La guerra di Gaza ha compromesso la logica degli Accordi di Abramo e accresciuto la distanza tra lo Stato ebraico e gli Stati arabi. Trump non ha rinunciato a forme di cooperazione regionale, ma i suoi progetti sono velleitari senza una prospettiva politica per i palestinesi
Ultimo aggiornamento: 07/10/2025 10:44:34
Il Medio Oriente odierno è molto lontano da quello in cui ha avuto luogo l’attacco terroristico di Hamas che il 7 ottobre di due anni fa ha scatenato un ciclo di guerra e violenze senza precedenti. Prima di quel momento, quasi non passava giorno senza che si evocasse l’imminente allargamento degli Accordi di Abramo del 2020, con l’Arabia Saudita – con tutto il suo peso simbolico e non solo per il mondo arabo-islamico – pronta a normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico. Quanto veramente realistico fosse lo scenario prospettato da diversi media e da alcuni funzionari di primo piano, a cominciare dallo stesso principe ereditario saudita Muhammad bin Salman, resta oggetto di discussione. Resta però che gli Accordi di Abramo avevano segnato uno spartiacque nella percezione della presenza israeliana nella regione. E, soprattutto, mostravano che il clima collettivo e la narrazione che poteva essere proposta erano quelli della progressiva accettazione di Israele da parte dei Paesi del Medio Oriente indipendentemente dalla sorte dei palestinesi. Gli Emirati Arabi Uniti si erano di fatto limitati a mettere il veto all’annessione della Cisgiordania, senza per questo poter fare nulla davanti al crescente numero di insediamenti autorizzati dal governo di Tel Aviv, mentre l’Arabia Saudita lasciava intendere che la normalizzazione con lo Stato ebraico sarebbe stata subordinata a un quantomai generico “percorso” verso la creazione dello Stato palestinese.
Nella fase successiva, segnata dall’estensione della guerra a Libano, Yemen, Siria e Iran, tutti questi discorsi si sono gradualmente interrotti. A mano a mano che la reazione israeliana a Gaza e nella regione diventava più sproporzionata, il tono è scivolato dall’accettazione della presenza israeliana (implicita o esplicita) alla trasformazione dello Stato ebraico in un paria internazionale, sempre più isolato e sostenuto quasi esclusivamente dagli Stati Uniti, anche con l’apposizione di ripetuti veti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Da questo punto di vista il crescente riconoscimento dello Stato di Palestina, per quanto simbolico, ha significato un cambio di paradigma: dagli incentivi offerti a Israele per raggiungere la normalizzazione con i Paesi della regione (integrazione economica, architettura di sicurezza condivisa, collegamenti commerciali, flussi di investimenti) si è passati al tentativo di isolare lo Stato ebraico e di aumentare il costo politico associato al non-riconoscimento della Palestina.
Ciononostante, al contrario di quanto auspicato da Hamas, l’attacco del 7 ottobre non ha provocato l’insurrezione generalizzata delle piazze arabe e almeno inizialmente il coinvolgimento nella guerra dell’Asse della Resistenza è stato tiepido. La Siria era troppo debole per fare qualcosa, come si sarebbe visto poco dopo, quando il regime di Bashar Assad è crollato davanti all’avanzata delle forze guidate da Ahmed al-Sharaa. Hezbollah e l’Iran, a parte i proclami sempre agguerriti, hanno inizialmente mantenuto lo scontro con Israele a un livello di intensità sufficientemente contenuto da poter rivendicare l’azione congiunta del presunto Asse senza provocare una reazione israeliana che i loro dirigenti prevedevano – correttamente, come si è visto in seguito – altamente distruttiva. Tuttavia, nel loro tentativo equilibrista di partecipare alla lotta senza scatenare l’ira israeliana Hezbollah e l’Iran non hanno considerato che gli assunti di base su cui poggiavano le regole di ingaggio con lo Stato ebraico sono stati spazzati via dall’attacco del 7 ottobre. Quest’ultimo ha dato a Israele l’opportunità di smantellare, pezzo dopo pezzo, la rete di attori statuali e non che l’Iran ha costruito nella regione portando la minaccia ai confini dello Stato ebraico. Dopo essersi concentrato sull’avversario più pericoloso, Hezbollah, e averne eliminato quadri intermedi e leadership, Israele ha avviato una guerra sempre più aperta all’Iran. Lo Stato ebraico non ha soltanto ucciso alcune delle figure più importanti legate ai Guardiani della Rivoluzione, ideatori ed esecutori della proiezione regionale della Repubblica Islamica, ma in quella che è stata rinominata “guerra dei dodici giorni”, con l’aiuto americano ha preso di mira direttamente il programma nucleare iraniano.
Naturalmente, l’elemento dell’Asse della Resistenza su cui Israele si è accanito con maggior durezza è stato Hamas. In più occasioni lo Stato ebraico ha dimostrato di essere disposto a varcare qualsiasi linea rossa pur di colpire i responsabili dell’eccidio che ha provocato la morte di più di 1000 israeliani. Dopo aver colpito Ismail Haniyeh a Teheran grazie a un’operazione di intelligence, Israele ha bombardato i negoziatori di Hamas riuniti in Qatar a discutere la proposta di tregua avanzata dagli Stati Uniti. Il bombardamento di una monarchia del Golfo, che si credeva protetta dagli Stati Uniti (gli americani vantano la presenza di 11.000 soldati nell’emirato), è stato un effettivo punto di svolta. Anzitutto ha certificato la sfrontatezza israeliana, che ha portato Netanyahu a colpire uno dei Paesi più prossimi agli Stati Uniti nella regione. In secondo luogo, la postura iper-aggressiva israeliana identifica un cambiamento dei principi della politica estera dello Stato ebraico, il cui successo non è più misurato dal numero di Stati arabi che ne riconoscono il diritto all’esistenza, ma dalla mera capacità di imporre con la forza i propri desiderata nella regione. È in questo contesto che Netanyahu ha paragonato Israele all’antica Sparta, in una «visione della sopravvivenza che passa attraverso l’isolamento e l’assedio», come ha commentato recentemente lo storico israeliano Irak Malkin. Il paragone avanzato dal primo ministro è però sbagliato in entrambe le direzioni: fraintende la natura di Sparta, che più che una vittima assediata era un egemone regionale, e quella di Israele, che oggi, similmente all’antica città-Stato, è in grado di proiettare il suo potere al di là dei propri confini – a differenza di quanto avveniva nei primi anni dopo la sua fondazione. Israele, però, non può vantare, come invece faceva Sparta, una sua Lega del Peloponneso: certo, i Paesi della regione non sono in grado di muovergli guerra, ma il contesto in cui operano è sempre più ostile e quelle firmate con Egitto e Giordania assomigliano sempre di più a delle “paci fredde”. Se nelle prime fasi della guerra l’Iran continuava a essere percepito anche da altri Paesi arabi, a cominciare da quelli del Golfo, come la più grave minaccia alla stabilità regionale, dopo l’attacco al Qatar la preoccupazione si è spostata verso le azioni dello Stato ebraico. Come spesso accade, sono le parole del principe saudita Turki al-Faisal, capo dell’intelligence del Regno per oltre due decenni e poi ambasciatore a Washington e Londra, a indicare il vero umore dell’Arabia Saudita, estendibile in questo caso ad altre capitali arabe: l’attacco a Doha «è un promemoria per tutti i Paesi del Golfo che la loro sicurezza comune è minacciata da uno Stato canaglia che non mostra alcun rispetto per le leggi o le norme che regolano le relazioni internazionali». Parole che fino a pochi mesi fa avremmo pensato indirizzate a Teheran.
La concezione di Netanyahu e dei suoi alleati di governo di Israele-Sparta ha almeno altri due problemi: il primo esula dagli argomenti di questo articolo e ha a che fare con le criticità socioeconomiche interne al Paese. Il secondo riguarda invece l’alleanza con gli Stati Uniti, l’unica veramente importante per Tel Aviv. Gli interessi di Washington non si allineano infatti con quelli di Israele nella versione militarista-spartana evocata da Netanyahu. Per i motivi più vari, inclusi gli interessi personali, l’amministrazione Trump ha identificato in un obiettivo della sua politica estera la pacificazione del Medio Oriente e la prosecuzione del percorso avviato dagli Accordi di Abramo. Già dopo il cambio di regime in Siria Trump aveva parlato di “imminenti” nuovi accordi con Israele, senza però considerare che nessun Paese arabo-musulmano poteva (e può) permettersi di normalizzare le relazioni con Israele mentre è in corso la carneficina di Gaza. Il piano americano di cui si parla in questi giorni punta anzitutto al cessate il fuoco a Gaza ma, come Trump non manca di ricordare, si tratterebbe (condizionale d’obbligo) del primo tassello di quello che per gli americani dovrebbe essere un nuovo ordine regionale.
Il tempo dirà se e quanto velleitaria sia l’iniziativa del presidente americano. Tre brevi considerazioni però sono necessarie. La prima è che nonostante il declino in termini relativi dell’unica superpotenza globale, senza un ruolo attivo giocato dagli Stati Uniti non è possibile alcun progresso a livello diplomatico (l’altra faccia della medaglia è che la Casa Bianca può anche agire – e spesso agisce! – in funzione destabilizzatrice). In secondo luogo, occorre sottolineare come il piano sia stato approvato da importanti Paesi arabo-musulmani, che hanno svolto un ruolo probabilmente decisivo nel convincere Hamas ad accettarlo. Se da un lato questo può essere interpretato come un ritorno alla fase in cui Israele non era così isolato, dall’altro non va perso di vista che il contesto in cui avviene questo nuovo coinvolgimento dei Paesi arabi è radicalmente diverso. All’indomani della firma degli Accordi di Abramo del 2020 allacciare relazioni con Israele significava porsi all’interno di una strategia di integrazione anche economica teoricamente funzionale allo sviluppo regionale. Oggi, eventuali abboccamenti dei Paesi arabi con Israele sembrano soprattutto puntare a contenere le pulsioni aggressive israeliane, vincolando Tel Aviv al rispetto degli interessi americani percepiti come meno distanti. Il terzo punto da evidenziare riguarda le incognite, sempre abbondanti. Se non verrà fornita una reale prospettiva politica ai palestinesi, l’instabilità tornerà. Senza considerare l’elefante nella stanza: l’Iran è stato duramente colpito, ma non è messo al tappeto. Assisterà inerte alla formazione di un ordine regionale che lo esclude?