Nel suo ultimo libro Pascal Ménoret mostra come le periferie saudite, nate per dare vita a una comunità di cittadini obbedienti e isolati, abbiano invece aperto nuovi spazi per l’azione politica

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:25

B087D9VL5K.01._SCLZZZZZZZ_SX500_.jpgRecensione di Pascal Ménoret, Graveyard of Clerics. Everyday Activism in Saudi Arabia, Stanford University Press, Stanford 2020.

 

Nawwaf, impiegato di vent’anni; ‘Adel, studente universitario con simpatie per i Fratelli musulmani; Saleh, imprenditore cinquantenne interessato alla mistica; Sa‘ud, ragazzo attivo nei circoli di memorizzazione del Corano con una passione per il Mein Kampf. Sono alcuni fra i protagonisti dell’attivismo religioso in Arabia Saudita, a cui si dedicano spesso in auto, qualche volta in un’abitazione privata, raramente in uno spazio pubblico. Più che l’attivismo religioso in sé, il libro di Pascal Ménoret esplora tuttavia un fenomeno ad esso collegato: l’espansione urbana del Regno dal secondo dopoguerra in avanti. L’autore mette infatti in chiaro di non essere interessato alla religione intesa come tradizione dottrinale o al fenomeno sociale dell’attivismo. Piuttosto, il suo progetto di ricerca mira a «comprendere la relazione complessa fra attivismo, riforma e repressione […], esaminando le ambiguità e contraddizioni della vita quotidiana degli attivisti» (p. 11) e indagando come «l’azione politica sia emersa in un ambiente altamente repressivo» (p. 79). E l’ambiente di cui parla Ménoret non è solo figurato, ma è la configurazione fisica dello spazio urbano in cui gli attivisti vivono e operano. Il testo diventa quindi un’analisi della geografia politica e del processo di politicizzazione delle città.

 

Nella sua storia, il Regno saudita ha infatti attraversato diverse fasi di ristrutturazione, nel senso letterale del termine. È stata l’ARAMCO, la compagnia petrolifera di Stato, a introdurre le prime novità, costruendo aree urbane in stile californiano per il suo personale statunitense, separate dai cosiddetti “campi sauditi”. Fu questa ghettizzazione, unita alle deplorevoli condizioni dei lavoratori sauditi, a suscitare il malcontento popolare, poi sfociato in diverse ondate di scioperi a cavallo fra gli anni ’40 e ’50. E queste proteste, scoppiate negli spazi isolati dei campi sauditi, hanno accelerato il processo di urbanizzazione selvaggia. Secondo l’autore, infatti, «l’obiettivo della monarchia era liberarsi di centri popolosi e incoraggiare la dispersione della popolazione» (p. 60) in aree più facilmente controllabili. E così che sono nati i quartieri di New Manfuha e Malaz a Riyad, si sono sviluppati i borghi di Rahima e Abqaiq nella Provincia Orientale, e a Medina si è esteso il quartiere di al-Harra al-Shargiyya. Lo stesso principio ispirò il Piano Doxiadis, dal nome dell’architetto greco che ha ridisegnato il paesaggio urbano saudita, incentrato sull’idea di “superblocchi”, ovvero isolati semi-autonomi, chiusi alle auto, dotati di moschea e separati da ampie carreggiate. Benché pensati come unità quasi rurali e refrattarie all’attivismo, questi quartieri sono diventati presto aree suburbane densamente popolate e politicamente vivaci.

 

Nel 1976, il fallimento del Piano Doxiadis spinse la leadership saudita a incaricare la Société Centrale pour l’Equipment du Territoire International della progettazione di un nuovo piano urbano, volto a «creare ghetti funzionali a separare i cittadini dai lavoratori immigrati» (p. 62). In realtà, i superblocchi si moltiplicarono, poiché «l’alleanza fra principi, investitori e costruttori era la spina dorsale del corpo politico saudita, dove il quietismo politico veniva ricompensato con opportunità di business» (p. 63). L’assalto alla moschea della Mecca e la rivolta sciita nella Provincia Orientale del 1979 aprirono però gli occhi alla casa reale: non era più tempo di speculare sull’edilizia, ma occorreva regolare l’espansione incontrollata delle aree urbane. Così, nel 1985 Riyad bloccò per due anni l’approvazione di permessi di costruzione e nel 1989 attuò la Urban Growth Boundary Policy per regolare l’espansione suburbana. Le nuove misure, però, non portarono gli effetti sperati: «i proprietari terrieri e gli investitori […] hanno continuato a costruire, sacrificando il controllo urbano sull’altare dell’accumulo di capitale» (p. 65). Ricorda ancora Ménoret che «l’espansione urbana, basata sulla celebrazione della proprietà privata e sull’estensione dell’uso di automobili, non ha scoraggiato, ma fomentato la politicizzazione delle aree urbane» (p. 65).

 

È su questa espansione sregolata che si è innestata una nuova forma di attivismo, rappresentato in particolare da un movimento ibrido, la Sahwa Islamiyya (il Risveglio Islamico), che combinava il rigorismo wahhabita con l’esperienza politica dei Fratelli musulmani. Non è un caso che questo fenomeno si affermi negli anni ’60 e ’70, «quando le città saudite si espandevano a macchia d’olio diventando massicce aree suburbane fondate sulle automobili» (p. 42). Queste ultime sono diventate così l’unità minima dell’attivismo, funzionale a collegare le diverse aree e ideale per organizzare riunioni sotto l’egida di un “supervisore-autista”, lontano dallo sguardo censore del Palazzo. Ménoret si concentra inoltre sui centri di memorizzazione del Corano, solitamente organizzati nelle moschee da figure politicamente più timide e di orientamento salafita, e sui circoli di consapevolezza islamica, tipicamente guidati da figure più vicine alla Fratellanza. Dalla sua ricostruzione emerge una sorta di competizione fra i due istituti. Se da un lato i centri volevano rafforzare i legami intra-gruppo, schermando quasi il collettivo dalla realtà, dall’altro i circoli davano la precedenza al reclutamento verso l’esterno per ampliare la base politicamente attiva.

 

Infine, Ménoret affronta in modo dettagliato il variegato mondo dei campi estivi per ragazzi, della durata di sei settimane, avviate negli anni ’80 da alcuni membri della Sahwa, rispetto ai quali la monarchia ha adottato nel corso del tempo diverse strategie: irrigidimento del controllo a fine anni ’80, repressione a metà degli anni ’90 dopo la cosiddetta “intifada di Burayda”, cooptazione dopo il 1995 e nuova soppressione dopo il 2003. In un certo modo, l’atteggiamento della monarchia nei confronti dei campi estivi è diventato paradigmatico delle strategie di contenimento, cooptazione e repressione nei confronti dell’attivismo, funzionale anche alla frammentazione dei movimenti popolari.

 

Esaminando un campo nella provincia di Riyad, Ménoret evidenzia come «alcune figure volevano trasformare i campi in risorse elettorali. Altri, come il vicedirettore, volevano sfruttarli per inculcare l’amore per la patria e per la famiglia reale, promuovendo una forma di leadership non religiosa» (p. 165). L’obiettivo, sulla falsa riga di quanto promosso dal Ministero per l’Educazione nelle scuole superiori, era «creare negli studenti un senso di cittadinanza (…) lontano da tribalismo e pan-Islamismo» (p. 138). È dunque interessante notare come le premesse del processo di nazionalizzazione “dall’alto” promosso dal Principe ereditario Mohammed bin Salman fossero già riscontrabili nella gestione dei campi estivi di quegli anni. A guidare l’interesse di Ménoret per questo fenomeno è il loro ruolo mobilitante nelle elezioni municipali del 2005, quando a Riyad i sette candidati più religiosamente schierati ottennero tutti i sette seggi disponibili, nonostante i tentativi di sabotaggio del Regno. Per Nasir al-Omar, figura centrale nella Sahwa, l’importanza delle elezioni risiedeva nel fatto che «le municipalità possono diventare istituzioni islamiche che fungono da contrappeso all’amministrazione corrotta dello Stato» (p. 87).

 

Nonostante l’impronta prettamente religiosa di queste iniziative, dal racconto degli attivisti emerge chiaramente come «le idee abbiano giocato un ruolo marginale nella decisione di partecipare a questi circoli» (p. 112). Cosa ha spinto dunque giovani di diverse estrazioni sociali a partecipare a queste iniziative? Per Ménoret, gli attivisti islamici hanno utilizzato istituzioni statali, come scuole e moschee, per sviluppare consapevolezza dell’ambiente sociale circostante. Riprendendo l’idea di Sahwa, si potrebbe dire che i giovani hanno intravisto nelle iniziative dell’attivismo un modo per risvegliarsi dal torpore promosso dallo Stato. Ménoret cita infatti due espressioni ricorrenti nelle parole degli attivisti da lui incontrati: lā mubālā e tufūsh. Lā mubālā viene definita una sorta di «apatia come forma di vuoto creativo […] e desiderio politico represso» (p. 14) che spinge all’attivismo. Tufūsh è allo stesso modo lo sconforto che grava sui giovani impotenti di fronte alle forze politiche statali. Per Menoret, dunque, le iniziative degli attivisti sono sintomatiche di un desiderio politico giovanile represso dallo Stato. Va comunque notato che le brillanti argomentazioni impiegate dall’autore per spiegare le motivazioni individuali della partecipazione politica andrebbero integrate con una disamina delle altrettanto rilevanti condizioni strutturali e contestuali. A sostegno di questa annotazione basti ricordare la tesi di Madawi al-Rasheed, per cui le proteste a Qatif e Burayda si ricollegano anche a una forte identità regionale e a collettivi organizzati che sfuggono al controllo dell’apparato centrale del Paese.

 

Le periferie saudite, nate per dare vita a una comunità di cittadini obbedienti e isolati, hanno invece aperto nuovi spazi per l’azione politica. Gli attivisti religiosi hanno trasformato case, scuole, moschee e campi estivi in ​​risorse per la mobilitazione. Le reti locali hanno contribuito a vincere elezioni e a organizzare proteste. Eppure, nota Menoret, l’azione statale ha sempre osteggiato la formazione di una società civile, prendendo proprio di mira quelle personalità, anche e soprattutto religiose, che sfidavano il potere dal basso. E così che la “culla dell’Islam” è diventata nelle parole di Abu Muhammad al-Maqdisi «maqbarat al-ʻulamā’», “il cimitero dei chierici”.

 

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