapporto con la società interna. L’Iraq è stato un Paese totalitario, militare e repressivo che commerciava e usava la religione per perpetuare l’autorità dei governanti; il nuovo Iraq dovrebbe essere il contrario di tutto ciò, un Paese democratico, civile, federale, dal grande spirito, fondato su autorità che si pongono come obiettivo quello di servire sempre la società e proteggere la sua diversità a tutti i costi, senza costringere le sue componenti più vitali a entrare in un inutile battibecco politico».

 

Al-‘Arab ha titolato “Escalation della crisi del Patriarca caldeo nelle case dei cristiani iracheni”. I vescovi, ha scritto il quotidiano panarabo londinese, hanno sollevato l’attenzione su una situazione che diventa di giorno in giorno più allarmante e preoccupante, con il rischio che possa esplodere innescando un conflitto confessionale. All’allarmismo dei vescovi fa da contraltare la posizione del movimento Babilonia, il cui portavoce ha nuovamente minimizzato la decisione del Cardinal Sako di trasferirsi a Erbil, diramando l’ennesima nota in cui si dice che «il Patriarca ha due sedi, a Bagdad e a Erbil, una invernale l’altra estiva, e pertanto ai fini della gestione dei beni ecclesiastici non cambia nulla se è a Bagdad o a Erbil. Sako è una persona con un suo prestigio religioso ed è stato eletto dal Vaticano (sic!). C’è una legge attraverso la quale può gestire i beni di cui è responsabile, pertanto la revoca del decreto non gli ha arrecato alcun danno dal punto di vista dell’amministrazione dei beni. [Questa decisione] non priverà il patriarca del suo ruolo di gestore dei beni della Chiesa caldea, né lo priverà del suo prestigio».

 

Intanto, nella notte tra giovedì e venerdì un gruppo di sostenitori di Muqtada al-Sadr ha assaltato e incendiato l’ambasciata svedese a Bagdad in segno di protesta contro il governo svedese, che ha concesso l’autorizzazione a Salwan Momica (il rifugiato iracheno che a fine giugno aveva dato alle fiamme il Corano davanti a una moschea di Stoccolma) di bruciare, per la seconda volta, mercoledì scorso, una copia del Corano e la bandiera irachena davanti all’ambasciata d’Iraq in Svezia.

 

Poche ore dopo il rogo dell’ambasciata, il governo iracheno ha rotto le relazioni diplomatiche con la Svezia richiamando il suo Chargé d’Affaire dall’ambasciata irachena in Svezia ed espellendo l’ambasciatrice svedese dall’Iraq. «Queste direttive sono una risposta al permesso concesso dal governo svedese di bruciare il nobile Corano, insultare le cose sacre islamiche e bruciare la bandiera irachena», spiega il comunicato diramato dalla presidenza. Il governo ha inoltre revocato le licenze all’azienda svedese Ericsson, che non potrà più operare sul territorio iracheno. La milizia armata Ashab al-Kahf (letteralmente “I compagni della caverna”), vicino all’Iran, si è detta pronta a colpire e distruggere, a sua volta, gli interessi svedesi in Iraq. 

 

Il chierico e politico sciita Muqtada al-Sadr sul suo account Twitter ha scritto: «Dopo aver dichiarato la sua ostilità all’islam e ai libri celesti, sia nella loro dimensione esteriore che nel loro significato spirituale, ecco che la Svezia oltrepassa le linee diplomatiche e il protocollo, e dichiara la sua ostilità all’Iraq dando il permesso di bruciare la bandiera irachena. Aspetto la risposta ufficiale risoluta prima di far seguire una mia reazione, secondo la mia comprensione [dei fatti]. Se la bandiera irachena è stata effettivamente bruciata... il governo non deve limitarsi a condannare [il fatto], perché questo è indice di debolezza e sottomissione. Quanto al rogo reiterato del Corano, non vi si può rispondere con il rogo della Torah e del Vangelo... Spetta anzi ai popoli del mondo assistere il cielo, altrimenti ci saranno conseguenze nefaste».

 

Poche ore dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, al-Quds al-‘Arabi ha definito la crisi innescata da Momika «una crisi tanto irachena quanto globale». Oltre ad aver bruciato il Corano e la bandiera irachena, Momika è stato infatti ripreso nell’atto di pulirsi le scarpe su una fotografia di al-Sadr e di ‘Ali Khamenei. Il movimento sadrista, spiega l’editoriale del quotidiano panarabo, «è l’erede dei rancori storici degli sciiti e dei rancori della famiglia al-Sadr, fino ad arrivare alla decisione dell’Iran e delle forze che lo sostengono di impedire a questo movimento di formare un governo, come è accaduto dopo le recenti elezioni irachene in cui il movimento aveva ottenuto la maggioranza parlamentare (73 seggi). La lunga crisi si è conclusa con le dimissioni in blocco dei sadristi e la successiva formazione del governo di Muhammad Shia‘ al-Sudani, il candidato dei suoi oppositori politici». Le risposte del movimento sadrista possono essere lette sullo sfondo della «cancellazione personale e politica di al-Sadr» e rappresentano il tentativo del leader di dimostrare al governo il peso del movimento. A meno di un anno dalla sua uscita dall’arena politica, al-Sadr ha ricordato ai suoi rivali l’influenza di cui ancora gode nel Paese, ha commentato al-‘Arab. Secondo la lettura proposta da Ahmed Younes, politologo esperto di fazioni irachene, l’obbiettivo di al-Sadr è inviare un messaggio di ammonimento ai suoi oppositori per dimostrare loro che è ancora forte e continua ad avere una notevole capacità di mobilitazione. Il timore è che il ritorno di al-Sadr possa minare la stabilità dell’Iraq, trasformandolo in uno dei principali Paesi di origine di migranti in Europa. Inoltre, secondo i rivali politici sciiti di al-Sadr, quest’ultimo mirerebbe a mettere in imbarazzo il governo e indebolire le relazioni diplomatiche che al-Sudani ha instaurato con l’Occidente, in particolare con gli Stati Uniti.   

 

Chi ha capito il Memorandum di Intesa tra Tunisia e Unione Europea? [a cura di Mauro Primavera]

 

Come interpretare il Memorandum di Intesa firmato nel Palazzo di Cartagine dal presidente tunisino Kais Saied, dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, dal premier (dimissionario) olandese Mark Rutte e dalla presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni? Se lo chiede, con spiccato senso dell’ironia, il giornalista tunisino Mukhtar al-Dababy, che sul quotidiano panarabo al-‘Arab apre il suo editoriale con una “critica sociale” molto simile a quelle che si leggono nella stampa occidentale: «sui social, più di dieci milioni di tunisini sono diventati esperti dei pilastri dell’accordo con l’Unione Europea, cercando di dare spiegazioni che forse non sono venute in mente nemmeno a quei tunisini ed europei che hanno  scritto e discusso l’accordo. Ci sono interpretazioni a profusione. Dalla rivoluzione del 2011 la gente è diventata esperta di tutto: di democrazia, di religione, di calcio, di tennis, di cucina, di inflazione, di tassi di interesse». Entrando nel merito del memorandum, al-Dababy sottolinea come la complessità e la vaghezza del testo renderà necessaria la produzione di ulteriore documentazione che definisca alcuni punti, come la gestione delle rotte migratorie e l’esatto ammontare del denaro da immettere nelle casse dello Stato tunisino. Quest’ultimo, secondo il giornalista, ha abbastanza potere contrattuale per interpretare i fumosi termini dell’accordo in linea con i suoi interessi, giocando sulla debolezza dell’Unione, colpita dall’inflazione ed eternamente divisa tra i suoi Stati membri.

 

Al-Quds al-‘Arabi passa invece in rassegna le fallaci narrazioni di Saied sull’immigrazione. Il ra’īs, dopo dichiarazioni a effetto e ferme prese di posizione, è stato costretto a repentine retromarce: prima ha dichiarato che «sugli immigrati irregolari “la Tunisia ha dato una lezione al mondo”, ma poi «si è affrettato a definirli parte di un complotto che mira a modificare la composizione demografica della Tunisia». E poi ancora, lo scorso giugno affermò che Tunisi «non sarebbe diventata una guardia di frontiera per altri Paesi»; invece, per al-Quds, l’accordo con l’Unione prevede proprio questa specifica funzione. Non è la prima volta che la condotta del presidente risulta contraddittoria: «da quando Saied ha attuato il suo colpo di Stato ai danni dell’esperienza democratica e del progetto di trasformazioni politiche, sociali, economiche e costituzionali in Tunisia, la volubilità è diventata un tratto distintivo del comportamento del Palazzo di Cartagine, e la contraddizione è stata una costante dell’atteggiamento del presidente».    

 

L’Algeria parla (non ancora fluentemente) il cinese [a cura di Mauro Primavera]

 

La visita del presidente Abdelmajid Tebboune in Cina potrebbe segnare un altro importante risultato di Algeri, che negli ultimi anni è diventata un attore decisivo dell’area euro-mediterranea e non solo. L’ambizione del capo di Stato, infatti, è quella di proiettare il proprio Paese verso l’Estremo Oriente e di avviare una partnership strategico-commerciale con Pechino. Il quotidiano economico algerino al-Mustathmir analizza in dettaglio l’ampio programma di investimenti cinesi nel Paese nordafricano, tra cui spicca l’ampliamento del porto di Hamdaniya, che dovrebbe diventare uno dei più grandi del mondo, e lo sfruttamento delle miniere di ferro di Gara Djebilet, che «renderanno d’oro l’economia nazionale». Non è solo una questione di investimenti, ma anche e soprattutto di una necessità geopolitica che si inserisce nel quadro di uno «scenario multipolare e dell’ascesa del cosiddetto “Sud Globale”, come dimostra l’aumento delle richieste di adesione ai Paesi Brics, Algeria inclusa, il declino dell’egemonia del dollaro nei commerci sostituito da valute dei Paesi del Sud globale». Sotto questi presupposti, il Paese arabo ha accettato di ampliare il programma della Belt and Road initiative, la strategia cinese di sviluppo globale a cui Algeri aveva aderito nel 2018, riprendendo lo slogan di Xi Jinping del “destino comune”: «Cina e Algeria adottano le stesse vedute e gli stessi punti di vista, soprattutto in merito a temi di interesse comune, così come si tengono in contatto e si coordinano sulle questioni regionali e internazionali».  

 

Oltre agli affari e agli interessi geo-strategici, Pechino ha mostrato l’intenzione di intervenire anche nell’ambito culturale promuovendo l’insegnamento del cinese in Algeria: un’impresa per niente semplice perché, come ammette il direttore di un’università privata della capitale nordafricana ad al-Mustathmir, «sono pochi i professori e i linguisti incardinati che padroneggiano la lingua».  

 

L’ingresso nel “club” dei Brics rappresenterebbe il coronamento della politica di Tebboune, ma, come nota al-‘Arab, vi sono ancora degli ostacoli, come «la mancata diversificazione dell’economia nazionale, dipendente da petrolio e gas, il modesto prodotto interno lordo e la scarsa apertura economica ai mercati mondiali». Più positiva l’analisi dell’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, che scrive come l’incontro tra Tebboune e Xi Jinping costituisca «un nuovo inizio» nel lungo corso delle relazioni tra i due Paesi. Più scettica la visione di al-‘Arabi al-Jadid che, pur lodando l’iniziativa congiunta, evidenzia i limiti della mentalità imprenditoriale algerina: «la mentalità del lavoratore straniero in ambito economico, arabo o non arabo, ha un’attitudine al liberalismo e ragiona in termini di profitti e di perdite, di tempo e di impegno. Ciò vale anche per i cinesi che hanno fatto dell’economia il loro interesse principale. Ma questa disposizione differisce completamente da quella algerina, che non si è ancora sbarazzata della cultura del sussidio e del modello socialista sia nella pianificazione che nella gestione degli affari. È uno dei più grandi dilemmi algerini».  

 

Il Paese delle piramidi (di debiti, ritardi e contese) [a cura di Mauro Primavera]

 

Anche questa settimana l’Egitto, dopo l’iniziativa per risolvere la guerra civile sudanese, rimane un “osservato speciale” della stampa araba, per una serie di questioni. Anzitutto prosegue la striscia di editoriali scritti in occasione dell’anniversario del (contro)colpo di Stato del 2013. In uno di questi, il politologo libanese Gilbert Achcar scrive su al-Quds al-‘Arabi che l’Egitto sta vivendo senza dubbio «il peggior decennio della sua storia recente». Nonostante le pessime performance economiche, il presidente della repubblica ‘Abd al-Fattah al-Sisi sta cercando di emulare la grandezza dell’antica civiltà egizia promuovendo la costruzione di progetti faraonici, tra cui la nuova capitale amministrativa: «il progetto politico-economico si ispira al periodo dei Faraoni, peccato che adesso non sia più tempo di imitarli schiavizzando gli operai nella costruzione delle Piramidi, ma è un’epoca in cui vigono imperativi economici molto più complessi rispetto a quelli di migliaia di anni fa. Al-Sisi pensava di fare miracoli lanciando lo slogan delle campagne faraoniche dirette dall’esercito e finanziate dalle monarchie del Golfo, ma il risultato a cui è giunto dopo nove anni dalla nomina a presidente si è ridotto a dei cantieri incompiuti e a un governo che, sull’orlo della bancarotta, è stato costretto a vendere alle potenze del Golfo, dopo le isole di Tayran e Sanafir, gran parte delle terre e gli arredamenti della sua casa, senza peraltro avere la certezza che quelle compreranno la merce esposta: non c’è garanzia che l’Egitto sopravviva all’imminente collasso della sua economia».

 

Le difficoltà del Paese sono ormai innegabili anche per la stampa amica del regime di al-Sisi. Partiamo con un articolo del più famoso quotidiano egiziano, al-Ahram: in un editoriale del 13 luglio, dal titolo “la nuova capitale, speranze e aspettative”, l’autore parla apertamente di cattiva organizzazione nel trasferire i dipendenti pubblici dagli uffici della vecchia Cairo al centro amministrativo sorto nella nuova capitale ancora senza nome: «l’organizzazione non ha lavorato a pieno regime», ammette il giornalista, preoccupato per l’impatto mediatico che questi ritardi potranno avere. Anche al-‘Arab sostiene con favore «il cambiamento radicale nella filosofia di governo» che i militari sarebbero in procinto di adottare, soprattutto nella velocizzazione delle procedure burocratiche e nell’offrire una pronta risposta ai gravi problemi sociali economici che affliggono gran parte della popolazione.  

 

Un altro tema che ha tenuto banco è stata la visita al Cairo del presidente etiope Abiy Ahmed per portare al termine il negoziato con al-Sisi sulla quantità di acqua che dovrà (o potrà) contenere la Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD), come noto al centro di una annosa contesa tra i due Paesi. La testata panaraba al-‘Arabi al-Jadid, tradizionalmente ostile al presidente egiziano, commenta con sarcasmo che discussioni del genere sono «aria fritta» (in originale “l’arte di masticare l’aria”): «il Cairo sa, così come lo sa Addis Abeba e il mondo intero, che la questione della Diga del Rinascimento è stata decisa già nel 2015, quando fu firmato l’accordo tra Egitto, Sudan ed Etiopia. In virtù di un testo scritto e firmato, questo incontro sembra tenersi fuori tempo massimo e, per il giornale, non potrà svincolare l’Egitto dagli impegni che si è assunto in passato.  

 

In aggiunta a tutti questi problemi, al-Quds al-‘Arabi ricorda anche la questione della sovrappopolazione e il cambiamento climatico che mette a repentaglio la sicurezza idrica e alimentare del Paese. Infine, la testata indipendente egiziana MadaMasr è l’unica testata del Paese a riportare la notizia della liberazione di Patrick Zaky.

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