Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 03/05/2024 16:34:57

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Fino a qualche giorno fa, filtrava un cauto ottimismo intorno alla possibilità di una tregua a Gaza. Impegnato al World Economic Forum di Riyad, nel suo settimo viaggio in Medio Oriente dall’attacco del 7 ottobre scorso contro Israele, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha dipinto come «molto generosa» l’offerta presentata ad Hamas. Al momento, però, siamo ancora a un nulla di fatto. Lo schema si ripete da mesi: dopo un lungo lavorio diplomatico, condotto principalmente da Egitto, Qatar e Stati Uniti, le parti sembrano vicine a un’intesa, ma questa finisce poi per svanire. A riportare i termini dell’ultima proposta, rivelati dal quotidiano libanese arabofono al-Akhbar, è tra gli altri il Times of Israel: una fase di 40 giorni di tregua durante la quale dovrebbero verificarsi uno scambio di prigionieri, un consistente afflusso di aiuti umanitari nella Striscia e un ritiro parziale dell’esercito israeliano. Citando le parole di Blinken, il quotidiano israeliano imputa ad Hamas la responsabilità dello stallo. Ma a impedire un compromesso è, in realtà, la posizione di entrambi i protagonisti del conflitto. Il premier israeliano Benyamin Netanyahu è stretto tra la necessità di riportare a casa gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas e il perseguimento del suo piano di vittoria totale sul movimento islamista, fortemente voluta dalla maggioranza che lo sostiene. Il 30 aprile, proprio mentre trapelavano le voci su un possibile accordo, Netanyahu ha affermato di essere determinato a procedere con l’offensiva di Rafah, a prescindere dall’esito dei negoziati con Hamas. E il giorno dopo, la ministra israeliana delle Missioni Nazionali Oris Strock, rappresentante del Sionismo religioso, ha dichiarato in una trasmissione radiofonica che il governo non può vanificare l’azione dell’esercito per salvare 20 o 30 persone. Nel suo editoriale del 3 maggio, il quotidiano israeliano Haaretz ha commentato allarmato che Israele deve scegliere tra «un ministro di estrema destra e gli ostaggi», dal momento che «gli obiettivi di guerra di Strock e dei suoi colleghi ideologici – Bezalel Smotrich, Itamar Ben-Gvir e simili – non sono compatibili con gli obiettivi presentati dal governo». Gli estremisti di destra, continua Haaretz, «vedono la guerra, con la distruzione, le morti e la devastazione che l’accompagnano, come un’opportunità per realizzare scopi contrari all’interesse d’Israele e del suo popolo. Alla base della visione messianica, nazionalista e razzista di Strock e dei suoi colleghi sta “l’eliminazione assoluta” degli arabi, con insediamenti ebraici su tutto il territorio, dal fiume al mare. Un incubo che dovrebbe togliere il sonno agli israeliani che vedono qui il proprio futuro».

 

Da parte sua, il leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar, da cui in ultima analisi sembrano dipendere le decisioni del gruppo islamista, non si accontenta di un cessate il fuoco temporaneo, ma vuole una tregua permanente e il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia: un risultato che suonerebbe chiaramente come una vittoria di Hamas. A fare le spese della situazione sono gli ostaggi israeliani e la popolazione civile di Gaza, sempre più provata da condizioni di vita inumane.

 

In un articolo pubblicato su Le Monde, lo storico francese Jean-Pierre Filiu, autore tra l’altro di una storia di Gaza, ripercorre tutte le occasioni in cui i governi israeliani hanno favorito l’ascesa di Hamas per delegittimare prima l’OLP e poi l’Autorità Nazionale Palestinese e traccia il disastroso bilancio delle scelte di Netanyahu: «La campagna israeliana non ha liquidato Hamas. In compenso ha distrutto la Striscia di Gaza come spazio di vita, in tutti i sensi del termine, con un bilancio umano che, se paragonato alla popolazione francese, corrisponderebbe a più di un milione di morti, di cui 400.000 bambini. Questo campo di rovine, sul quale non può che prosperare l’odio, sarà un terreno fertile per la rinascita dell’islamismo armato, tanto più che Hamas denuncerà la passività araba e internazionale per discolparsi meglio della responsabilità di un tale disastro».

 

Tuttavia, negli ultimi giorni qualche piccolo passo avanti sembra esserci stato. Hamas ha rifiutato l’accordo mediato dall’Egitto, ma non ha abbandonato il tavolo negoziale. Intanto è cresciuta la pressione su Netanyahu, che sembra sempre più a corto di opzioni. L’Economist ha descritto un primo ministro molto preoccupato dalla possibilità di un mandato d’arresto che la Corte Penale Internazionale sarebbe pronta a spiccare nei suoi confronti: «fino a non molto tempo fa, Benyamin Netanyahu era ansioso di paragonarsi a Vladimir Putin. Nella campagna elettorale del 2019 il suo partito, il Likud, esibiva orgogliosamente dei poster che ritraevano il primo ministro israeliano accanto al presidente russo e ad altri uomini forti. Ora Netanyahu è terrorizzato dall’idea di unirsi a un altro club in cui si trova Putin: quello dei leader contro i quali la Corte Internazionale Penale dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per crimini di guerra». La Corte ha negato che il suo procuratore Karim Khan sia pronto a procedere ma, prosegue l’articolo, «diplomatici israeliani dicono di avere indicazioni che il primo ministro, il ministro della Difesa Yoav Gallant e alti generali delle Forze di Difesa israeliane siano nel suo mirino». Questo, insieme alle pressioni americane, spiegherebbe anche l’esitazione di Netanyahu nel lanciare la tanto annunciata operazione di Rafah.

 

A ciò si aggiunge la mobilitazione pro-palestinese dei campus americani. L’analista del Malcolm H. Kerr Carnegie Middle East Center Michael Young ha evidenziato il cambiamento potenzialmente radicale che si sta verificando negli Stati Uniti: fino a poco tempo fa l’alleanza con Israele era un punto fermo dei centri di potere americani, ora «le certezze compiaciute del passato vengono messe in discussione dai decisori, dai funzionari e dalle persone influenti di domani, al punto che la simpatia verso Israele, quasi scontata nel passato, non è più garantita».

 

E anche Erdoğan, dopo la sonora sconfitta alle elezioni locali del mese scorso, sta cercando di rimediare alla propria popolarità in declino con una posizione più intransigente nei confronti d’Israele: il 2 maggio, la Turchia ha annunciato che sospenderà le relazioni commerciali con Israele finché non verrà garantito un congruo afflusso di aiuti alla Striscia di Gaza.

 

Piano A, piano B o piano illusorio? Nel labirinto dell’accordo israelo-saudita-americano 

 

Mentre proseguivano le trattative su una possibile tregua a Gaza, un altro negoziato, anche questo in corso da mesi e legato a doppio filo con la questione palestinese, andava avanti tra Stati Uniti e Arabia Saudita. La posta in gioco continua a essere la possibilità di una normalizzazione tra il Regno dei Sa‘ud e Israele – cui il presidente Biden non ha rinunciato nonostante il colpo infertole dall’attacco del 7 ottobre – associata a un accordo di sicurezza tra Stati Uniti e Arabia Saudita. In vista delle elezioni di novembre, l’attuale amministrazione democratica ha urgente bisogno di un exploit su questo fronte e, durante la sua visita a Riyad, Antony Blinken ha evocato progressi significativi sul dossier, confermati tra l’altro del ministro degli Esteri saudita. Ma anche in questo caso la strada verso l’accordo è disseminata di incognite e ostacoli. Una buona analisi del labirinto in cui si trovano le trattative si può leggere sul Guardian. I sauditi, scrive il corrispondente a Washington del quotidiano britannico, non possono accettare la normalizzazione con Israele «in assenza di un cessate il fuoco a Gaza e di fronte alla ostinata resistenza del governo Netanyahu nei confronti della creazione di uno Stato palestinese» e spingono per un piano B. Questo prevederebbe un patto di mutua difesa tra Arabia Saudita e Stati Uniti, il sostegno americano allo sviluppo di un programma nucleare civile saudita e la cooperazione nel campo dell’intelligenza artificiale e di altre tecnologie emergenti, indipendentemente dalle decisioni dello Stato ebraico. Se Netanyahu accettasse la nascita di uno Stato palestinese, l’Arabia Saudita sarebbe pronta a stringere relazioni diplomatiche formali con Israele e quest’ultimo rientrerebbe nell’accordo, che quindi avrebbe l’effetto di ridisegnare l’intera architettura di sicurezza della regione. In caso contrario l’intesa rimarrebbe bilaterale. Il problema è che «la Casa Bianca è restia a concedere così tanto in assenza di un accordo di normalizzazione […]. L’opposizione sarebbe ancora più forte al Congresso, che è concentrato sulla pessima situazione dei diritti umani nel Regno, compreso l’assassinio di Khashoggi». Ancora più lapidario il Washington Post, che bolla come «illusioni» i piani del presidente americano, mettendone chiaramente in luce il difetto fondamentale: «il problema che tormenta le speranze di Biden per il Medio Oriente rimane lo stesso che Trump non è riuscito ad affrontare: la relazione tra Israele e i palestinesi». Bisogna poi considerare che la campagna elettorale per le presidenziali americane è alle porte, e i tempi per arrivare a un accordo così complesso sono strettissimi.

 

Sullo sfondo delle trattative c’è anche l’ombra della Cina. Uno degli obiettivi degli americani sarebbe infatti far rientrare stabilmente nella loro orbita i sauditi, che negli ultimi anni hanno intessuto solide relazioni con Pechino. E proprio Pechino non è inerte di fronte all’attivismo diplomatico altrui. Il 30 aprile, un portavoce del Ministero degli Esteri cinese ha annunciato che il suo Paese ha ospitato dei colloqui tra Hamas e Fatah, senza rivelare la data dell’incontro. L’iniziativa, rientra nei tentativi della Repubblica popolare di presentarsi, «a differenza degli Stati Uniti», come «una grande potenza e un mediatore di pace», ha scritto il New York Times, che nel complesso ha sminuito la portata dell’evento. Il quotidiano cinese in lingua inglese Global Times ha commentato l’atteggiamento della stampa americana accusandola di fare come la volpe con l’uva. Ma più delle parole, contano le due vignette pubblicate dal quotidiano in testa all’articolo: una mostra lo stivale di un soldato americano che calpesta un terreno devastato dalla guerra; l’altra, sormontata dalla scritta “China”, raffigura una stretta di mano, suggellata da una colomba, davanti a uno skyline di cantieri e grattacieli.

 

Libano: lo spettro della guerra, il passo falso di Geagea [a cura di Mauro Primavera]

 

Il confronto regionale tra Israele e Asse della Resistenza sta aggravando la già molto precaria situazione del Libano. Il Paese – il cui parlamento ha rinviato per il terzo anno di fila le elezioni municipali – sta riscontrando crescenti difficoltà nel gestire il fenomeno dei siriani in fuga dalla guerra civile. Probabilmente, come riporta The New Arab, il flusso è destinato ad aumentare, mentre si stanno verificando tagli agli aiuti finanziari offerti da governi e donatori privati alle organizzazioni umanitarie. Le conseguenze sono già visibili: sempre più siriani cercano di lasciare il Libano per raggiungere l’isola di Cipro, fatto che ha spinto le autorità locali a rifiutare le domande di richiesta di asilo. Per questo motivo, l’Unione Europea è intervenuta a sostegno del Paese levantino: giovedì 2 maggio la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente cipriota Nikos Christodoulides hanno avuto un incontro a Beirut con il primo ministro libanese Najib Miqati, concordando un pacchetto di aiuti europei del valore di oltre un miliardo di euro per far fronte alla gestione dei flussi migratori.

 

Le Monde sottolinea inoltre come il Libano risenta ancora degli effetti  dell’affaire Sleiman (ne avevamo parlato qui), membro del partito cristiano Forze Libanesi (FL) assassinato in circostanze misteriose da una banda armata siriana probabilmente affiliata al movimento paramilitare sciita Hezbollah. L’omicidio ha alimentato il risentimento, e talvolta l’odio, di alcuni cittadini libanesi nei confronti dei migranti: «è sorta una nuova onda di ostilità contro i siriani. Dopo la grave crisi economica del 2019, che ha provocato un impoverimento senza precedenti, la ripresa dell’immigrazione e uno stress cronico, la massiccia presenza dei rifugiati ha dato luogo a tensioni ricorrenti che si esprimono all’interno delle diverse comunità del Libano multiconfessionale».  

 

Drastici i rimedi proposti da Samir Geagea in un’intervista all’Associated Press. Il leader delle Forze Libanesi ha invitato Hezbollah a «ritirarsi dalle aree al confine con Israele» cedendo le postazioni frontaliere all’esercito nazionale, visto che «nessuno ha il diritto di controllare il destino di un Paese e della sua popolazione ed Hezbollah non è il governo libanese. E per quanto riguarda i siriani, Geagea propone la loro espulsione dal Paese, seguendo l’esempio del Regno Unito, che ha appena approvato una legge per deportare alcuni richiedenti asilo in Ruanda («dovremmo dire loro: tornatevene nel vostro Paese. La Siria esiste»). Tuttavia, come osserva la testata libanese L’Orient-Le Jour, rimpatriare i siriani sarebbe tutt’altro che semplice: «Assad controlla tutto» e impedisce il rientro dei migranti, che sono «in gran parte sunniti e ostili al regime»; il fatto, poi, che Damasco sia sotto sanzioni internazionali e non abbia canali diplomatici diretti con l’Occidente complica ulteriormente le procedure di rimpatrio. Infine, specifica la testata in un altro articolo, occorre prestare attenzione alla (confusa) terminologia giuridica applicata ai migranti: fino al 2014 le autorità solevano considerarli dei “rifugiati” ma, con l’intensificazione del fenomeno migratorio, hanno cominciato a utilizzare il termine nazihiyin, «che significa indistintamente sia “sfollato” che migrante”. Ampiamente usato nell’ambito politico-mediatico, questo appellativo, dalla connotazione peggiorativa, non è adatto a descrivere una situazione del genere: lo “sfollato” è chi viene esiliato all’interno del proprio Paese». Anche la parola  “rifugiati” (laji’yin) viene usato poco, in quanto «risveglia dolorosi ricordi», venendo associato alla presenza palestinese e alla guerra civile libanese combattuta tra il 1975 e il 1990.     

 

Sempre L’Orient-Le Jour precisa che le dichiarazioni di Geagea si inseriscono all’interno di un progetto politico più ampio esposto nella città di Meerab, sede delle Forze Libanesi, il cui ambizioso obiettivo consiste(va) nel creare un ampio fronte anti-Hezbollah «riunificando le fila dell’opposizione» e ripristinando la sovranità nazionale nel sud del Paese sulla base della risoluzione Onu numero 1701 del 2006. Il “meeting di Meerab”, come è stato ribattezzato dalla stampa, si è però rivelato un clamoroso insuccesso o, meglio, un «passo falso». Tanto per cominciare, le aspettative delle FL sono state disattese dall’assenza dei «grandi nomi dell’opposizione», che hanno deciso di disertare l’appuntamento; tra gli esponenti politici che hanno fatto mancare l’appoggio a Geagea spiccano Sami Gemayel, capo delle Falangi Libanesi, un altro partito cristiano-maronita, e Walid Jumblatt, ex leader del Partito Socialista Progressista. «Non basta avere il più grande gruppo parlamentare per intestarsi la leadership degli anti-Hezbollah – commenta L’Orient-Le Jour. Invece di ricompattare i ranghi dell’opposizione in un momento in cui si determina il destino del Paese e della regione, il meeting di Meerab ha portato alla luce del sole i dissensi facinorosi di questo campo. È un altro passo falso di fronte al bulldozer politico e militare [Hezbollah] che non risponde agli appelli di porre fine ai combattimenti nel sud».

 

L’India va al voto tra una crescente polarizzazione anti-islamica [a cura di Claudio Fontana]

 

Lo scorso 26 aprile si è svolta la seconda fase delle elezioni in India, che ha messo in palio 88 seggi sul totale di 543 presenti nella camera bassa del Parlamento del Paese. La tornata elettorale di quest’anno, con quasi un miliardo di persone chiamate alle urne, sono le più imponenti mai organizzate e si svolgono in sette fasi, con Narendra Modi alla ricerca di uno storico terzo mandato. Già dopo la fine della prima fase, tuttavia, è emerso chiaramente come la “minoranza” islamica (virgolette d’obbligo trattandosi di oltre 200 milioni di persone) sia al centro della campagna elettorale, con il leader nazionalista che ha accusato il partito di opposizione di favorire i musulmani e di essere pro-Pakistan. Come mostrato da un reportage della CNN da Varanasi, capitale spirituale dell’India nonché roccaforte di Modi, «le tensioni tra le due fedi [islamica e indù] stanno aumentando»Secondo i critici del Primo Ministro uscente, ciò è dovuto al fatto che il suo partito, il Bharatiya Janata Party (BJP), avrebbe trasformato «l’India – una Nazione costituzionalmente vincolata alla laicità – in una rashtra, o patria, indù». Syed Mohammad Yaseen, uno dei leader della comunità islamica di Varanasi, sostiene che il governo non protegge i musulmani, i quali si sentono sempre più vulnerabili e impauriti dai «crimini d’odio» che si verificano nel Paese, anche se «il peggio verrà se Modi sarà rieletto». Kailash Adhikari, direttore del magazine Now, esprime un’idea differente: vari esponenti governativi, incluso Primo ministro e ministro dell’Interno, «hanno detto che l’India è tanto per gli indù quanto per tutte le altre comunità», inclusi musulmani, sikh e cristiani. Durante tutti gli incontri internazionali, Modi ha scelto di fornire un’immagine di sé più moderata, negando ogni discriminazione. Inoltre, data la loro ampiezza, le vittorie del 2014 e del 2019 «non possono provenire solo da un particolare gruppo», ha detto Adhikari. D’altronde è però innegabile che «nazionalisti indù sono stati nominati nelle posizioni apicali di importanti istituzioni governative, dando loro il potere di introdurre nella legislazione cambiamenti radicali, che secondo i gruppi per i diritti prendono di mira i musulmani». Così, riporta la CNN, i testi scolastici sono stati riscritti per sminuire la storia del passato musulmano del Paese. Non solo: nel 2019 Modi ha eliminato il regime di autonomia speciale dello stato di Jammu e Kashmir, l’unico a maggioranza islamica e fatto approvare una controversa legge sulla cittadinanza che penalizza i musulmani. Il BJP si è posto l’ambizioso obiettivo di conquistare 370 seggi sui 543 disponibili, un significativo aumento rispetto ai 303 ottenuti nel 2019, e per raggiungerlo ha bisogno che la maggioranza degli indù, che costituiscono circa l’80% della popolazione, voti a suo favore. La strategia individuata dal partito di Modi è dunque quella di polarizzare l’ambiente politico, per portare gli induisti a votare per il BJP. Si spiega così anche la dichiarazione del ministro dell’Informazione, il quale durante un comizio ha affermato che l’opposizione «vuole dare la proprietà dei vostri figli ai musulmani». Secondo il New York Times, c’è però un “salto di qualità” nella retorica anti-islamica in India: generalmente il primo ministro lascia fare agli altri esponenti del partito – come nel caso appena menzionato, o in quello delle accuse ai musulmani di fare troppi figli – il «lavoro sporco di polarizzare gli indù contro i musulmani». Ora invece si espone in prima persona, come avvenuto domenica scorsa, quando ha definito «infiltrati» i musulmani. Del partito del Congresso Nazionale Indiano, invece, Modi ha sottolineato che sarebbe sua intenzione dare le ricchezze del Paese ai musulmani, versione naturalmente smentita dai diretti interessati. Secondo Mallikarjun Kharge, leader del Congresso, si tratta di un tentativo disperato del BJP, che vede calare i propri consensi. Pur alimentato anche dalla speranza, il commento di Kharge potrebbe avere un fondo di ragione: secondo il Financial Times certamente il BJP resta favorito, ma difficilmente raggiungerà l’elevata soglia di seggi che si è prefissato. Nelle prime due fasi delle elezioni, infatti, l’affluenza è stata più bassa del previsto, mentre in alcune delle roccaforti del BJP si è osservato un crescente sentimento contrario ai parlamentari uscenti. Ma al di là di come andranno le elezioni, «i musulmani sono diventati cittadini di seconda classe, una minoranza invisibile nel loro stesso Paese», ha dichiarato alla BBC Ziya Us Salam, autore del libro Being Muslim in Hindu India. A tutto questo si aggiunge l’elemento economico: secondo uno studio del World Inequality Lab firmato tra gli altri da Thomas Piketty, le diseguaglianze economiche, già elevate quando Modi è salito al potere nel 2014, sono cresciute enormemente. Tanto che, si legge, oggi le diseguaglianze sono persino più elevate di quanto non lo fossero durante il periodo coloniale. Mentre l’1% più benestante detiene più di un quinto della ricchezza nazionale, il 10% più ricco ne controlla quasi il 60%. In questa situazione è la classe media a essere colpita maggiormente. Chissà che non sia questo a incidere sull’andamento delle elezioni. 

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