Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:13

Nel mondo attuale, urbanizzato, sovrappopolato e globalizzato, è ancora più probabile che le comunità religiose si ritrovino faccia a faccia. Ci sono ancora villaggi separati buddisti e hindù in Sri Lanka, e villaggi cristiani e musulmani in Nigeria, ma in contesti urbani è più facile che queste religioni s’incontrino. Qui a New York l’incontro sarà con hindù, ebrei e sikh, come anche con correligionari da più di cento paesi. Un incontro religioso effettivo è per molti fonte di inquietudine. I liberali vedono la religione conservatrice come inutilmente suscettibile e causa di problemi quando deve confrontarsi con il diverso. I conservatori temono che il contatto costante con la differenza conduca a perdere la particolarità. La paura di conversioni, sincretismo e liberalizzazione è vecchia quanto la differenza religiosa. Ma oggi dobbiamo riflettere più attentamente su quel che accade realmente sul terreno. Quando le comunità religiose si incontrano, le cose non sono semplici. A volte l’incontro acuisce il senso di differenza e estraneità. A volte invece esso porta benefici all’interazione tra fedi e a entrambe le comunità, dal loro punto di vista. Un esempio in questo senso è offerto da un prete etiope ortodosso, Padre Tibebu. Tibebu ha preso in affitto una piccola cappella in una chiesa cattolica a Manhattan, nella zona di Midtown. «Non abbiamo preso in affitto nemmeno una chiesa, solo un seminterrato», racconta. «Siamo in esilio, siamo poveri. Facciamo una nuova esperienza»... Tibebu partecipa anche al lavoro interreligioso attraverso lo Interfaith Center di New York. Qui si trova spesso in mezzo a buddisti, hindù e musulmani. Ma ritiene che tutto ciò lo incoraggi a chiarire chi è nella sfera pubblica, dove anche gli altri devono essere diversi. «Abbiamo una comprensione di Dio differente. E va bene. So chi sono, e so che anche i fratelli sono diversi uno dall’altro». Nel caso dei sociologi urbani che suppongono che la creazione di sottogruppi conduca a una visione negativa degli altri, di nuovo il quadro è troppo semplice. Con lo Interfaith Center i gruppi religiosi interagiscono positivamente in un modo che approfondisce la loro identità e contemporaneamente chiarifica la loro differenza rispetto agli altri attori del dialogo e ne migliora le relazioni reciproche. A New York, durante il Ramadan, alcuni gruppi musulmani in città invitano non-musulmani a rompere insieme il digiuno. Gli ospiti sono buddisti, ebrei, hindù e cristiani, tra impiegati statali laici. In casi di questo tipo, i musulmani agiscono oltre la differenza religiosa proprio per il fatto di essere diversi. Si presentano come cittadini che sono diversi e che lo rimarranno, ma costruiscono rapporti positivi attraverso un pasto o una conversazione. Di fatto i leader religiosi con cui lavoriamo allo Interfaith Center riferiscono nella grande maggioranza dei casi che gli incontri interreligiosi approfondiscono la loro fede e danno loro nuovo slancio, mentre nello stesso tempo aprono importanti prospettive sulla religione dei loro vicini e aiutano a trovare punti di consonanza con le loro tradizioni morali e sociali. Nel frattempo, persone di diversa religione spesso lavorano bene insieme, qui a New York e in altri luoghi. Possono essere liberali o conservatori in politica e teologia. Possono credere in un Dio, in molti dei, in nessuno. Entrano in relazione per motivi importanti e per una vicinanza molto stretta. I loro rapporti di fatto li mantengono diversi. Imparano uno dall’altro a lavorare insieme e spesso fanno amicizia. Non è né quella religiosità polarizzata né quella pace armonizzata che ci si potrebbe immaginare. Certe volte i rapporti sono impacciati. Raramente lisci, a volte traballanti, mai noiosi. Questo è quel che succede quando delle comunità religiose decidono di condividere una città. Malgrado tutto, ci sono forse motivi per sperare. Matthew Weiner è direttore del programma allo Interfaith Center di New York e candidato al dottorato allo Union Theological Seminary.