Lo studioso egiziano ha consacrato la sua esistenza allo studio del patrimonio arabo-cristiano e al dialogo con l’Islam. In questo discorso a braccio ripercorre i passaggi principali del suo cammino

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:15

L’intervento di p. Samir Khalil Samir, SJ al Simposio “Patrimonio Arabo-Cristiano e dialogo Islamo-Cristiano”, in onore del suo ottantesimo compleanno.

 

 

Sono molto toccato dall’affetto che ho sentito oggi e che mi incoraggia a continuare. Se ripenso alla mia vita, la mia esperienza è costellata di fatti sorprendenti. Sono nato al Cairo, ma da una famiglia del Levante. Mia madre aveva studiato dalle suore francesi dove era vietato parlare arabo; altrimenti c’era la bacchetta, la mentalità era quella! Così a casa parlavamo soltanto francese. Già durante il noviziato dai gesuiti, però, presi l’impegno di leggere il Vangelo in arabo e in seguito, nel giuniorato, continuai a studiare la lingua da autodidatta, perché non ne era previsto l’insegnamento. Per entrare nella cultura e nella mentalità araba, che erano secondarie per la tradizione nella quale ero cresciuto, studiai anche i filosofi arabi, Avicenna e Averroè soprattutto.

 

Nei primi anni di studio, specialmente di filosofia, scoprii però di aver bisogno di imparare bene la lingua tedesca. Così chiesi all’allora padre provinciale, un uomo forte e santo, di poterla approfondire andando per un periodo in Germania, ma lui mi rispose: “Tu sei egiziano, a cosa ti serve il tedesco? È una lingua che serve agli studiosi, serve ai francesi!”. Aggiunsi che mi ero permesso di prendere un manuale Assimil di tedesco dalla biblioteca, per cominciare a imparare qualcosa, ma lui mi fece segno perentorio di rimetterlo a posto. Così, niente tedesco.

 

Dopo alcuni anni, quando il padre provinciale cambiò, tornai a chiedere di poter andare in Germania, perché continuavo ad aver bisogno di leggere in tedesco. «Si cela vous amuse, se Le piace così tanto…». «Cela ne m’amuse pas du tout, non mi piace per niente, ma mi serve». E così sono partito per la Germania. Promisi che il mio viaggio e il soggiorno non sarebbero costati nulla: in Germania ci sarei arrivato in autostop e avrei dato un corso di francese agli studenti gesuiti in cambio di quello di tedesco. Era il 1962.

 

L’inizio di una vocazione

A Monaco, durante il mese di agosto, c’erano le vacanze. Tutti i novizi erano tornati a casa e io non sapevo che fare. Visto che abitavo vicino alla biblioteca, decisi che avrei continuato i miei studi orientali da solo. Anche in biblioteca non c’era nessuno, soltanto un vecchio monaco benedettino che, incuriosito, mi chiese cosa stessi facendo. Risposi che stavo lavorando su al-Ghazali, grande pensatore e teologo musulmano, ma, vedendo che portavo la tonaca – eravamo prima del Concilio – mi chiese perché non approfondivo il cristianesimo arabo. «Lei è gesuita ed è arabo!». «Ma i cristiani arabi hanno scritto qualcosa?» Il monaco non rispose nulla, sparì dietro qualche scaffale e si ripresentò poco dopo con cinque grossi volumi: le 2400 pagine della Geschichte der Christlichen Arabischen Literatur, Storia della Letteratura arabo-cristiana, di Georg Graf. Mi misi a leggerla. Avevo appena imparato qualche parola di tedesco, ma la bibliografia dei volumi riportava i titoli anche in arabo traslitterato: al-jawhara an-nafīsa fī ‘ulūm al-Kanīsa… Questa è stata la mia conversione, l’inizio della mia vita scientifica.

 

Dopo qualche giorno mi sono detto: «Ma io devo assolutamente conoscere Georg Graf». Nessuno aveva notizie precise, così mi consigliarono di andare a incontrare il suo successore sulla cattedra a Monaco, Julius Aßfalg. Cercai il nome sull’elenco del telefono e mi presentai alla sua porta. Mi aprì un signore in pantaloncini corti di cuoio, come usavano i bavaresi, con i suoi bambini. «Mi può aiutare a conoscere Georg Graf?» «Lei arriva troppo tardi, è morto sette anni fa. Ma vada a Parigi, i gesuiti stanno cercando qualcuno che finisca l’edizione critica di al-jawhara al-nafīsa per la Patrologia Orientalis». E così mi sono messo al lavoro, anche se poi l’edizione non l’ho pubblicata perché è stata distrutta in un incendio al Cairo.

 

Per essere un orientalista avevo bisogno comunque di un buon tedesco e dovevo finire il mio dottorato in islamologia a Aix-en-Provence. Una volta conseguito il dottorato e terminato il corso di lingua sono tornato al Cairo, dove pensavo che avrei finalmente potuto dedicarmi allo studio. Ma il mio superiore aveva altri piani per me e pensò che mi avrebbe fatto bene passare un po’ di tempo al seminario copto cattolico. Sul momento la proposta non mi fece molto piacere, anche perché di copti non sapevo molto (la mia famiglia non era di rito copto), ma, contrariamente a quanto mi aspettavo, i due anni passati al seminario furono un’altra benedizione. Oltre a consolidare l’uso dell’arabo, ho avuto l’opportunità di conoscere meglio i copti, la cultura araba ed egiziana e, in particolare, il loro forte senso di appartenenza al Paese. Ho scoperto che noi egiziani abbiamo una tradizione diversa da quella che mi aveva trasmesso la mia famiglia. Ogni passo, perciò, mi confermava sul fatto che era un bene abbracciare in un unico sguardo tutte le culture sviluppatesi in Egitto (cristiani copti, sia ortodossi che cattolici, e musulmani) basandosi sulla comune tradizione araba.

 

Un’esigenza critica assoluta

Così ho cominciato la mia vita di studio e mi ci sono dedicato con tutte le mie forze. Quando poi ho iniziato a insegnare, mi sono accorto che c’era un grande bisogno di conoscenza di questi temi da parte del mondo accademico e che i miei sforzi ricevevano sempre una risposta.

 

Nei molti anni trascorsi a Beirut ho imparato tanto dai cristiani libanesi, più avanti nello studio del patrimonio arabo-cristiano e della lingua araba rispetto a noi egiziani. La scarsa conoscenza dell’arabo e i molti errori che venivano commessi nelle edizioni mi hanno rivelato un’esigenza critica assoluta, che ho cercato di mantenere viva nel mio lavoro e di trasmettere ai miei studenti. Da questa esigenza è nato un lavoro di archivio, correzione e riscrittura di molti testi. Ringrazio Dio di aver sempre trovato persone generose, disponibili a finanziare i miei studi, fino al punto di poter raccogliere una biblioteca come quella del CEDRAC, che oggi conta circa trentacinquemila volumi. In tanti hanno aiutato e contribuito a questo lavoro, ognuno come ha potuto, e mi hanno sostenuto nel proseguire. Ho insegnato in numerose università, qui al Pontificio Istituto Orientale per quarant’anni, in Libano all’Université Saint-Joseph, in Francia e in Italia (la Cattolica di Milano, Napoli e Bari). Viaggiando ho scoperto il mondo e mi sono sforzato di migliorare il mio arabo fino a poter essere rigoroso. Desideravo trasmettere ai miei studenti questa esigenza scientifica e la necessità di una chiarezza di pensiero.

 

Il rapporto con l’Islam

Nel frattempo, sono nati anche tanti rapporti con i musulmani. Ho frequentato per anni i villaggi dell’Alto Egitto, dove la gente conosce soltanto l’arabo dialettale, coinvolgendomi in alcuni progetti contro l’analfabetismo. Ho sentito che ero chiamato a una missione e mi è nato il desiderio di mostrare la bellezza degli studi che stavo compiendo. Con l’aiuto del Vescovo di Minya, della sua rivista Risālat al-Kanīsa e del seminario copto-cattolico, ho pubblicato un centinaio di articoli che hanno avuto un certo successo. Mi hanno detto che ora alcuni copti ortodossi li stanno raccogliendo per farne una collana.

 

Ma è stato a causa dell’Islam che sono entrato nell’attualità. I moltissimi articoli che ho scritto partono tutti dalla stessa domanda: come posso parlare dell’Islam senza attaccarlo, senza aggredire? In ogni mio pezzo, incontro o conferenza ho sempre ripetuto che i musulmani sono i nostri fratelli in nome del Vangelo. Ma oggi stanno cercando di tornare a ciò che si faceva nel settimo secolo, dimenticando quanto è accaduto negli ultimi quattordici. Non manco di essere critico verso il Corano quando è necessario, perché ci sono versetti inammissibili per un cristiano. Ma non dobbiamo mai dimenticare che questi testi sono stati scritti in una certa epoca, con una certa mentalità. Come possiamo leggerli oggi? Come nel Corano, anche nell’Antico Testamento ci sono versetti oggi inaccettabili, ma per fortuna noi abbiamo il Vangelo e il suo messaggio è da trasmettere: non posso tornare indietro dall’ideale di Gesù.

 

Ho tanti amici musulmani e cristiani, anche tra i miei studenti, con i quali cerchiamo di costruire un mondo più umano, più divino, più evangelico. Ringrazio Dio di poter vivere in pace e non ho paura, perché non ho mai detto una parola contro l’Islam, soltanto contro le cattive interpretazioni. Il mio ultimo messaggio è questo: costruiamo una società della pace, dell’amore, dell’affetto. E i musulmani lo percepiscono, quando non sono fanatizzati da qualcuno. Mano nella mano andiamo avanti insieme. Mi sono occupato anche di ecumenismo: penso che dobbiamo analizzare i testi senza soffermarci troppo sui problemi terminologici e sulle differenze. In tutte le famiglie ci sono problemi da affrontare, ma la fede è una sola, è il Vangelo, e uno solo lo scopo: l’amore per tutti e dare la vita per tutti.

 

Oggi sono commosso nel vedervi radunati qui, ma in realtà non ho dato niente di particolare. Come mi ha insegnato il mio severissimo padre maestro dal primo giorno in avanti, e come continuano a insegnarmi oggi, così anch’io trasmetto: c’è una sola linea, vivere e praticare il Vangelo, chiedendo con umiltà aiuto al Signore. Io non merito nulla, l’unico che merita è Colui che mi ha insegnato.

 

Testo non rivisto dall’autore

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