Imposta dal potere coloniale, la secolarizzazione nel Maghreb ha offerto strumenti ai nazionalisti per la conquista dell'indipendenza, ottenuta anche grazie alla mobilitazione delle moschee e all'impiego della religione a scopi politici. Intervista a Hassan Rachik.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:17

La secolarizzazione è, a suo parere, un processo nato nella società “occidentale” cristiana e solo in un secondo momento esportato nel mondo musulmano, oppure, al contrario, se ne può ritrovare un’origine propriamente “orientale”, musulmana? Parlando del Maghreb possiamo dire che la secolarizzazione è stato un processo imposto dal potere coloniale. Certo, nelle società tradizionali precoloniali vi erano già degli spazi non totalmente sottomessi alla religione, o pensatori politici che teorizzavano una distinzione tra politica e religione, ma parlare di secolarizzazione in questo caso significherebbe fare una forzatura. Il potere coloniale ha portato con sé un’amministrazione, un diritto, un insegnamento e una giustizia secolari. Attraverso un sistema educativo secolarizzato, i giovani intellettuali maghrebini scoprirono allora un mondo secolare. Una parola in arabo riassume bene il processo di secolarizzazione tra gli intellettuali: mutâla‘a, che significa leggere, informarsi e avere una cultura generale, che può attingere dalla poesia, dalla storia, dal teatro, dal giornalismo, etc. e non più solo dall’insegnamento religioso. L’ideologia nazionalista supportò per la prima volta la secolarizzazione, senza dirlo esplicitamente, ma utilizzando dei concetti e delle nozioni secolari come: le masse, jamâhîr, il popolo, sha‘b, o la nazione, umma, un termine qui utilizzato senza fondamento religioso, ma con un contenuto politico. La religione e le moschee furono allora mobilitate, ma vi era spazio comunque per un pensiero secolare. Per esempio, furono inventate feste secolari, come la “festa del trono”, oppure i nazionalisti chiedevano di digiunare come segno di protesta. Atti politici che utilizzavano una simbologia religiosa. La religione era impiegata per fini politici. Tuttavia, è importante sottolineare che i nazionalisti utilizzavano la religione in un’accezione secolarizzata, ma senza sostenere esplicitamente il processo di secolarizzazione, senza teorizzarlo, senza che vi fosse alcun dibattito attorno a tale concetto. Secondo lei la modernizzazione porta necessariamente con sé la secolarizzazione? A mio parere tra la teoria del « disincanto » del mondo e quella del « ritorno » di un certo tipo di religiosità, la tendenza è piuttosto quella della “pluralizzazione della società” sia in Europa che nei paesi musulmani. Nelle “società tradizionali”, intendendo con queste quelle società in cui lo spazio politico è chiuso, nelle quali è imposta un’unica tradizione, un unico sistema di valori religiosi, è impossibile che possano convivere visioni differenti. Attraverso l’urbanizzazione e la generalizzazione dell’insegnamento siamo tutti oggi obbligati a vivere con dei giovani che non pensano come noi. Le società musulmane oggi sono strutturalmente e non ideologicamente obbligate ad accettare il pluralismo, ad accettare cioè che vi siano differenti sensibilità: secolarizzate, socialiste, islamiste, moderniste, conservatrici, etc. In una società pluralista alcuni sono per il disincanto, altri sono contro, ma non può esserci solo una visione, un’ideologia, sennò si è in presenza di in un potere autoritario che soffoca la dinamica della società. In alcuni paesi musulmani il potere è autoritario e decide cosa si può e cosa non si può fare, come ad esempio obbligare a portare il velo oppure imporre alle donne di non indossarlo. Nella maggioranza dei paesi musulmani però la dinamica della società civile e di quella politica porta verso questa pluralizzazione. Secondo alcuni studiosi l’islamismo è una reazione al processo di secolarizzazione, mentre secondo altri ne è piuttosto il prodotto, in quanto traduce in termini religiosi numerosi concetti occidentali che sono in un certo senso il risultato della secolarizzazione. In che misura pensa che l’islam politico si fondi su categorie religiose classiche e tradizionali e quanto invece utilizzi le categorie politiche occidentali rivestendole con un abito religioso? A grandi linee si può intendere l’islamismo come quel processo di apparizione di intellettuali e attivisti che mobilitano la religione per motivi politici e ideologici. Possiamo individuare tre fasi. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Mohammed Abduh e Jamal al-Din al-Afghani appartenevano a una generazione di ulama, convertitisi in ideologi: non più solo teologi, ma intellettuali che pensavano la società, la politica, e che prendevano posizioni rispetto a questioni politiche. Il salafita aveva una visione non solo religiosa, ma fondata sulla ragione, sulla storia, sulla filosofia più che sui versetti coranici. Il secondo momento è stato l’affermazione, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, di alcune persone che non avevano seguito un percorso teologico classico (fin da bambini), ma che avevano avuto un’istruzione secolare (come insegnanti, medici, etc.) e che solo successivamente si erano interessati alla religione: personaggi come Hassan al-Banna e Sayyd Qutb non erano degli ulama. La terza fase è quella degli ultimi anni in cui con la generalizzazione dell’alfabetizzazione e dei mass-media c’è una nuova generazione che si occupa di religione senza esserne specialista. Questi islamisti non hanno seguito un percorso di studio dei testi religiosi, ma hanno seguito altre formazioni prima di interessarsi alla religione. Questa posizione inedita incoraggia il bricolage, ovvero l’utilizzo solo di alcune parti dei testi sacri per dare fondamento alle proprie tesi politiche. Il discorso degli islamisti di Nahda o del PJD è molto più secolarizzato e politico, piuttosto che religioso. E infine i jihadisti di Daesh (ISIS): una generazione virtuale e che è molto difficile da comparare con gli islamisti di cui ho parlato. Si tratta di giovanissimi che combattono, avendo una conoscenza molto ridotta dei testi sacri, senza avere un background religioso, neppure bricolé. L’elemento comunitario è ancora fondamentale nella religione musulmana oggi? Si riscontra una difficoltà nella trasmissione dei valori religiosi tra le generazioni, simile a quella che investe le società occidentali? La dimensione comunitaria e quella individuale non sono in contraddizione. L’aspetto comunitario esiste, ma comunque le persone possono e spesso preferiscono avere un rapporto privato con la religione. Tutto dipende dalla concezione della comunità: se questa è totalitaria e, per esempio, impone a tutte le donne di portare il velo, allora l’individualità è soffocata, se invece la comunità è “a maglie larghe” allora è possibile un rapporto individuale nei confronti delle pratiche religiose. Per quanto concerne la trasmissione dei valori io penso non ci sia una crisi, ma che anzi il fatto che in una società pluralista si possano trovare differenti modelli, in contraddizione o meno con quelli dei propri genitori, penso che questo sia una fortuna. Un tempo c’era solo il modello delle società tradizionali, oggi si hanno più possibilità di scelta e questo vale anche nel caso dell’islamismo che può essere radicale, ma anche assolutamente conviviale.