Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:41
Nel presentare il nuovo numero di Oasis il primo elemento che vorrei sottolineare è il fatto che questa rivista sia pubblicata anche in arabo. Questa scelta è molto importante perché aiuta a cambiare l’immagine, diffusa nel mondo islamico, di un Occidente immorale e irreligioso. Per decine di anni, infatti, le dittature nei paesi arabi hanno presentato la democrazia e la libertà come necessariamente connesse a una vita immorale. «Volete la libertà? Allora sappiate che vi toccherà anche la decadenza morale». Oasis aiuta il pubblico arabo a capire che gli occidentali possono essere liberi e allo stesso tempo mantenere la propria tradizione, musulmana o cristiana che sia. Inoltre tanti arabi, soprattutto negli ambiti religiosi, non leggono in altre lingue e il fatto che la rivista sia tradotta agevola la conoscenza del pensiero occidentale.
Questo per quanto riguarda il mondo arabo.
Ma Oasis è importante anche per l’Occidente. La cosa per me più significativa nella rivista è la presenza di autori arabi che presentano il loro punto di vista sugli avvenimenti nei loro paesi. Chi legge trova quindi non un’opinione sul mondo arabo, ma un’opinione che viene
dal mondo arabo. Come stile, Oasis si pone a cavallo tra due livelli: quello scientifico-accademico, spesso troppo alto e complicato, e quello giornalistico, non di rado superficiale e che a volte descrive le circostanze senza capirne davvero la loro origine.
Tema della rivista è il dialogo, ma premetto subito che personalmente mi considero un nemico del dialogo. Mi spiego bene: secondo me le religioni non dialogano, sono le persone a dialogare. Il vero dialogo non è fra i leader religiosi, ma tra la gente. È davvero triste se i leaders religiosi si devono incontrare per dichiarare che abbiamo bisogno di tolleranza tra i diversi. Questo dovrebbe essere già ovvio. E sulle questioni teologiche occorre riconoscere che non tutte le divergenze sono sanabili. Per me dunque l’incontro avviene a livello di persone e ogni numero di Oasis presenta una sfida umana per ciascuno. Il risultato è una narrazione unica attraverso molte voci. Se viviamo le stesse sfide e la stessa esperienza, possiamo capirci, anche attraverso voci diverse.
Il numero 19 parla in modo specifico del tentativo di riformare le istituzioni. La mia esperienza al riguardo è relativa all’Egitto. In piazza Tahrir ho visto come i corpi dei musulmani possono diventare una chiesa, e come i corpi dei cristiani possono diventare una moschea. Durante la rivoluzione c’era bisogno di pregare e così i cristiani hanno formato una catena umana per creare uno spazio di preghiera come se fosse una chiesa: un musulmano ha preso una croce, è stato costruito un altare… Una chiesa fatta di carne. Lo stesso hanno fatto i cristiani.
La rivoluzione oggi sembra fallita perché quelli che l’hanno fatta, sotto lo slogan di
libertà, giustizia sociale e pane, non hanno visto finora esaudite le loro richieste. L’
articolo di Georges Fahmy lo spiega bene. Ma su un punto non sono d’accordo con Fahmy. Non bisogna dimenticare che dopo la rivoluzione i rivoluzionari hanno formato un partito (Dustur) di 300 mila giovani, per la maggior parte musulmani maschi, che certamente per il momento è lontano dal potere. Bene, questi giovani, per la prima volta nella storia dell’Egitto, hanno scelto una donna cristiana come presidente del Partito. È una rivoluzione. Il vero cambiamento non è un cambiamento del potere, ma delle persone. Il cambiamento del 2011 non è la fine, ma l’inizio di un processo in cui tante persone avviano un cammino di valori umani sulla base di un’esperienza.
Quando è caduto Morsi e sono iniziati gli attacchi contro i cristiani, i musulmani hanno aperto le loro case e li hanno protetti dagli estremisti. L’esperienza di questi giovani non è morta, è ancora viva.
La sfida di Oasis è anche per l’Europa. Nelle capitali europee c’è una società parallela: quella degli immigrati, che spesso non ha rapporto con la società locale. In queste società ci sono grandi contraddizioni culturali. I postmodernisti pensano di aver liberato l’umanità dalla prigione di dualismi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro. In realtà essi sono soltanto passati dalla contrapposizione tra le componenti di questi dualismi alla loro equivalenza, con la conseguente incapacità di formulare alcun giudizio che ha alla fine condotto alla interruzione di qualsiasi legame con la realtà e alla creazione di uno stereotipo dell’identità collettiva e individuale. Il postmodernismo ha lottato contro l’esclusione dell’altro e del diverso, tuttavia non ha trovato via migliore per farlo che attraverso l’esclusione della differenza stessa. Per esempio, possiamo osservare che la Francia, una delle più antiche democrazie occidentali, oltre che una delle più ricche in materia di diritti, con l’entrata in vigore della cosiddetta legge anti-velo nel 2011, ha criminalizzato l’esposizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. In tal modo la Francia è divenuta uno stato nel quale la costituzione tutela la differenza e il pluralismo religioso, mentre le sue leggi ne criminalizzano le varie espressioni. Tutto ciò ha causato la fine di qualsiasi senso della storia e così che l’intero sistema sociale contemporaneo ha cominciato a perdere la capacità di custodire il passato e a vivere un eterno presente, in uno stato di trasformazione perenne che cancella quel retaggio storico che tutte le entità sociali precedenti erano tenute in un modo o nell’altro a salvaguardare.
Questa è la sfida comune che ci sta davanti e da cui possiamo trarre il significato della nostra vita. Possiamo trovare questo significato nelle cose più semplici che facciamo ogni giorno e anche nelle cose più complicate, nei drammi che viviamo, come il dramma iracheno. Tutti guardano a quello che sta succedendo in Iraq come a un delitto, ed è vero. Tutti pensano che i protagonisti di quegli avvenimenti siano criminali terroristi, ed è giusto. Ma c’è una cosa più grande di questa. Sono i perseguitati in Iraq. Avrebbero potuto risparmiarsi tutto questo dolore pronunciando poche parole e rinunciando alla loro fede. Ma non lo hanno fatto. Erano di fronte a una scelta: lascia la casa o rinuncia alla fede. Hanno scelto la fede. Così, in questo tempo di dubbio e nichilismo, centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato tutto per conservare la propria fede, testimoniando che non tutto è uguale, che esiste qualcosa di molto importante per vivere, che non è materiale. Per esso sono disposti a fare sacrifici. È un messaggio molto importante per tutti noi.
Come dice Mauro Magatti
nell’editoriale di questo numero, non c’è forma che possa racchiudere la vita perché la vita è più grande di tutte le forme. Non c’è un valore umano, coscienza umana più grande della persona. Come persone siamo capaci di produrre un significato. È la forza della ri-generazione, ed è per l’eternità.
*Trascrizione dell’intervento a Rimini del 27 agosto 2014, non rivista dall’autore.