Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:45:13
FONDAZIONE MAGNA CARTA
SUMMER SCHOOL 2008
III EDIZIONE 5 - 11 Settembre 2008
1. Le religioni nella società in transizione
L'odierno momento storico, il cui inizio convenzionalmente identifichiamo con il crollo delle utopie nel 1989, appare segnato da un vorticoso mescolarsi di popoli. Nel mondo della globalizzazione, si sono moltiplicate le occasioni di contatti tra persone, popoli, culture e civiltà. In realtà però sappiamo bene che una contiguità fisica sempre maggiore non conduce automaticamente ad un contatto tra persone. Il dato materiale può certamente propiziare l'incontro ma non è in grado di generarlo senza chiamare in causa la libertà degli attori in gioco. Per questo dobbiamo sentire come impellente l'esigenza di rielaborare e ridefinire categorie che ci permettano di pensare in maniera nuova la dimensione fondamentale del vivere insieme. Personalmente ritengo che categorie come reciprocità, tolleranza ed integrazione - marcatamente occidentali - si stiano rivelando non necessariamente sbagliate, ma insufficienti. Non tanto per i valori cui rimandano, quanto per quello che non riescono a pensare e a comunicare.
Prima di tutto occorre insistere sul fatto che l'inedita mescolanza di popoli che caratterizza le nostre società, imponendo come inevitabile l'in-contro tra etnie e religioni diverse, è innanzitutto un processo in atto, che io indico con l'espressione meticciato di civiltà e di culture. Non è quindi né una teoria sull'integrazione culturale, né una categoria complessiva di comprensione della realtà . È un nome dato ad un processo. La categoria di meticciato di civiltà permette però di far riferimento ai cosiddetti "universali concreti" delle religioni. Ma se di universali concreti si tratta, vissuti quotidianamente da quei soggetti comunitari che sono i popoli, si comprende allora che la strada per l'incontro tra gli uomini non può essere altro che la testimonianza. A patto di dare a questa categoria tutta la sua forza fondativa e teoretica, lontani da riduzioni di stampo moralistico.
La scelta di riferirsi a degli universali concreti si precisa anche come tentativo di interpretazione culturale delle religioni. Anche le religioni infatti, in ogni tempo, sono inevitabilmente assunte dai soggetti che le praticano dentro una interpretazione culturale. Nasce così un conflitto di interpretazioni. Vale per il Cristianesimo, vale per tutte le religioni. Per esempio, in Italia si incontrano e si scontrano in questa fase di "post secolarismo" due interpretazioni culturali del Cristianesimo. La prima è quella di chi rischia di ridurlo ad una religione civile, che faccia da collante per tenere insieme la nostra affaticata democrazia. L'altra è quella che io definisco "cripto-diaspora". Molti sostengono che, proprio perché il Cristianesimo non è una religione civile, esso dovrebbe ridursi all'annuncio personale della Croce di Cristo, e di Colui che predicò il Regno e scelse la forma del povero, mentre per quanto riguarda le questioni pratiche dell'etica, dell'economia e della politica i cristiani debbono stare in diaspora senza nulla di proprio da proporre in comune. Ma c'è anche una terza interpretazione, minoritaria, che io sostengo e cerco di perseguire, che sta sul crinale della montagna e tenta di evitare di cadere sia nella riduzione a religione civile, sia in quella della dimensione di cripto-diaspora, proponendo un'interpretazione integrale del fatto cristiano e mostrando tutte le implicazioni, antropologiche, sociali, cosmologiche dei misteri del Cristianesimo. È vero che per la visione cristiana i contenuti del "pratico" sono comuni a tutti gli uomini, ma dalla sequela comunionale di Gesù Cristo scaturiscono, a livello di tutte le implicazioni richiamate, precise proposte, talora necessarie talora contingenti, per vivere il "pratico" (etica, economia e diritto) secondo verità e quindi in pienezza.
2. Riflettere sulla libertà religiosa e di coscienza
Ciò mi spinge ad affrontare il nodo teoretico contenuto nel rapporto verità-libertà. Se infatti è urgente la possibilità di costruire nel quadro storico attuale esperienze di vita buona, che tengano conto dell'in-contro tra diversità, questa ricerca non può sorvolare sulla pretesa di verità cui ogni religione e ogni cultura ambisce, né sulla dimensione della libertà come fattore necessariamente correlato sia alla ricezione che alla ricerca della verità stessa. A me sembra che la strada storicamente più efficace per affrontare il nodo teoretico verità-libertà sia affrontarlo dal punto di vista della libertà religiosa, come espressione culmine della libertà di coscienza e di conversione. Infatti sia la riflessione sull'orientamento intrinseco della libertà alla verità che quella sulla verità della libertà trovano oggi, su questo tema scottante, un terreno decisivo di verifica.
Dal punto di vista delle società occidentali la libertà religiosa, la libertà di coscienza e la libertà di conversione si trovano a convivere con un paradosso. Esse sono sicuramente riconosciute dagli ordinamenti giuridici e affermate dalla mentalità comune. Tuttavia due dati ci dicono la fragilità di questo riconoscimento. Da una parte si concepisce la coscienza in termini che possiamo definire "creativi" in senso equivoco , mentre la coscienza non ha il potere autoprodurre il bene e il male. Dall'altra, sempre in Occidente, queste libertà sono sostanzialmente pensate come una mera prerogativa dell'individuo: "qualcosa" che si riferisce all'ambito del privato e personale e, pertanto, non può pretendere di avere rilevanza pubblica. Il rischio è che queste due declinazioni della libertà religiosa (e di coscienza) si svuotino di contenuto reale nel loro esercizio pratico. In questo modo infatti né si riconosce l'intrinseca dimensione veritativa dell'esperienza religiosa, né si ammette che l'esperienza religiosa si esprime come religione, cioè come un fatto comunitario e popolare.
Se volgiamo ora la nostra attenzione ad altre esperienze, per esempio a quella dei paesi a maggioranza musulmana, ci troviamo di fronte una situazione del tutto diversa. Sia la dimensione veritativa dell'esperienza religiosa sia quella popolare appartengono al DNA di questi popoli. Essi mostrano un grande attaccamento alla propria tradizione. Eppure non si può negare un grave deficit nell'ambito della libertà religiosa: si pensi alle restrizioni al culto, alla questione della cittadinanza per i non musulmani - soprattutto nei paesi di immigrazione -, alla decisiva questione della possibilità di convertirsi. In alcuni paesi a maggioranza musulmana, mentre si può tollerare un certo grado di diversità per chi già nasce in un'altra religione, l'identità di popolo sembrerebbe minacciata se a chiedere di convertirsi è un musulmano. È illuminante, a questo proposito, la via d'uscita implicitamente imposta a queste persone: se vuoi lasciare l'islam, devi abbandonare il paese. In sostanza: a noi la dimensione personale interesserebbe fino a un certo punto, ma vogliamo evitare lo "scandalo" di un gesto pubblico.
3. La libertà religiosa: il "caso serio" del rapporto verità-libertà
Le brevi notazioni che precedono sono un invito a contestualizzare nell'oggi la riflessione circa il nesso tra verità e libertà, una delle questioni sempre risorgenti perché ultimamente indominabile ed indeducibile in termini puramente concettuali.
L'accesso al fondamento o meglio il desiderio di entrare in rapporto con esso costituisce uno dei più potenti stimoli che animano il cuore dell'uomo. Come afferma la nota frase di Sant'Agostino: «quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?» , l'uomo è fatto per la verità, è orientato ad essa, come in varie forme non cessano di ricordare le religioni. La ricerca della verità tradisce tuttavia un possibile rischio, quello di dedurre la verità concettualisticamente, intendendola come un sistema completo e formalmente coerente di proposizioni concettuali. L'atto con cui la coscienza intenziona la realtà, cioè l'affermazione della verità, sarebbe così «il frutto, di carattere rappresentativo, di una mera operazione concettuale». E di conseguenza l'azione sarebbe «l'esecuzione di questo ideale previamente conosciuto».
Variante pratica di tale atteggiamento, ben descritta nella vicenda evangelica del giovane ricco, è il legalismo che «pretende che la libertà si possieda prima di compiersi nell'atto, ritenendo che il suo senso sia già dato una volta per tutte nella norma» . Questa visione della verità sarebbe in ultima analisi una forma di gnosi idolatrica, in quanto cela la pretesa, da parte dell'uomo, di possedere con il suo sguardo limitato la compiuta fisionomia di Dio. «Sia lode a Colui che non ha dato alle sue creature altre vie per conoscerlo se non la loro incapacità di conoscerlo» . Sono parole di Abû Bakr, primo successore del Profeta dell'Islam, che giustamente vengono accostate al si comprehendis, non est Deus d'agostiniana memoria . Un rapporto di possesso nei confronti della verità, quasi che ne potessimo disporre come di una cosa tra le altre, non è possibile, non è in fondo neppure pensabile. Il Cristianesimo sa bene il perché: la verità non è un pacchetto di nozioni, ma è una realtà vivente e personale, che continuamente chiama in causa la libertà. Il Suo manifestarsi non può essere inserito a priori nelle anguste caselle di una ragione geometricamente intesa.
Infatti la Verità stessa, trascendente ed assoluta, domanda per attestarsi all'uomo l'atto della sua decisione. Riflettendo in passato su questo tema, ho avuto modo di sottolineare che «la verità pone l'uomo nella necessità della libera decisione non solo perché gli apre lo spazio della risposta, ma perché la richiede in quanto l'uomo è originariamente destinato alla verità».
Emerge allora con evidenza l'importanza della riflessione moderna sulla libertà, non solo in senso politico (libertà dei popoli e delle nazioni), ma prima di tutto in relazione al suo intrinseco rapporto con la verità. La verità della libertà implica la libertà nell'aderire alla verità. E occorre riconoscere con serenità che questo fatto non è stato sempre così pacifico anche per noi cristiani, se pensiamo alla fatica che abbiamo fatto per attribuire alla libertà religiosa il carattere non solo di garanzia nei confronti dell'azione dello Stato, ma anche di condizione dell'adesione piena alla verità.
Se questo è vero per la nostra storia occidentale, altrettanto sembra si possa dire per altri universi religiosi, soprattutto se del nesso verità-libertà passiamo a esaminare un'eminente attuazione pratica, la libertà religiosa.
Al riguardo Benedetto XVI, nel recente discorso alle Nazioni Unite, ha avuto modo di affermare che «i diritti collegati con la religione sono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in conflitto con l'ideologia secolare prevalente o con posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell'ordine sociale».
Le parole del Santo Padre indicano bene il tipo di lavoro che ci attende nell'affrontare la questione della libertà religiosa. Non potremo infatti non tener presente che si tratta di una scelta dei singoli, ma con ricadute sulla comunità. Oggettivamente questo è un punto critico: infatti che cosa succede all'identità di una comunità se un numero consistente di persone inizia a metterla in discussione o perché proviene da un'altra religione o perché vi si converte? Non è difficile comprendere come questo fatto sia potenzialmente fonte di tensioni.
L'insegnamento dei protagonisti dell'orientalismo cattolico del XX secolo mostra che la Chiesa cattolica non ha come obiettivo quello di mettere a rischio le basi della convivenza sociale nei paesi a maggioranza musulmana. Essa non si riconosce in un proselitismo aggressivo che demonizza le culture e le religioni non cristiane. Padre Anawati, grande figura di domenicano egiziano, teologo e filosofo, ha con disarmante semplicità espresso il nucleo del metodo cristiano nel rapporto con le altre religioni: «Io non studio la cultura musulmana per distruggerla. Perché distruggerla? È una cosa bella in sé. Occorre valorizzarla».
Nello stesso tempo però, il rispetto verso l'identità comunitaria non può spingersi fino a violare la libertà umana del singolo. La dottrina cattolica in proposito non pensa certo la libertà religiosa come possibilità di scelta in un immaginario "supermarket delle religioni". Insiste sulla libertà religiosa come una conseguenza del dovere assoluto e incombente per ogni uomo di aderire alla Verità, ma in oggettiva ed adeguata coscienza. È questa obbedienza mediata dalla coscienza a fondare la libertà religiosa, che non va limitata alla sola possibilità di esercitare il culto, ma comprende anche il diritto di cambiare religione. Anche qui una necessaria precisazione: così facendo la Chiesa non afferma che in questo campo tutte le scelte si equivalgano. L'errore in sé non ha diritti, ma la persona che con coscienza retta cade in errore ne possiede. Non certo davanti a Dio, ma davanti agli altri, alla società e allo Stato. Solo Dio è giudice delle scelte del singolo in tale materia. Egli solo può sapere che cosa si trova nel cuore dell'uomo e per quali ragioni egli decida di abbandonare una religione per un'altra.
Si potrebbe obiettare che lo Stato, anche se evidentemente non è in grado di entrare nel cuore dell'uomo, è comunque interessato a mantenere la coesione della comunità. In questa riserva critica c'è del vero, tant'è che i padri del Concilio Vaticano II scelsero di aggiungere alla dichiarazione sulla libertà religiosa contenuta in Dignitatis Humanae, la clausola restrittiva «posto che le giuste esigenze dell'ordine pubblico non siano violate» (n. 4). Tuttavia, concessa questa precisazione, non si può non domandarsi quale bene può venire alla Verità dal trattenere in una religione persone convinte di non credervi più. Davvero per una comunità religiosa è più deleterio l'abbandono esplicito che una professione di facciata?
4. Testimonianza, proposta e dialogo
Nel consegnare questi interrogativi alla riflessione comune, mi preme concludere ricordando la breve analisi (cui ho fatto cenno all'inizio) circa le opposte difficoltà che Occidente e Oriente trovano nell'impostare correttamente i temi della libertà religiosa, della libertà di coscienza e della libertà di conversione. Questa difficoltà infatti mostra bene come il dovuto assenso alla verità è sempre drammatico perché la libertà deve decidere sempre e di nuovo in ogni suo singolo atto.
Come?
Attraverso la strada, talora impervia, della testimonianza intesa come atteggiamento ad un tempo pratico e speculativo a cui nessuno, tantomeno il cristiano, può sottrarsi. La testimonianza infatti ci costringe ad offrire ai nostri interlocutori di altre religioni tutta la fede cristiana. E ciò è possibile solo nel reciproco coinvolgimento, perché è vano illudersi che all'uomo possa essere risparmiata l'avventura dell'incontro con l'altro, dal momento che ciascuno di noi nasce e cresce in forza di rapporti. Il termine testimonianza, tuttavia, rischia di suscitare immediatamente un'obiezione, o almeno un fraintendimento. Poiché - si dice - la testimonianza comporta una proposta veritativa e questa è generalmente considerata come un ostacolo all'incontro con l'altro, si dovrebbe dedurne che l'una posizione escluda l'altra: o si fa incontro oppure si fa testimonianza. In realtà, la possibilità stessa dell'incontro risiede nell'inesauribile ricerca della verità intesa in modo dinamico, cioè come ininterrotto rapporto dialogico tra incontro stesso e proposta oggettiva di ciò in cui si crede. Per questo è falso dire che la testimonianza culmini nel fondamentalismo. Al contrario, il fondamentalismo, sacrificando la differenza, tradisce la testimonianza, perché spezza il binomio verità-libertà.
La proposta cristiana rispettosa del nesso verità-libertà, dovrebbe essere molto familiare a noi europei. Le radici giudaico-cristiane dell'Europa sono infatti ben significate dall'attuarsi, nella nostra storia, del principio della differenza nell'unità, che trova la sua origine nella stessa realtà trinitaria del Dio cristiano. Questo principio può essere considerato il fondamento teoretico di quella che Rémi Brague ha chiamato la secondarietà romano-cristiana, la capacità cioè di recepire e trasmettere, facendolo evolvere nell'incontro con il nuovo, ciò che, pur essendo ricevuto e non prodotto direttamente, era considerato come primario: la sintesi tra Atene, Gerusalemme ed Alessandria. È in questo senso che l'identità europea si presenta come intrinsecamente dialogica. E questa dimensione del dialogo ci riconduce, in una relazione circolare, a quelle dell'identità e della testimonianza. Infatti il dialogo scaturisce dalla consapevolezza della irriducibile valore dell'altro, come fattore che obiettivamente rivela me a me stesso, indicando al mio desiderio di compimento la strana necessità di un sacrificio benefico. Questo vale per il soggetto personale come per i soggetti comunitari. Se non vuole spegnersi in un monologo sterile, il soggetto è chiamato, per l'impossibilità di tracciare le frontiere del dialogo a priori, a superare il criterio della pura reciprocità per situarsi nel suo concreto autoesporsi. Ma, affinché l'altro non finisca per annullare sia l'io che il tu è necessario il peso costitutivo di un terzo. Proiettandosi nella dimensione del vivere insieme, l'autoesposizione testimoniale esige di essere ordinata dal terzo rappresentato in questo caso dalla politica, dalle istituzioni e dallo stato, ma più in particolare dei corpi intermedi della società, che sono i luoghi in cui il dialogo - e in particolare quello interreligioso o interculturale - hanno o non hanno luogo. Per questo tocca allo stato sinceramente democratico, e perciò capace di valorizzare la presenza dei corpi intermedi, garantire il contesto di ordine, di pace e di benessere necessario perché la logica della testimonianza, e quindi della ricerca della verità nella libertà, possa essere concretamente vissuta.
+ Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia
10 Settembre 2008