Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:40:26

In generale, anche questa settimana sui quotidiani filo-palestinesi sono continuati gli attacchi all’Occidente, accusato di doppio standard (la vita degli israeliani vale più di quella dei palestinesi) e di adottare sempre e comunque l’interpretazione dei fatti israeliana. Un altro tema abbastanza ricorrente è stata la disaffezione araba per la causa palestinese, a cui corrisponde il ruolo crescente giocato da alcuni Paesi non arabi nella difesa della Palestina. Il tema è stato sollevato su al-‘Arabi al-Jadid dal giornalista egiziano Wael Qandil, che ha scritto: «Confrontate le dichiarazioni ufficiali arabe con quelle della loro controparte russa, turca e iraniana in merito alla loro visione della Resistenza palestinese e alla loro posizione al riguardo, e scoprirete che gli approcci non arabi al principio del diritto palestinese alla resistenza sono più arabi degli approcci arabi». Un gioco di parole per dire che una questione che dovrebbe interessare primariamente gli arabi ha finito per appassionare e coinvolgere maggiormente Paesi che per cultura e storia sono più distanti dalla causa, come appunto l’Iran, la Turchia, la Russia, ma anche alcuni Paesi dell’America Latina, che nei giorni scorsi hanno rotto le loro relazioni con Israele.    

 

Un discorso simile nei contenuti, ma dai toni molto più militanti e aggressivi, si ritrova anche su al-Akhbar. Il quotidiano libanese filo-Hezbollah ha posto l’accento sull’indifferenza dei regimi arabi, che «guardano in silenzio il genocidio occidentale in atto a Gaza», e sull’irrilevanza e l’impotenza dei manifestanti arabi, che con le proteste pacifiche non ottengono risultati. L’invito rivolto alle «élite patriottiche e nazionaliste» è quello di «iniziare a sviluppare dei programmi rivoluzionari» perché, «se le piazze vogliono giocare un ruolo nella formulazione delle politiche e nella definizione degli orientamenti devono rompere con le forme di opposizione e i metodi di protesta tradizionali, soprattutto dopo che questi si sono dimostrati inutili». Il dovere minimo delle piazze, conclude l’articolo, è «arrecare un danno agli interessi e se questo non è possibile devono quanto meno istillare lo sgomento nelle anime dei governanti e, attraverso di loro, nelle anime dei loro protettori occidentali criminali».

 

Su al-Quds al-‘Arabi, il politico arabo-israeliano Jamal Zahalka ha scritto che il progetto sionista è per definizione violento e non può realizzarsi attraverso mezzi pacifici. Va da sé che «chi vuole sottrarre alle persone la terra e la patria deve ricorrere alla violenza e alla brutalità, così come il proprietario della terra e della patria non le cederà senza opporre resistenza, né le consegnerà volontariamente al colonizzatore, né accoglierà con i fiori chi desidera stappargli la terra e il paese». Nel progetto sionista, commenta Zahalka, la violenza è una componente centrale e necessaria perché «senza di essa non c’è spazio per le altre quattro componenti: l’immigrazione, l’insediamento, la lingua ebraica e il collegamento con una grande potenza imperiale».

 

Al-Jazeera ha intervistato Moncef Marzouki, militante per i diritti umani ed ex presidente della Tunisia in carica tra il 2011 e il 2014. Invitato a commentare i crimini commessi a Gaza da Israele, Marzouki ha definito l’azione israeliana un «progetto genocida» e ha denunciato contestualmente l’incapacità delle istituzioni internazionali di porvi un limite. Dopo la Seconda guerra mondiale «l’umanità ha intrapreso un processo senza precedenti nella sua storia, cioè la costruzione di un mondo sicuro per tutti, governato da valori, leggi e istituzioni comuni». Da qualche anno a questa parte, però, queste istituzioni non riescono più a rispondere in maniera adeguata alle sfide in atto e necessitano «di una revisione radicale». Il giornalista di al-Jazeera chiede poi a Marzouki di commentare l’atteggiamento della comunità internazionale, che «condanna pubblicamente la vittima e sostiene il criminale». Equilibrata la risposta di Marzouki, che mette in guardia dal fare di tutta l’erba un fascio, preferendo concentrarsi «sul bicchiere mezzo pieno», cioè sulle tante manifestazioni di solidarietà per i palestinesi che sono state organizzate in diversi Paesi dell’Occidente e che hanno visto la partecipazione di migliaia di cristiani ed ebrei. L’unico aspetto positivo di questa tragedia, dichiara Marzouki, è il fallimento del tentativo di derubricare la questione palestinese a un retaggio del passato. Essa, commenta l’ex presidente tunisino, «è tornata a essere e rimarrà la questione centrale nella regione e una questione dalla cui soluzione dipenderà la pace nel mondo». Il progetto sionista, costruito sull’idea di dare agli ebrei una patria sicura, spiega ancora Marzouki, è fallito: «Oggi non esiste luogo meno sicuro per gli ebrei di Israele […]; e i crimini che l’occupazione sta commettendo a Gaza alimentano l’antisemitismo nel mondo».

 

Un altro tema che ha riscosso una certa attenzione è il discorso di Hasan Nasrallah, pronunciato oggi pomeriggio a Beirut. Nel corso della settimana diversi quotidiani hanno tentato di fare una previsione sulle possibili parole del leader di Hezbollah.

 

Uno degli articoli più interessanti al riguardo è l’analisi fatta da un politologo e professore dell’Università nazionale Sun Yat-Sen in Cina, Shaher al-Shaher, pubblicata sul sito panarabo ma filo-iraniano al-Mayadeen. Il discorso di Narsrallah, chiede l’editorialista, risponderà alla domanda «se la battaglia attualmente in corso è la grande battaglia che sancirà la fine di Israele, la vittoria dell’asse della Resistenza e la restituzione della Palestina al suo popolo, o se invece è soltanto una battaglia importante e una pietra miliare nella storia del conflitto israelo-palestinese». Ciò che è certo è che questa volta per Nasrallah non si tratterà di stabilire delle linee rosse, visto che queste sono già state tutte ampiamente superate negli eventi in corso a Gaza. Piuttosto, l’assenza di Hezbollah dalla scena del conflitto, scrive al-Shaher, «esprime sviluppi importanti nella visione del Partito di Dio e il suo spostamento verso il soft-power». L’editorialista spiega che la ragione per cui Hezbollah finora non è entrato in guerra è che «è un partito libanese e il suo Segretario generale agisce innanzitutto nell’interesse del suo Paese, e poi [nell’interesse] della causa in cui crediamo tutti, cioè la causa palestinese». Nasrallah non vuole prestare il fianco alle critiche dei suoi detrattori, soprattutto agli altri partiti libanesi, che lo accuserebbero seduta stante di aver «trascinato il Libano in una battaglia che non è la sua battaglia, ma che è funzionale alle agende dei Paesi della regione». L’assenza di un coinvolgimento diretto di Hezbollah nel conflitto, tuttavia, non significa un disinteresse del partito per la causa, scrive il politologo. Le arene della Resistenza infatti sono unite, ma questa «unità non significa che tutti i fronti s’infiammano all’infiammarsi di uno di essi, ma significa certamente che non è lecito sconfiggere una delle parti dell’asse della Resistenza. Ciò che accade oggi perciò non può culminare con la sconfitta o lo sradicamento di Hamas, come propone Netanyahu o come vogliono gli Stati Uniti».

 

Il quotidiano libanese filo-Hezbollah al-Akhbar è apparso abbastanza defilato sul tema e ha evitato di lanciarsi in previsioni. Al-Quds al-‘Arabi ha invece pubblicato diversi articoli sulla questione. Uno di questi si è soffermato su ciò che Hamas si aspetta dal discorso di Nasrallah. La risposta è: molto poco. Con la differenza (non sostanziale) che l’ufficio politico di Hamas all’estero è convinto che «il Partito [di Dio] ha rinunciato alla Resistenza a Gaza e non prenderà parte in maniera massiccia alla scontro», mentre la leadership interna di Hamas, sebbene nutra aspettative basse di un coinvolgimento attivo di Hezbollah nel conflitto, ha scommesso sul fatto che Nasrallah non avrebbe annunciato apertamente la non partecipazione del suo partito alla guerra. Il discorso di Nasrallah ha effettivamente confermato le previsioni.

 

Uno o due Stati? Non importa, basta che si fermi la guerra [a cura di Mauro Primavera]

 

La stampa filo-emiratina mantiene invariata la sua linea editoriale nei confronti del conflitto israelo-palestinese. Come di consueto, legge la crisi attraverso due lenti. Quella nazionalista è volta a lodare l’iniziativa umanitaria di Abu Dhabi: «non illuderemo i palestinesi né adotteremo posizioni irrazionali e affrettate, ma saremo sinceri con loro nelle parole e nei fatti, offrendo sostegno umanitario e una solidarietà con la loro causa decisa e priva di ambiguità, finché non otterranno i loro legittimi diritti e il loro Stato con i confini del 1967», scrive la giornalista emiratina Mounia Bousmara su al-‘Ayn al-Ikhbariyya. Il marcato anti-islamismo degli Emirati, invece, è pronto a denunciare la pericolosità della Fratellanza Musulmana, i cui membri vengono definiti con disprezzo da al-Ittihad «mercanti di crisi».

 

Anche il quotidiano panarabo saudita al-Sharq al-Awsat si concentra, con un chiaro intento polemico, sulle possibili soluzioni politiche del conflitto. Parlando della soluzione a due Stati, Faysal al-Shabuli, ex ministro dell’informazione giordano, si mostra assai critico – e infatti il titolo del suo pezzo è: «ma quali due Stati?» – e denuncia il periodico uso strumentale che Washington ha fatto di questa proposta: «da tre decenni, ogni volta che scoppia una guerra nella regione, gli Stati Uniti tirano fuori dal cassetto il dossier dei “due Stati”, almeno fino a quando non si concorda una tregua e cade la polvere; a quel punto la proposta viene richiusa nel cassetto». Per l’autore si tratta quindi di una soluzione di comodo, il cui scopo è quello di sostenere Israele senza se e senza ma, illudendo al contempo la piazza araba. L’ex direttore del quotidiano egiziano al-Wafd, Sulayman Jawda, discute invece la fattibilità di una soluzione a uno Stato, riprendendo una vecchia idea del leader libico Gheddafi – che aveva persino proposto il nome “Isratina”, crasi di Israele e Palestina – e le affermazioni di Abdelilah Benkirane, primo ministro del Marocco dal 2011 al 2017 e membro di spicco del partito islamista Giustizia e Sviluppo. Jawda si chiede: «e se la soluzione a uno Stato fosse più percorribile di quella a due? Un’altra domanda: se la soluzione a due Stati è in vigore dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, non è che il passare del tempo ha intaccato la sua praticabilità?». La risposta, tagliente, riecheggia il motto del leader cinese Deng Xiaoping: «non importa di che colore sia il gatto, l'importante è che acchiappi i topi». Tradotto: non importa se uno o due Stati, ciò che conta è porre fine alle violenze.

 

Al-‘Arab mette in risalto le contraddizioni interne all’“Asse della Resistenza” e nella prima pagina dell’edizione del 31 ottobre titola: «brutto colpo all’interno di Hamas per il venir meno dell’appoggio di Hezbollah e dell’Iran». L’incontro a tre non sarebbe riuscito ad appianare le divergenze tra le parti: «è evidente che i leader di Hamas si aspettavano, nelle ultime tre settimane, che Hezbollah partecipasse agli scontri con Israele in modo da allentare la pressione sul suo alleato, ma il “Partito di Dio” si è attenuto a un metodo preciso basato sulla conferma della sua posizione di fronte al conflitto e sull’esonero da [qualsiasi] responsabilità […] i loro interessi divergono: Hezbollah ha un’agenda più legata all’Iran […] e non sembra che desideri entrare in alcun modo negli eventi dell’attuale escalation. Al contrario, Hamas ha condotto la dura operazione militare senza considerare i suoi effetti e ripercussioni sulla Striscia».        

 

La Turchia celebra il suo centenario fuori dai riflettori [a cura di Mauro Primavera]

 

Doveva essere l’occasione per dimostrare al mondo arabo che la Turchia, dopo cento anni dal crollo dell’Impero ottomano e dalla proclamazione della repubblica, è ancora influente nella regione mediorientale grazie al “progetto imperiale” promosso dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. E invece la notizia nella stampa araba è passata quasi inosservata, comprensibilmente offuscata dai tragici avvenimenti della Striscia di Gaza. Sorprende tuttavia che giornali come al-‘Arabi al-Jadid, noti per costituire la grancassa araba di Erdoğan, non abbiano commentato il centenario, ad eccezione di un modesto articolo che descrive per sommi capi la visione del reis. Al Jazeera ha concesso a Fahrettin Altun, responsabile dell’ufficio stampa della presidenza turca, di scrivere un editoriale sul centenario dal titolo: “dall’indipendenza al futuro: il secolo della Turchia”, giocando sull’assonanza delle parole “istiqlal” (indipendenza) e “mustaqbal” (futuro).

 

Più incisivi gli sparuti commenti della stampa filo-emiratina. Al-‘Arab titola a chiare lettere: “Erdoğan è l’eroe del giorno sulle rovine dell’eredità di Atatürk” e aggiunge che le celebrazioni sono state oscurate non tanto dalla guerra in sé, quanto dalle minacciose dichiarazioni di Erdoğan contro Israele e l’Occidente. Un atteggiamento che da una parte lo ha reso l’«eroe del giorno», ma allo stesso tempo «distrugge l’eredità laica di Atatürk». Ciononostante, il giornale panarabo dà spazio ad analisti che ridimensionano il fenomeno Erdoğan, spiegando come in realtà, l’eredità del “padre della patria” sia ancora in gran parte intatta. Al-‘Ayn al-Ikhbariyya riconosce i meriti del presidente turco nel modernizzare il Paese e le sue eccellenti doti strategiche, ma al contempo nota che la repubblica «porta sulle spalle» pesanti fardelli: crisi economiche, finanziarie, costituzionali e sociali, oltre a varie promesse di riforma che non sono state ancora realizzate.          

 

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