Traduzione di un estratto del documento redatto da leader religiosi marocchini sulla libertà di credo nell'Islam: "Credere nella libertà è credere nella forza della religione", scrivono

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:56:25

Sabīl al-‘ulamā’, (II Parte, capitolo 1, paragrafi 4-5, p. 96-101) Non vi è costrizione nella fede, la quale tende alla libertà

Per gli ulema responsabili della diffusione della religione, la nozione di libertà (hurriya) è fonte di ambiguità, e questo perché si crede che la violazione dei precetti e delle proibizioni della religione scaturisca dalla libertà di chi li vìola; se infatti costui fosse privato della libertà non incorrerebbe nella disubbidienza. È chiaro che una simile considerazione presuppone che l’obbedienza dipenda dalla costrizione (ikrāh), ciò che non trova corrispondenza nei testi, che si esprimono chiaramente.

A dimostrazione del fatto che la libertà è parte dell’essenza della religione basti ricordare lo sforzo dei primi credenti, privati della libertà di manifestare la propria fede e di predicarla, e costretti a difendere il loro credo. In seguito alle conquiste, quando acquisirono questa libertà, essi non costrinsero gli altri, ma lasciarono loro la libertà di credo. Questa libertà si fonda però su una condizione pattuita: quella di non cospirare contro la umma che per la maggior parte aveva abbracciato la nuova fede. Questa condizione, che prevede la non-cospirazione, di qualsiasi tipo di cospirazione si tratti, è garantita anche dalle leggi odierne. Quanto alla propensione delle persone alla trasgressione, per qualche tipo di istigazione, di ciò che attiene ai diritti di Dio, resistervi dipende dalla forza personale. Se non è sufficiente la disciplina che deriva dalla guida degli ulema e dalla loro esortazione, è inutile osservare le consuetudini e le convenzioni sociali. Credere nella libertà è credere nella forza della religione, ossia nella forza dei fedeli di custodirla in loro stessi e di essere un modello seguito persino dagli opportunisti. Ci si aspetta infatti che la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini risulti convincente per il suo carattere esemplare quanto ai valori e ai benefici che apporta alla vita.

Comunicare con modelli di pensiero e di comportamento diversi dai propri – come fecero i musulmani quando entrarono in contatto con gli europei e con la loro civiltà in età moderna – è la prova della forza di questa religione e della sua capacità di confrontarsi. Di conseguenza i musulmani, combattuti ed espulsi da molte città, non possono pensare di proteggere la religione proibendo la libertà e imponendosi con la costrizione; questa è una comprensione corrotta della religione e della storia. Contrariamente all’opinione dominante, in generale, la religione oggi è in condizioni migliori rispetto al passato dei musulmani se si guarda alla sua natura, alle priorità e alle finalità superiori (maqāsid kubrā). Questo perché gli strumenti disponibili oggi, sia per praticare il culto sia per agire iniquamente, prima non erano disponibili. La ragione di questo miglioramento è legata alla libertà e alla conseguente realizzazione della giustizia, con il moltiplicarsi dei suoi strumenti da un lato, e la diffusione dell’istruzione dall’altro. Ciò che è accaduto nei Paesi che si trovano nella migliore condizione sperabile in merito alla libertà [l’Occidente, NdT], merita una riflessione. Una parte dell’opinione pubblica si è irritata per il velo di alcune donne musulmane. Se non si fossero irritati, non avrebbero suscitato il clamore. Nonostante siano dei maestri nell’analisi delle espressioni sociologiche esterne, essi hanno aperto la porta dell’opposizione a forme di pensiero diverse, inserendo nel dibattito il simbolo religioso.

La condotta religiosa ha certamente sfaccettature sociologiche. In ogni caso, la riflessione degli ulema su questo tema – il tema della libertà in tutte le sue manifestazioni – è tra le chiavi più importanti per il rinnovamento e il successo della loro missione. Nonostante la separazione istituzionale o formale tra Stato e religione, le altre comunità non hanno rinunciato alle loro religioni anzi, forse la religione è riuscita a preservarsi dagli errori delle istituzioni politiche. L’esempio più sintomatico è quello che viviamo attualmente in Marocco, e che è il proseguimento della nostra storia: un modello in cui la religione mantiene il Comando dei credenti (imārat al-mu’minīn) nell’ambito di una libertà garantita dalla legge, e che mira a essere un modello globale incentrato sulla condotta dei membri della umma, attorniati dagli ulema, e non su una rappresentazione distorta e corrotta perché fondata sul presupposto della coercizione come strumento di riforma. Le questioni relative alla giustizia, alla solidarietà, ai diritti e alle libertà nella Umma […] Così come la sharī‘a ha posto per l’uomo dei doveri, gli ha riconosciuto anche dei diritti, in primis quelli personali. Il cerchio poi si allarga fino a comprendere quelli della famiglia, del gruppo, della umma e del mondo. Si osservi che, quanto più il cerchio dei diritti si allarga, tanto più esso restringe e riduce i diritti degli individui a vantaggio della comunità di cui essi fanno parte. La sharī‘a definisce tanto la libertà dell’individuo e la sua responsabilità personale, quanto la libertà della comunità e la sua responsabilità. Questo indispensabile equilibrio è assente in molti sistemi intellettuali e politici moderni e contemporanei, sia in quelli in cui i diritti della comunità (lo Stato) si espandono a scapito degli individui, sia in quelli in cui le tendenze individualiste si sono espanse a discapito della collettività.

Tra i diritti e le libertà più importanti che la religione garantisce vi sono il diritto e la libertà di fede, come sancisce chiaramente il Corano: «Non vi sia costrizione nella Fede, la retta via ben si distingue dall’errore» (2,256); «Dì: “La verità viene dal vostro Signore: chi vuole creda, chi vuole respinga la Fede”» (18,29). Una volta distinto il vero dal falso e la retta via dall’errore, all’individuo o alla comunità resta la responsabilità di scegliere, dal momento che è stata disposta la ricompensa – il paradiso o il castigo – senza che vi sia costrizione né obbligo nella scelta. Ogni qualvolta l’Inviato di Dio (la preghiera e la pace siano su di Lui) si trovava di fronte al rifiuto della sua gente, il nobile Corano discendeva ricordandogli ripetutamente questo fatto: «Ammonisci, ché un ammonitore tu sei, non sei stato nominato loro sovrano!» (88,21-22), «Ma potresti tu costringere gli uomini ad essere credenti a loro dispetto?» (10,99), «Certo è grave e dura per te la loro incredulità, e se tu potessi vorresti riuscire a scavare un pozzo nella terra o innalzare una scala nel cielo, per portar così loro un Segno» (6,35). Questo è uno dei segreti della forza di questa religione: quando un individuo crede per scelta e convinzione profonda nelle sue parole, per una forza che viene da dentro e non da fuori. La forza di questa religione risiede nelle parole perfette in loro stesse. In seguito la comunità si assume un impegno e stabilisce un accordo, custodito dal governante, il quale governa in sua conformità: non si può infatti immaginare di istituire la comunità (lo Stato) senza un sistema o una legge che disciplini la collettività, senza simboli intellettuali e culturali che esprimano l’identità della comunità e la sua unità nella religione, nella lingua, nella storia, nelle consuetudini e nelle tradizioni, nella letteratura e nelle arti, e in tutto ciò che può essere foriero di pluralità e varietà, una ricchezza per la comunità, non una contraddizione. Il fatto che la comunità specifichi la sua scelta religiosa nella Costituzione rinnova l’impegno dei suoi membri a rispettare tale scelta e a non turbarla. È come se per secoli questa scelta avesse rispecchiato lo stato di unità nelle istituzioni scientifiche, politiche e civili della umma, fino a diventare un elemento di sicurezza e stabilità per la società. Il singolo individuo è chiamato a fare la sua scelta di cui non deve rendere conto, così come la comunità è chiamata a fare la sua scelta e deve difenderla. Nell’Islam si è posta in passato e si pone tuttora la questione dell’apostasia (ridda) e dell’apostata (murtadd). L’interpretazione più corretta e sicura della questione che si concilia con lo spirito della tradizione e della vita del Profeta (la preghiera e la pace siano su di lui) è quella che per uccisione dell’apostata intende il traditore della comunità (khā’in al-jamā‘), colui che ne rivela i segreti e la danneggia facendosi forza dei suoi avversari, ciò che è equiparabile all’alto tradimento per le leggi internazionali. Questo intende il Profeta (la preghiera e la pace siano su di lui) nel detto: “Chi cambia la sua religione, uccidetelo” (Bukhārī 3017), e che trova conferma in un altro suo detto (la preghiera e la pace siano su di lui): “Chi abbandona la religione è colui che si stacca dalla comunità” (Bukhārī 6887, Muslim1676). Abbandonare la comunità dei musulmani significava unirsi al gruppo rivale degli infedeli (mushrikūn), suoi nemici nel contesto di guerre dell’epoca.

L’apostasia era perciò di natura politica, non dottrinaria. Il nobile Corano si esprime riguardo all’apostasia dottrinaria in numerosi versetti e non dispone una pena terrena ma una punizione nell’aldilà: «Quanto a quelli di voi che avranno abbandonato la fede e saran morti negando, vane saranno tutte le opere loro in questo mondo e nell’altro, e saranno dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno» (2,217). Sono presenti inoltre alcuni riferimenti nella biografia del Profeta, tra cui l’accordo di Hudaybiyya il quale prevedeva che chi si fosse convertito all’Islam e in seguito fosse tornato (irtadda) alla tribù dei Quraysh non avrebbe più dovuto essere cercato dai musulmani, mentre i miscredenti che avessero voluto unirsi ai musulmani sarebbero stati accolti nella umma. Il Profeta (la preghiera e la pace siano su di lui) non fece nulla al beduino che, dopo essersi convertito all’Islam, tornò sui suoi passi chiedendo di poter annullare la sua professione di fede (shahāda): costui uscì dalla città di Medina senza che gli fosse fatto alcun male. Il Profeta (la preghiera e la pace siano su di lui) disse: «Medina è come il mantice, espelle la sua malvagità e fa risplendere il buono». Al tempo del Profeta si verificarono altri casi di apostasia, ma non furono perseguiti. Le guerre che Abū Bakr (Dio si compiaccia di lui) lanciò contro gli apostati erano guerre politiche nel senso più generale del termine, contro una fazione che aveva rifiutato di obbedire alla guida, tentato di dividere l’unità della comunità, inficiato la comprensione della religione distruggendone uno dei pilastri. È noto che la religione era, ed è tuttora, il principale pilastro di stabilità nella società. Quanta sedizione (fitan) e quanti conflitti causa l’interpretazione (ta’wīl) corrotta della religione e la sua strumentalizzazione! Chi riflette sulla condotta politica, sociale e civica legata ai diritti, alle libertà, alla giustizia e all’uguaglianza tra i musulmani, e tra la loro comunità e gli aderenti ad altre confessioni, come sancito dalla Carta di Medina, percepisce come i significati più nobili di quest’ultima restano duttili e flessibili, ciò che l’ha resa necessaria ai musulmani e all’umanità al fine di realizzare la riconciliazione e la convivenza che cerchiamo. Ciò dimostra che il suo contenuto è ispirato da Dio, l’Eterno, che racchiude l’uomo, il tempo e lo spazio.