Padre e figlio si confrontano sul loro rapporto con il Paese d’origine. Per uno patria da cui è dovuto fuggire, per l’altro parte di un’identità plurale

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:59

copertina-siria-grande-come-mondo.jpgMohamed e Shady Hamadi, La nostra Siria grande come il mondo, add editore, Torino 2021

 

Quando ci si trova a scrivere di un libro di cui si conoscono gli autori, per di più dedicato al loro problematico Paese d’origine che ha appena ricordato i 10 anni dell’inizio di un conflitto che lo ha devastato e non sembra ancora finire, il pericolo maggiore è la retorica.

 

Mi aiuta a non caderci la prosa asciutta delle sue pagine, inevitabilmente intense e a tratti struggenti, ma semplici e tanto simili alle lunghe chiacchierate avute prima col padre e poi col figlio, accumulate in anni di incontri conviviali, riunioni e dibattiti, oltre agli incontri per le strade dove si cercava di dare una mano almeno a qualcuno degli innumerevoli profughi siriani che approdavano ai nostri lidi. Sbarcati la sera prima in Sicilia, dopo traversate da incubo in cui talvolta avevano visto morire qualcuno dei loro compagni di sventura, eccoli già alla Stazione Centrale di Milano. Ricordo in particolare una mattina in cui ne intercettammo una cinquantina, prevalentemente donne e bambini. I servizi comunali erano al completo e comunque disponibili a ospitare soltanto maschi adulti. Questi ultimi non avevano avuto problemi ad arrangiarsi per la notte  su qualche panchina, ma come lasciare gli altri per strada? L’ospitalità di alcuni musulmani e cristiani ci venne in soccorso. Degno di menzione è un amico turco a cui dissi solo che c’erano 50 persone da sfamare: senza chiedermi da dove venissero né a quale fede appartenessero volle unicamente un indirizzo a cui far recapitare pasti caldi per tutti, che ordinò subito a un kebab.

 

La mattina dopo in modo un po’ rocambolesco li riaccompagnammo in stazione, dove presero un treno per il nord Europa: erano dotati di documenti come profughi di origine palestinese ed erano soprattutto i primi ad arrivare, forse per questo non ebbero difficoltà ad attraversare confini che di lì a poco sarebbero stati chiusi. I loro visi e brani delle loro storie li ho impressi ancora nella mente, ma queste immagini tornano ad animarsi leggendo le pagine di questo libro. È il racconto di tre generazioni: Mohamed, infatti, è appena diventato nonno, anche se Shady e Nadia ormai vivono a Londra con la piccola Matilde Leila. Figlio di una madre italiana strappatagli da un tumore quand’era ancora ragazzo, Shady ha già pubblicato volumi e numerosi articoli che prendendo le mosse dalla sua composita identità ci hanno svelato poco a poco un mondo. Questa volta, scrivendo a quattro mani col padre, il quadro si amplia nel tempo e scende più in profondità.

 

Liberatisi dal dominio ottomano dopo la prima guerra mondiale, gli Stati nazionali arabi moderni si dovettero misurare col colonialismo, che tramontò gradualmente a partire dalla metà del secolo scorso. L’anelito all’indipendenza fu presto accompagnato da ulteriori esigenze di libertà, giustizia e sviluppo spesso in conflitto con regimi militari, monopartitici, corrotti e prepotenti. Pagato un alto prezzo per il suo impegno politico, il giovane Mohamed cominciò a vagare tra il Kuwait e l’Iraq lungo un esilio che lo ha portato anche in molti altri Paesi, per giungere infine a Sesto S. Giovanni, dove ha poi sposato Grazia, ha visto nascere Shady e ha potuto finalmente dare il proprio contributo alla via sociale venendo eletto, lui musulmano, nel consiglio comunale con tanto di raccomandazione del parroco che lo vedeva ogni domenica accompagnare a messa la moglie. Il ragazzo fu iscritto a una scuola cattolica, parlava coi genitori delle rispettive religioni, ma nessuno dei due cercò di influenzarlo in un senso o nell’altro. A casa si celebrava il Natale, ma un giorno a scuola svenne perché volendo imitare papà che digiunava durante il Ramadan ebbe una crisi ipoglicemica. Tante e tanti come lui conosciuti in vari decenni hanno dovuto porsi domande che gli autoctoni spesso non si fanno, maturando così in fretta una serie di interrogativi che ci fa tanto bene conoscere e che peseranno sull’Italia di domani.

 

Riassumere in poche righe le vicende di due vite complesse e ancora in corso sarebbe impossibile e toglierebbe al lettore il gusto di scoprirle una ad una. Molte pagine serene e piene di quella normalità che ci ostiniamo a negare a questi nuovi concittadini, molte meste come è inevitabile sia nell’esistenza di esuli, alcune atroci che finalmente dicono ciò che in anni ed anni si poteva intuire, ma rimaneva serbato per comprensibile riservatezza. Se ne esce con un senso di dignità umana composta, pur se dolente, ma ancora capace di entusiasmi: ora che è in pensione, Mohamed lavora come volontario del Touring Club, illustrando in varie lingue le bellezze della chiesa di S. Maurizio. Il figlio, come tani altri giovani italiani, per trovare lavoro si è spostato in Inghilterra, ma non dimentica l’origine araba, la formazione italiana, la speranza di un futuro migliore per le sue terre d’origine, delle quali conosce bene i problemi che hanno determinato gran parte del suo destino, ma che principalmente ricorda e di cui continua a interessarsi per affetto. In un cuore così ben abitato ci sarà sempre spazio per un sogno in più.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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