Nella Persia del XIII secolo il famoso pensatore Nasir od-Din Tusi si interroga sui fondamenti della politica rileggendo il pensiero greco alla luce della tradizione islamica. I suoi testi continuano a essere studiati come un’alternativa al modello teocratico della wilāyat al-faqīh

Ultimo aggiornamento: 01/02/2022 08:44:24

Nasīr al-Dīn al-Tūsī (in persiano Khʷāje Nasir od-Din Tusi), filosofo e matematico, fu una personalità straordinaria della cultura islamica del XIII secolo. Le sue riflessioni sull’etica del potere, frutto dell’incrocio tra la tradizione greca e quella islamica, hanno goduto di enorme popolarità e continuano a essere studiate ancora oggi in Iran come una teoria sciita del potere politico alternativa rispetto al modello teocratico della wilāyat al-faqīh.

 

L’uragano mongolo

 

Nato a Tus, nell’odierno Iran, nel 1201, il filosofo persiano visse abbastanza a lungo per sperimentare l’amara condizione di esule, quando i mongoli di Gengis Khan distrussero la sua città natale, nel corso delle invasioni che a partire dal 1219 investirono la Persia e poi il resto del Medio Oriente. La sua famiglia professava segretamente lo sciismo duodecimano, ma nel corso dei suoi studi Tusi si avvicinò alla corrente gnostica e millenaristica di questo ramo dell’Islam, l’ismailismo nizarita, che all’epoca aveva costituito una potente organizzazione transnazionale, passata anche nelle cronache crociate con il nome di “Setta degli Assassini”.

 

Dopo vent’anni di studi nelle cittadelle segrete degli ismailiti arroccate sui monti che danno sul Mar Caspio, come quella leggendaria di Alamut, Tusi incontrò Hulagu, il potente capo mongolo incaricato dal successore di Gengis Khan di soggiogare i territori islamici. Già stanco dell’esoterismo ismailita, Tusi negoziò la resa dell’ultimo signore di Alamut, che non esitò a consegnarsi ai mongoli, nonostante gli ismailiti lo credessero dotato di carismi quasi divini. Passato al servizio di Hulagu, Tusi vide nel 1258 il crollo del califfato abbaside di Baghdad. I suoi avversari sunniti affermarono anzi che fosse stato proprio Tusi, che poi divenne stretto collaboratore e influente consigliere dei mongoli ilkhanidi, ad aver giocato un ruolo di primo piano nella caduta della città.

 

A Maragha, capitale dello Stato ilkhanide all’epoca non ancora musulmano, Tusi fece costruire il più avanzato osservatorio astronomico dell’epoca, per mezzo del quale poté realizzare importanti progressi in questa disciplina, beneficiando della collaborazione di studiosi non solo mediorientali, ma anche cinesi. Il pensatore passerà i suoi ultimi anni in qualità di fedele visir di Hulagu, seguendone gli spostamenti fino alla morte avvenuta a Baghdad nel 1274.

 

Oltre a trattati di trigonometria, astronomia e teologia, è ricordato soprattutto come autore del primo trattato di etica in persiano, “l’Etica di Nāsir” (Akhlāq-e Nāseri). Intitolata al suo primo mecenate, un comandante ismailita, e pubblicata nel 1235, l’opera si distingue dal genere degli “specchi per principi”, una forma di letteratura didascalica molto di moda all’epoca, ma dai contenuti piuttosto prevedibili e ripetitivi, al cui interno viene spesso collocata. Quella di Ṭusi è piuttosto una densa analisi teoretica sulla natura dello spirito umano, dei rapporti familiari e sulla struttura delle società, temi che si riflettono nella struttura tripartita del testo.

 

Tra sapienza greca e sensibilità islamica

 

Concepito originariamente come una traduzione in persiano del Tahdhīb al-akhlāq (“la purificazione dei costumi”) di Ibn Miskawayh (932-1030), un trattato arabo ispirato all’Etica Nicomachea, l’Akhlāq-e Nāseri fu ben presto ampliato fino a includere una teoria del potere e della società frutto dell’indagine personale dell’autore. Per la sua profondità, questo testo rimase alla base del genere del trattato filosofico di etica in lingua neopersiana per i secoli seguenti. Combinando la sapienza della filosofia greco-ellenistica con la sensibilità della tradizione islamica, Tusi si prefisse di rispondere alla domanda su quale sia il compito dell’intellettuale di corte e quali siano le condizioni di legittimità del potere che è chiamato a servire. Si potrebbe perciò leggere quest’opera come la base teorica della sua carriera politica. Per Tusi – commenta l’iranista francese Charles-Henri de Fouchécour – «la politica non è la morale, è una tecnica, funzionale alla realizzazione della via morale. Quando l’esercizio della politica è fatto in conformità con la Legge e la Ragione, allora diventa il “governo divino”, al punto che il principe non ha più necessità di esistere, ma ciò è solo un ideale»[1].

 

Il sovrano perfetto, legittimato e aiutato da Dio, assume i contorni dell’uomo perfetto (al-insān al-kāmil), che nella tradizione sciita è identificato con la figura dell’Imam. Seguendo una concezione persiana più che millenaria, anche per Tusi religione e regno sono “gemelli”, secondo la nota massima sasanide. Tuttavia, se il potere temporale non è nelle mani dell’Imam, come è il caso per gli sciiti a partire dall’Occultamento Maggiore del 941, occorre evitare che esso venga accaparrato dalla classe dei religiosi, per fondarsi invece sui canoni pratici (verrebbe quasi da dire “naturali”) della giustizia. Si tratta di una concezione ben lontana dalla wilāyat al-faqīh elaborata da Khomeini, secondo la quale, in assenza dell’imam, il potere deve passare al più dotto tra gli ulema.

 

Un umanesimo concreto

 

Ma come definire questa giustizia? Nel pensiero di Tusi non esiste una giustizia assoluta, a parte quella divina, ma ogni società può rappresentare un modello virtuoso di convivenza. Pur rispettando il primato teorico dell’Imam e pur mantenendo viva l’attesa del suo ritorno, Tusi si fa così interprete di un umanesimo concreto, come traspare dai passi che proponiamo di seguito. In essi il concetto di giustizia è applicato a situazioni concrete, come ad esempio la pena di morte, che l’autore arriva a rifiutare sulla base della considerazione di quella che oggi chiameremmo la dignità umana. Il filosofo persiano inoltre riflette su cosa leghi gli esseri umani tra di loro, e, notando una specificità della natura umana sfuggita ai suoi maestri Aristotele, Platone e al-Fārābī, precisa che il vero motivo del convenire insieme non è soltanto una convenienza rispetto al vivere da soli, quanto il fatto che gli uomini sono mossi da un bisogno fondamentale di amare e di essere amati. Quando questo amore non sia possibile, le società devono ricorrere a un surrogato “artificiale”, cioè le leggi e la giustizia umane. Il pensatore non resta dunque prigioniero della tradizione scolastica nel cui solco si colloca, ma volge uno sguardo concreto sull’umano, andando decisamente oltre la mera dimensione compilativa.

 

Abbiamo scelto perciò i testi dove questo sguardo appare più evidente ed attuale, come nell’affermazione che le persone non debbano per forza seguire la tradizione ma piuttosto vivere nel contesto contemporaneo con la sensibilità che questo richiede, oppure nel postulato di responsabilità dei governanti al benessere fisico e morale dei propri sudditi, posta persino come requisito di legittimità. Nelle parole di de Fouchécour, per Tusi «la saggezza pratica è di tutti i tempi ed è espressa dai saggi e dalla gente di esperienza, il cui sguardo si limita a seguire i giudizi della ragione e a ricercare ciò che sfugge ai cambiamenti e al declino dei popoli»[2].

 

Clicca qui per leggere gli estratti del Akhlāq-e Nāseri

 


[1] C.-H. de Fouchécour, Moralia: Les notions morales dans la littérature persane du 3e/9e au 7e/13e siècle, CulturesFrance 2006, p. 447.

[2] de Fouchécour, op. cit., p. 445