Intervista al professor Rachid Moktadir, ricercatore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Rabat, esperto di Islam politico, che interviene sulla galassia degli islamisti in Marocco e sulla transizione politica in corso.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:33

Intervista a Rachid Moktadir, ricercatore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Rabat

Come sono organizzati gli islamisti in Marocco?

In Marocco ci sono diversi partiti politici islamisti. Gli islamisti riformisti sono rappresentati dal PJD (Partito Giustizia e Sviluppo), guidati da Abdelilah Benkirane, il capo del Governo attuale, e dal MUR (Movimento dell’Unicità e della Riforma), che si interessa di tutto ciò che è politico e religioso allo stesso tempo. Vi sono due poli dunque all’interno del gruppo degli islamisti riformisti, ma tutti hanno cercato di integrare sulla scena politica le “regole del gioco”, che sono in particolare: la monarchia, l’Islam (non l’ideologia islamista, ma la religione islamica), l’unità del Marocco e, infine, la Costituzione del 2011 che ha iniziato a parlare di democrazia. 
Accanto agli islamisti riformisti, ci sono altre organizzazioni che lavorano fuori della scena politica e per questo, anche se sono molto forti, hanno dei problemi con la monarchia. Tra queste c’è l’Associazione della Giustizia e della Beneficienza, fondata da Abdessalam Yassin e oggi guidata da Mohammed Abbadi; il Movimento per la Nazione, guidato da Mohamed al-Marouani; il movimento ALCI (Alternativa Cittadina). Inoltre dal 2011 ci sono anche i salafiti, che non sono così influenti come in Egitto o in Tunisia, ma hanno un partito che si chiama Partito Rinascita e Virtù.

Come si colloca in questo contesto il PJD?

Il PJD è entrato nella scena politica marocchina nel 1997 e fino al 2011 ha vissuto tre esperienze parlamentari diverse. Nella prima (1997-2002) aveva solamente 12 parlamentari, durante la seconda (2002-2007) 42 e nell’ultima (2007-2011) è diventato il partito più consistente nell’opposizione. Queste esperienze hanno fatto in modo che il PJD si integrasse bene nel sistema esistente. Ma, nonostante il lavoro politico e parlamentare, restano alcuni problemi, il più consistente dei quali è il sovrapporsi di affari religiosi e politici. Ma per spiegare questo dobbiamo parlare del re. In Marocco il re ha un ruolo molto importante: è legittimato dalla Costituzione e dal punto di vista religioso in quanto Comandante dei Credenti (Amîr al-Mu’minîn). Il re dunque ha il monopolio degli affari religiosi. Così, il fatto che il PJD sovrapponga politica e religione ha creato molte tensioni ogni volta che si sono presentate nel dibattito parlamentare questioni al limite tra politica e religione, come per esempio la questione del velo.
Una fase molto importante della storia politica del PJD si è aperta dopo degli attentati del 2003 a Casablanca: allora diversi partiti, soprattutto i socialisti, hanno chiesto lo scioglimento del PJD, accusato di aver incoraggiato i terroristi, facendo appello alla responsabilità morale del partito. Il partito è stato quindi obbligato a fare diverse concessioni e ha dovuto indietreggiare per evitare il conflitto. Nel periodo di cui parliamo, dal 1997 al 2011, gli islamisti del PJD hanno attraversato due fasi della loro ideologia: la fase dell’integrazione della religione nella politica prima del 2003 e, a partire da questa data, una fase in cui hanno iniziato a sovrapporre meno i due ambiti, lasciando il primo al re. Quindi il vero conflitto che agita il PJD è con la monarchia e la sua legittimazione religiosa. Mentre la debolezza del partito è data dalla mancanza di un progetto politico definito e soprattutto di esperienza, dal momento che è sempre stato all’opposizione.

In Marocco non c’è stata la cosiddetta “primavera araba”. Le rivoluzioni hanno comunque avuto qualche effetto nel Paese? 

La primavera araba è un movimento che è nato contro il dispotismo, contro la corruzione e contro la mancanza di libertà, in un contesto in cui i governi non accettavano, oppure accettavano solo parzialmente, i partiti, ai quali non era concesso un ruolo sociale, né politico. L’opinione generale del PJD era contro la “primavera araba”. Anche in Marocco tuttavia dall’onda rivoluzionaria del 2011 è nato un movimento chiamato del “20 febbraio”, contro il dispotismo e contro la corruzione. Anche qualche membro del PJD ha manifestato con questo movimento. Per il partito comunque la “primavera araba” è stata vantaggiosa, dal momento che gli ha permesso di vincere le elezioni del 2011, prendere il potere e ottenere la presidenza del governo.

Quale la posizione e l’influenza del re? 

La “primavera araba” ha investito le leadership arabe, ha demolito una situazione politica e sociale rigida e immobile. Il punto forte del Marocco è che la monarchia ha avuto la capacità di comprendere il processo in atto e di reagire immediatamente. Lo si può cogliere attraverso il paragone tra il comportamento del re marocchino e quello del presidente tunisino o egiziano: c’è una grande differenza. Va considerato che il Marocco ha una lunga storia di confronto tra la monarchia e i partiti politici: ci sono state delle negoziazioni con i socialisti negli anni ’90, poi l’esperienza dell’alternanza al governo di partiti diversi. In seguito gli attentati del 2003 hanno segnato un passo indietro nel cammino di transizione democratica, ma con il suo discorso del 9 maggio 2011 il re Mohammed VI ha proposto un nuovo piano di riforme e una nuova costituzione, ben accetti sia dai partiti che dal movimento “20 febbraio”. Questo ha rinforzato di fatto il re, al contrario di quanto accaduto a Mubarak in Egitto e a Ben Ali in Tunisia, che non avevano compreso la dinamica in corso. Quello che ha “salvato” il Marocco è stato il processo di transizione democratica cominciato negli anni ’90 e l’iniziativa del re. Se il re non avesse reagito, forse saremmo nella stessa situazione dell’Egitto.

Quali sono i cambiamenti portati dalle riforme del 2011 in Marocco?

La domanda che ci si è posti a partire dal 2011 è stata: come applicare la democrazia in Marocco? Uno dei punti forti è il governo di coalizione. Inoltre la nuova costituzione ha dato delle garanzie all’opposizione dal punto di vista legislativo, come la regionalizzazione, la lotta per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, per esempio con l’introduzione della quota rosa nell’ambito politico e la rivalutazione del ruolo della donna in politica.
Ma il governo attuale ha commesso anche degli errori. Si è dato degli obiettivi che non ha saputo realizzare. Infatti il problema del PJD e di Benkirane è che non hanno una vera e propria esperienza governativa. Un elemento spesso dimenticato nelle analisi politiche è che nei paesi arabi c’è stata un’invisibile interiorizzazione della cultura politica autoritaria. I Fratelli Musulmani in Egitto hanno preso tutti i poteri, ma la fine di questa transizione è stata catastrofica. È impossibile governare con la forza; si governa con la legge. L’esercito utilizza per definizione la forza e la violenza, ma è impossibile ottenere la democrazia con la violenza. Tutte le teorie sulla transizione democratica parlano ovviamente di periodi complessi, perché non ci sono attori che abbiano legittimità. La cosa più importante in queste fasi difficili è essere disponibili a raggiungere compromessi politici storici.

Come mai, invece, l’esperienza tunisina sembra essere più stabile?

La caratteristica della Tunisia è la stessa del Marocco: sono due stati moderni con all’interno molte culture. Prima della primavera araba, la Tunisia era governata dalla polizia, ma il suo punto forte è che an-Nahda ha preso il potere in una coalizione, la troïka. Questo è un elemento molto importante perché oggi, nonostante tutte le manifestazioni, le opposizioni e i terroristi, la situazione è piuttosto stabile. Il motivo, io credo, è che l’élite di en-Nahda ha vissuto e studiato in Europa, dove ha respirato la cultura europea, cosa che ha arricchito il suo modo di guardare alla situazione. La differenza più grande tra an-Nahda e i Fratelli Musulmani è che gli egiziani hanno dei problemi con la democrazia, cosa che an-Nahda non ha mai avuto, nell’ambito della questione femminile e della leadership. La Tunisia è simile al Marocco: ha una mentalità più aperta, mentre i Fratelli sono molto chiusi. Da questo punto di vista l’Europa ha giocato un ruolo fondamentale: malgrado tutto, se siamo quasi democratici lo dobbiamo anche all’Europa.

a cura di Francesca Miglo