Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:41
1- Prima del 25 gennaio 2011
In numerose interviste e incontri anteriori alla rivoluzione, affermavo sempre che in Egitto non c’era persecuzione, mentre molti sostenevano il contrario. Questa mia presa di posizione non era rivolta a compiacere il regime di allora, ma voleva esprimere un dato di fatto. Gli atti violenti contro i cristiani, che sono vivamente condannabili, non emanavano infatti da un programma, da una politica o da una struttura pianificata, come invece si richiede perché si possa parlare di persecuzione in senso stretto, secondo la definizione di enciclopedie e dizionari. Non a caso, nel Sinodo per il Medio Oriente i padri Sinodali non avevano mai utilizzato questa parola. Questo non significa naturalmente che tutto andasse bene o che non ci fossero problemi e difficoltà. Per limitarmi all’Egitto, dove vivo, alcune norme contraddicono infatti i principi della libertà e dell’uguaglianza. In particolare ciò è vero per le restrizioni sulle costruzioni e le riparazioni di chiese e per la grande difficoltà che i cristiani incontrano nel conseguire incarichi o promozioni alle cariche pubbliche più elevate.
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2- Durante la rivoluzione
La rivoluzione del 25 gennaio non è stata programmata dai partiti politici né da organizzazioni interne o esterne. È stata il frutto della tecnica moderna di comunicazione via internet, tramite i siti di ‘Face Book’, ‘Twi(é)tter’ e i blogs, di cui i giovani sono affascinati e esperti. La pagina ‘Siamo tutti Khaled Saïd’, creata dal cyber-attivista ‘Wael Ghoneim’ su Face Book, in seguito alla morte del giovane Khaled Saïd, arrestato e torturato dalla polizia ad Alessandria nel giugno 2010, è stata la piattaforma in cui i giovani si incontravano e si scambiavano commenti, sentimenti di rabbia, sogni e speranze.
Per la festa della polizia, il martedì 25 gennaio, Ghoneim lanciò un appello ai giovani per un raduno di massa alla Piazza Tahrir (Liberazione) del Cairo. Si aspettava una partecipazione di cinquecento o mille persone, al massimo poche migliaia. Invece sono venute decine di migliaia di manifestanti e la massa aumentava sempre più. Gli slogan erano molto semplici e concreti: dignità, giustizia, libertà e lavoro. Richieste che rispondevano ai bisogni essenziali della maggioranza degli egiziani. Niente poteva fermare i giovani, neppure la famigerata e vergognosa campagna del ‘cammello’ il 2 febbraio che lasciò decine di morti e migliaia di feriti. Finalmente l’11 febbraio fu dichiarata la fine dell’era Mubarak.
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3- Dopo la Rivoluzione
Purtroppo questo bel sogno non è durato molto. Poco dopo la rivoluzione i Fratelli Musulmani sono apparsi, si sono fatti forti, e hanno assunto il dominio della scena. Sono organizzati e vantano una tradizione di attivismo nella politica e nel campo sociale e presto altre correnti islamiste sono emerse, che prima non si facevano vedere. I più violenti sono i salafiti. Ci sono delle differenze tra le correnti islamiste e qualche volta si combattono tra di loro. Ma tutti si accordano nella volontà di stabilire uno stato basato sulla Sharî‘a. I Fratelli Musulmani hanno già formato un partito politico e si preparano a costituirne altri. Hanno ultimamente dichiarato che mirano al 50% dei seggi in parlamento alle elezioni in programma per settembre. D’altra parte, i giovani della rivoluzione e altri gruppi s’impegnano con forza per realizzare l’ideale e la meta iniziali: uno stato civile e democratico. Purtroppo gli altri hanno la voce alta e il pugno forte.
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4- Aspetti positivi e motivi di speranza
Con ciò non voglio dire che non ci siano fatti positivi, che aprono orizzonti di speranza. Un luminoso segno di speranza ci venne prima di tutto dal Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente nell’ottobre scorso. Il Sinodo ci ha dato grande certezza nella nostra presenza e nel nostro ruolo nella regione e ha suscitato un ardore di rinnovamento del nostro impegno religioso, pastorale e sociale.
In secondo luogo i cambiamenti politici e sociali in corso sono indirizzati verso la creazione di stati civili e democratici e la rivoluzione in Tunisia, Egitto e negli altri Paesi nella regione ha dimostrato che i nostri popoli sono vivi, pieni di dinamismo, decisi a mettere fine ai regimi dittatoriali e corrotti, anche al prezzo di martiri e vittime.
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Il testo integrale dell'intervento sarà disponibile sul prossimo numero della rivista Oasis