Dieci anni fa sette frati trappisti del monastero di Notre Dame dell'Atlas, in Algeria, vennero uccisi dopo cinquantasei giorni di prigionia. Un episodio sconvolgente della guerra del terrorismo islamista trasformato in una luminosa e misteriosa testimonianza di amore

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:22

Dieci anni fa, il 21 maggio 1996, Christian de Chergé, superiore (priore) del monastero cistercense di Notre-Dame de l'Atlas, a Tibhirine, e sei dei suoi frati trappisti furono ufficialmente assassinati da terroristi musulmani del GIA (Gruppi islamici armati) dopo cinquantasei giorni di prigionia nella macchia algerina. Alcuni hanno interpretato questo assassinio collettivo come un fallimento per quei monaci che avevano scelto di vivere in amicizia con i loro vicini musulmani. Ma il priore di Tibhirine nel suo testamento spirituale aveva previsto la controversia: «La mia morte, evidentemente, parrà dar ragione a quelli che mi hanno liquidato come un ingenuo o un idealista: "dica adesso quello che pensa!"». È evidente: Christian de Chergé aveva pienamente coscienza da un lato del pericolo insito nella sua situazione e dall'altro dell'interpretazione negativa che alcune persone avrebbero fatto del suo assassinio. Tuttavia, con tutta la sua comunità, ha deliberatamente accettato il rischio di essere messo a morte. Perché? Quale poteva essere la fecondità attesa da questa presenza di preghiera, lavoro, ospitalità e condivisione di vita, in un povero villaggio, in terra d'Islam, fino alla morte? «L'albero che cade fa più rumore della foresta che cresce», recita un proverbio asiatico. Christian de Chergé riteneva di non dover concentrare tutta la sua attenzione sui dolori del parto, ma considerare il termine, presentire la venuta, affrettare l'arrivo di tempi nuovi di fratellanza. Molto si è scritto sull'assassinio dei frati, ma occorre anche interessarsi alla loro vita quotidiana, discreta, ricca di una presenza che risale al 1938. Per loro, si trattava di vivere il mistero dell'Incarnazione in terra d'Islam. In terra ebraica e romana questa Incarnazione si era già «conclusa con un assassinio», come notava Christian de Chergé poco prima della sua morte. Perché le cose sarebbero dovute andare diversamente in Algeria, nel XX secolo? In quest'ottica, una presenza monastica in un paese devastato dalla violenza non poteva escludere il fallimento umano personale, al contrario: «È attraverso la povertà, il fallimento e la morte che andiamo verso Dio», scriveva Luc Dochier, monaco medico a Tibhirine, al suo amico di Lione, il dottor Paul Grenot, nell'aprile del 1994. Ma nella teologia cristiana un tale fallimento può essere trasformato in vittoria. Nella condivisione della condizione mortale di un popolo, di una civiltà e perfino di una religione, fino a sparire, può prodursi una trasformazione di questo ambiente. È la grazia del martirio, che, nella sua debolezza, giunse a convertire pacificamente l'impero romano, fino a fare del Cristianesimo la religione ufficiale, sotto l'imperatore Costantino e i suoi successori. Per i monaci di Tibhirine dunque essere assassinati non era certamente un bene, ma nemmeno un fallimento assoluto. Si trattava prima di tutto di rispondere alla domanda dei loro vicini musulmani che volevano che i monaci restassero con loro sino alla fine, nonostante la crescente insicurezza. Ma questa relazione d'amore disinteressato e fedele condusse la comunità a vivere il mistero dell'Incarnazione pasquale in tutta la sua fecondità. «Qui la violenza è sempre allo stesso livello notava fra Luc, in una lettera del 24 marzo 1996 anche se la censura vorrebbe nasconderlo. Come uscirne? Non penso che la violenza possa estirpare la violenza. Non possiamo esistere come uomini se non accettando di farci immagine dell'amore, quale si è manifestato nel Cristo che, giusto, ha voluto subire la sorte dell'ingiusto». In effetti, la morte ingiusta del Cristo rompe la spirale infernale dell'odio e dà vita a una nuova umanità, animata dal soffio dello Spirito. La Vocazione del Monastero Come si è manifestato il soffio dello Spirito sul villaggio di Tibhirine dopo la Pasqua dei "suoi" monaci? Per gli abitanti, il rapimento, l'assassinio, poi la decisione dell'Ordine Cistercense di non mantenere il monastero, ad esclusione del cimitero, fu una prova terribile. Fortunatamente la diocesi di Algeri acquistò la proprietà e una Associazione degli Amici di Tibhirine ha visto la luce per far vivere il luogo, malgrado i problemi di sicurezza della regione di Medea. Questo gruppo rimane «volontariamente in una certa discrezione».1 È tuttavia molto attivo, grazie ai suoi donatori e ad un sacerdote che si reca ogni settimana nel monastero per controllare lo stato di avanzamento di diversi progetti a servizio degli abitanti del villaggio: cooperazione con la scuola di Tibhirine (materiale didattico, mensa), acquisto del bestiame, aiuto per la casa, lavoro artigianale (con la partecipazione di una suora della diocesi), aiuto per il matrimonio. Anche la foresteria è stata restaurata e comincia a essere utilizzata per accogliere dei gruppi per ritiri, anche se i soggiorni non durano mai più di uno o due giorni. Sono previste anche colonie estive non appena il clima di sicurezza lo permetterà. Questi aiuti esterni e l'aumento delle visite sono evidentemente una buona notizia per il villaggio, il cui futuro dipende molto dal miglioramento del clima politico generale. Secondo l'Associazione degli Amici di Tibhirine, «prosegue netto il miglioramento della sicurezza in Algeria, compresa la regione di Medea. L'estrema tensione che per anni ha pesato sugli abitanti va sparendo. Ora possono dormire sonni tranquilli senza darsi il cambio di notte per montare di guardia. In questo contesto, si esprimono e sempre più si realizzano desideri di visite e pellegrinaggi a Tibhirine, in gruppo o individualmente».2 È ormai evidente: l'assassinio dei monaci non ha messo fine alla vocazione del monastero come «luogo di pace, di carità e di condivisione».3 Forse la fratellanza e l'aiuto reciproco si riveleranno ancora più grandi che nel periodo in cui erano presenti i monaci. La fecondità del martirio dei monaci supera largamente i confini di Tibhirine. La serie di assassinii di religiosi cristiani in Algeria (diciannove dal 1993 al 1996) si è conclusa con la morte dei monaci e di Pierre Claverie. A leggere certa stampa, questa testimonianza di fratellanza senza frontiere, di perdono e di non-violenza ha preparato gli spiriti a un lavoro di riconciliazione, non soltanto delle persone, ma anche delle idee, in uno sforzo di superamento degli strascichi di una storia nazionale tormentata. La pace e la riconciliazione sono proprio gli obbiettivi del documento che il Presidente Bouteflika ha sottoposto a referendum il 29 settembre 2005. Più del 97% degli elettori algerini ha approvato questo testo che mira a proseguire il disarmo degli estremisti implicati nelle violenze degli anni '90, garantendo l'amnistia per una gran parte di coloro che decideranno di consegnarsi. Questo programma di riconciliazione e di pace tra tutti gli algerini è considerato da alcuni come puramente opportunista e tattico. Senza dubbio le sue intenzioni e i suoi risultati non sono all'altezza della posta in gioco. Comunque sia, le prove sanguinose vissute dalla Chiesa d'Algeria, a fianco del popolo algerino, segneranno senza dubbio una nuova tappa verso la dissociazione del Cristianesimo dal fatto coloniale, che permetterà di distinguere meglio il dibattito teologico dalla lotta politica. Forse le ingiustizie e le sofferenze condivise incoraggeranno ad avvicinamenti inediti e scoperte? Giardino dei Martiri Il decimo anniversario della morte dei monaci di Tibhirine ci invita ad andare più in là, onorando le ultime volontà di Christian de Chergé, come sono espresse nel suo testamento spirituale. «Non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. È un prezzo troppo alto per quella che si chiamerà forse "la grazia del martirio" esserne debitore a un algerino, chiunque egli sarà, soprattutto se dirà di agire in osservanza a ciò che egli crede sia l'Islam». Christian de Chergé ci invita a perdonare e a «gettare lo sguardo in quello del Padre per contemplare con Lui i suoi figli dell'Islam come Egli li vede, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutti della Sua Passione, investiti dal Dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione e ristabilire la somiglianza giocando con le differenze». Questo sguardo del Padre manifestato in Gesù Cristo è lo sguardo di un Dio d'Amore di fratellanza e di perdono che chiama tutti gli uomini a vivere le parole del Salmo: «Amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno» [Sal 85,11]. I monaci di Tibhirine hanno amato i loro prossimi con le loro differenze di nazionalità, religione, ambiente sociale abitanti di un villaggio algerino, musulmani, di modeste condizioni proclamando la verità del Vangelo attraverso una vita di carità fraterna senza frontiere. La pace che avvolgeva il monastero che fu all'origine del villaggio era fondata sulla riconoscenza, l'ospitalità, l'aiuto reciproco e la cooperazione nel lavoro. La lotta contro il terrorismo è vana se si volge unicamente ai sintomi di un malessere che viene da una mancanza di amore e giustizia. La vita cristiana, che cerca la comunione nella preghiera, nel lavoro, nell'accoglienza e nel servizio disinteressati, offre una soluzione, la sola, per vivere da fratelli. «Che cosa resterà tra qualche mese si interrogava fra Paul, nel gennaio del 1995 della Chiesa d'Algeria, della sua visibilità, delle sue strutture, delle persone che la compongono? Poco, molto poco, probabilmente. Tuttavia credo che la Buona Novella sia seminata, il grano germoglia. [...] Lo Spirito è all'opera, lavora in profondità nei cuori degli uomini». Alla morte dei monaci una madre di famiglia algerina scrisse all'Arcivescovo di Algeri queste parole, che confermano, insieme ad altre, la speranza di Fra Paul: «Il nostro dovere proprio è di continuare il percorso di pace, di amore di Dio e degli uomini nelle loro differenze. Il nostro dovere è di alimentare sempre i granelli che i nostri monaci ci lasciano in eredità». Tibhirine che vuol dire "giardino" in lingua berbera non ha finito di fecondare la terra degli uomini. Questa luce è salutare per il nostro tempo. -------------------------------- 1. Lettera n. 5 dell'ufficio dell'Associazione degli Amici di Tibhirine, datata ottobre 2005. 2. Ibid. 3. Ibid.