Nel suo ultimo libro Kristian Coates Ulrichsen analizza la frattura tra il Qatar e i suoi vicini evidenziando le risposte che il piccolo emirato ha saputo dare alle diverse crisi che ha attraversato

Ultimo aggiornamento: 21/11/2022 12:50:02

Kristian Coates Ulrichsen, Qatar and the Gulf Crisis, Hurst Publishers, London 2020

 

Nei primi anni 2000, Joseph Nye teorizzava l’idea dello smart power, inteso come l’arte di combinare le strategie dell’hard power con quelle del soft power. Il Qatar ha saputo interpretare questa forma di potere intelligente con risultati piuttosto soddisfacenti e la crisi che nel 2017 ha investito il piccolo Paese del Golfo è forse la dimostrazione più evidente dell’abilità acquisita negli anni dalla famiglia reale nella gestione delle emergenze diplomatiche. Nel suo ultimo libro, Kristian C. Ulrichsen – ricercatore al Baker Institute for Public Policy della Rice University di Houston e tra i massimi esperti del Golfo – esplora le origini di questa crisi ripercorrendo la breve storia dell’emirato, analizzando l’evoluzione delle sue relazioni diplomatiche con i Paesi limitrofi e indagando le misure politiche, economiche, energetiche e securitarie messe in atto dalla leadership qatarina per contrastare gli effetti dell’embargo. Quest’ultimo è definito un «gioco di potere» (p. 2) nato da un concorso di circostanze, tra cui la politica estera trumpiana, che ha consentito agli Emirati e all’Arabia Saudita di ritagliarsi un ruolo da protagonisti nella politica regionale e internazionale, ma ha finito per ripercuotersi negativamente sulla credibilità, irrimediabilmente danneggiata, del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Il blocco imposto al Qatar, spiega l’autore, è fallito sotto tutti i punti di vista: la narrazione prepotente e poco credibile diffusa dal fronte emiratino-saudita nel tentativo di ferire a morte il Qatar ha avuto l’effetto opposto, le tredici condizioni chieste a Doha per porre fine all’embargo sono parse fin da subito irricevibili e così irragionevoli da non riuscire a catalizzare il consenso internazionale, il rifiuto opposto da Muhammad bin Zayed e Muhammad bin Salman ai tentativi di mediazione del Kuwait e dell’Oman ha messo in luce la pretestuosità delle ragioni addotte per isolare l’emirato. E se l’Egitto e il Bahrein si sono mostrati fin da subito più disposti al compromesso, l’Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati continuano tutt’oggi ad alimentare un discorso molto ostile nei confronti di Doha, il cui esempio forse più significativo è la cartina della Penisola arabica esposta al museo del Louvre di Abu Dhabi dalla quale è stata rimossa la piccola penisola qatarina.

 

Peraltro, nonostante i tentativi di emarginazione messi in atto dai vicini, a un mese dal blocco il Qatar è stato il primo Paese del Golfo a firmare un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti per contrastare il terrorismo, atto preliminare agli incontri di dialogo strategico che si sarebbero tenuti di lì a pochi mesi a Washington con la partecipazione di Doha. Il Qatar ha inoltre potuto beneficiare dello stato di buona salute di cui godeva la sua economia, della credibilità che negli anni ha saputo costruirsi a livello internazionale e del rapporto privilegiato con alcune figure chiave della diplomazia statunitense. Non è un caso che i primi a intervenire nella crisi siano stati Rex Tillerson e James Mattis, all’epoca Segretario di Stato e Segretario alla Difesa americana, che per i ruoli ricoperti in precedenza – amministratore delegato della ExxonMobil il primo e comandante dello United State Central Command il secondo – avevano avuto modo di misurare l’importanza geostrategica del Qatar per gli interessi americani.

 

Il Qatar non si è lasciato cogliere alla sprovvista ed è arrivato preparato alla crisi del 2017. Come ricorda infatti Ulrichsen, i rapporti tra il piccolo emirato e gli Stati limitrofi sono tesi da decenni a causa delle mire espansionistiche e delle pretese egemoniche dell’Arabia Saudita. Nel 1995 il neo-eletto emiro di Doha Khalifa bin Hamad corse il rischio di un colpo di Stato orchestrato da Riyadh, Abu Dhabi e Manama con la benedizione dell’Egitto, e se l’operazione non andò a buon fine fu soltanto grazie all’intervento diplomatico degli USA e del Regno Unito. Meno di dieci anni dopo, nel marzo del 2014, una nuova crisi. Con un tempismo impeccabile – solo qualche mese prima Khalifa bin Hamad aveva abdicato a favore del figlio, shaykh Tamim – il Bahrein, l’Arabia Saudita e gli Emirati hanno richiamato i loro ambasciatori a Doha giustificandosi con la necessità di proteggere la loro sicurezza. Quest’atto, ufficiosamente teso a indebolire la nuova leadership, avrebbe aperto una crisi durata otto mesi.

 

Reduce dalle precedenti crisi diplomatiche, nel 2017 il Qatar ha reagito con prontezza alle minacce dei vicini, riorganizzando la filiera produttiva nazionale e promuovendo il consumo di prodotti locali, stipulando nuovi accordi commerciali con la Turchia, l’Oman, l’Iran e la Cina, e istituendo nuove partnership con diverse compagnie petrolifere, tra cui Shell, Eni e Oman Oil Company. A livello sociale, l’embargo ha favorito la nascita, dal basso, di una forte identità nazionale – un caso più unico che raro in una regione comunemente associata a forme di nazionalismo create dall’alto.

 

A distanza di tre anni, il Qatar ha rafforzato la sua posizione e guarda diritto al 2022, anno in cui ospiterà la Coppa del Mondo di calcio. Tuttavia anche il mondo dello sport è stato investito dai venti della crisi del Golfo, rimanendo invischiato in quella che Ulrichsen chiama «la guerra delle false narrazioni» (p. 239). Nei mesi successivi all’embargo, i media internazionali ostili al Qatar hanno denunciato lo sfruttamento dei lavoratori addetti alla realizzazione delle infrastrutture che dovranno ospitare gli atleti, mentre l’Arabia Saudita è passata direttamente ai fatti con la creazione di beoutQ, un’emittente televisiva pirata gestita da Arabsat che per qualche mese ha trasmesso illegalmente gli eventi sportivi i cui diritti televisivi erano detenuti dal canale qatarino beIN.

 

Secondo le previsioni di Ulrichsen, la crisi è destinata a stemperarsi in maniera informale, quantomeno a livello economico e sociale, soprattutto da parte saudita, per cui i temi della disputa sono meno ideologici e più legati a questioni contingenti. Più complicato sembra essere invece il livello politico, condizionato dal forte risentimento anti-qatarino che pervade in particolare la leadership emiratina, preoccupata per l’appoggio che Doha fornisce all’Islam politico a livello globale. In questo senso, la percezione dell’islamismo come una minaccia esistenziale non può essere ridotta a una questione di incompatibilità caratteriale tra la classe dirigente di Abu Dhabi e di Doha, ma, anche se l’autore non lo esplicita, affonda le sue radici in due visioni diametralmente opposte del rapporto tra musulmani e politica. Per questa ragione, conclude Ulrichsen, «proprio come la crisi è nata ad Abu Dhabi, così anche la sua soluzione verrà da Abu Dhabi, se mai verrà» (p. 255).

 

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