Nello Stato fondato da Atatürk si assiste oggi a un “ritorno di Dio” nella sfera pubblica, esito non calcolato di tre fattori

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:57

Turchia. Nello Stato fondato da Atatürk si assiste oggi a un “ritorno di Dio” nella sfera pubblica, esito non calcolato di tre fattori: la democratizzazione, la fecondazione reciproca tra voci secolari e islamiche, la sorprendente crescita economica. Un processo che sta scatenando forti tensioni sociali.

Chi dice secolarizzazione dice innanzitutto un processo radicato nella storia del Cristianesimo europeo. La categoria si è sviluppata a partire da un grande dibattito intra-cristiano, incentrato soprattutto sul divario tra il discorso religioso e la pratica religiosa, tra la predicazione e i comportamenti pratici. Da tale dibattito emersero due modi di concepire la vita sociale e politica: una influenzata dalla religione, ciò che chiamiamo oggi diritto naturale, e l’altra basata sull’idea che fosse possibile creare un nuovo ordine politico «come se Dio non ci fosse».

Nate in Europa, le idee e le istituzioni secolari oltrepassarono i suoi confini. Nel XVIII e nel XIX secolo, esse furono considerate la soluzione al declino dell’Impero Ottomano e la chiave per la modernizzazione delle sue strutture, da quelle statali a quelle educative. Secolarizzazione divenne così una parola d’ordine. Per diventare moderni era necessario secolarizzarsi, e per secolarizzarsi occorreva prendere le distanze dalla religione e dalla rivelazione. Tra la fine dell’epoca ottomana e l’inizio dell’era repubblicana Mustafa Kemal Atatürk svolse un ruolo fondamentale nel forzare l’intero sistema in una cornice secolare basata sul conflitto tra rivelazione e ragione.

 

I cinque pilastri dell'Islam turco

Tuttavia, per comprendere veramente questo processo, è necessario richiamare brevemente le specificità di quello che chiamerei l’Islam turco. Sono infatti tali specificità ad aver facilitato l’evoluzione della Turchia in senso secolare. L’Islam turco è il risultato della convergenza di cinque importanti fattori:

a) Prima di tutto la convinzione che gli aspetti etici e personali dell’Islam siano più importanti di quelli legali.

b) In secondo luogo va considerato il peso del sufismo e il ruolo svolto dagli ordini e dalle reti mistiche nella costruzione di un particolare ordine sociale e nelle attività economiche. Tradizionalmente, le confraternite sufi hanno permesso un’interazione dialettica nei confronti del sultano ottomano. La loro forma di religiosità perciò era più suscettibile di dar vita a un Islam civile o a un Islam sociale. A differenza per esempio di quello saudita, l’Islam turco è poi un Islam di frontiera perché l’Impero ottomano ha sempre cercato di estendersi verso Occidente. La condizione di frontiera è stata un elemento importante della tensione tra ortodossia ed eterodossia, tra una concezione imposta dallo Stato e la visione propria degli ordini sufi e ha permesso la conversione dei cristiani balcanici attraverso la formulazione di una versione più accomodante dell’Islam.

c) Nel contesto turco l’Islam è parte dell’identità nazionale. Essere turco presuppone infatti un’appartenenza islamica, tanto è vero che le persone di religione islamica ma di etnia bosgnacca, albanese, montenegrina, serba, ecc. ottengono facilmente la cittadinanza turca. L’Islam è un collante che unisce le diverse componenti della popolazione.

d) Non va sottovalutato il fatto che, a differenza dei Paesi arabi o dell’Asia meridionale, la Turchia non è mai stata colonizzata e questo ha fatto sì che nel Paese non si sviluppasse una mentalità “dell’assedio”.

e) Infine, il quinto importante fattore della definizione dell’Islam turco è il fatto che in Anatolia non c’è petrolio (grazie a Dio!).

Questi elementi hanno dato vita recentemente a un Islam fondato sul dinamismo della borghesia e delle nuove classi medie. Gli architetti della prima Turchia kemalista erano i generali e la burocrazia formatasi in Europa e in particolare nel sistema educativo francese. L’architetto della nuova Turchia è invece la borghesia islamica conservatrice che ha trasformato le reti sufi in reti commerciali e per la quale il jihad non si fa più in politica ma nel mercato, nel bazar. Il mercato e il capitalismo diventano elementi importanti, ciò che spiega perché i musulmani turchi, più che i laicisti kemalisti, sono favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea, vista come il principale partner commerciale del Paese. Un esempio emblematico dell’Islam turco è il movimento Gülen e la sua rete di imprese e istituzioni scolastiche diffuse oltre che in Turchia anche nei Paesi africani, negli Stati Uniti e in Europa.

 

Analfabetismo religioso

Questo tipo di religiosità è perciò profondamente modellata dal contesto economico e sociale turco, ma allo stesso tempo partecipa della crisi generale dell’Islam, anche se in maniera più attenuata. Questa crisi è particolarmente evidente in due fenomeni. Il primo è l’analfabetismo religioso, per illustrare il quale mi limiterò a un semplice esempio: in Turchia, per entrare all’università bisogna superare un test. Le università più gettonate sono quelle di tipo scientifico (medicina, ingegneria), mentre gli studenti che ottengono i punteggi più bassi ripiegano di solito sulle facoltà teologiche, con evidenti ricadute sulla qualità dell’insegnamento religioso. L’altro grande sintomo della crisi dell’Islam è la frammentazione dell’autorità religiosa, perché oggi le istituzioni religiose o sono troppo legate allo Stato o sono totalmente dipendenti da fattori esterni. In entrambi i fenomeni l’Islam wahhabita gioca purtroppo un ruolo fondamentale.

La crisi dell’Islam è simile alla crisi medievale della Chiesa cattolica, che ebbe tra i suoi esiti l’inizio del processo di secolarizzazione. E tuttavia, anche se non so quale soluzione emergerà dall’attuale crisi dell’Islam, non credo che sarà la soluzione secolare. Se prendiamo in considerazione la relazione tra Islam e secolarizzazione, possiamo constatare che i musulmani hanno al riguardo posizioni diverse. Un gruppo considera la secolarizzazione alla stregua della bid‘a [innovazione biasimevole, N.d.R.] o del kufr [miscredenza, N.d.R.] e la rifiutano in quanto prodotto europeo che punta a distruggere l’Islam. Il secondo gruppo considera il secolarismo un elemento necessario ma non sufficiente e mette in risalto l’interazione tra secolarismo e Islam tentando una sintesi. Il terzo gruppo, ben rappresentato dallo studioso sudanese Abdullahi Ahmed an-Na‘im, crede che il secolarismo sia necessario per l’Islam e che la sharî‘a non debba essere imposta dallo Stato. Per costoro, affinché l’Islam possa fiorire lo Stato deve essere laico, ma la politica può essere religiosa. Oltre a queste tre posizioni vi è poi la prospettiva laicista-giacobina, che considera la secolarizzazione come libertà dalla religione piuttosto che come libertà di religione. Tale visione è ancora dominante in alcuni ambienti turchi, ma sta perdendo terreno. Nell’evoluzione attuale crescono invece le persone favorevoli a una sintesi tra la secolarizzazione e l’Islam. Esse ritengono che l’Islam faccia parte dell’identità nazionale, ma che esso dovrebbe definire i tratti della società più che dello Stato. Questo genere di persone è favorevole all’intervento dello Stato nell’educazione religiosa e ritiene che l’Islam, la moralità islamica e le reti islamiche debbano essere mobilitati per rafforzare lo Stato turco. Questa posizione ha anche una dimensione pan-islamica, la quale implica che l’Islam abbia un ruolo nella politica estera turca e nella protezione delle comunità islamiche dei Balcani, una convinzione che si è fatta strada soprattutto dopo il genocidio perpetrato in Bosnia-Erzegovina.

 

Più democrazia, più  Islam

In sintesi il risultato di questo movimento è che la Turchia sta diventando più democratica, più forte economicamente ma anche più islamica. Ciò significa che la modernizzazione politica ed economica non implica un’eclissi della religione. Assistiamo al contrario a un ritorno di Dio e dell’Islam nella sfera pubblica turca come risultato di tre vettori di trasformazione. Innanzitutto la democratizzazione, che aumenta la partecipazione pubblica delle masse e permette l’espressione delle voci islamiche. Nel caso turco tuttavia ciò non coincide con una richiesta di applicazione della sharî‘a, perché, come ho dimostrato in una mia recente ricerca[1], il dibattito pubblico relativo all’Islam verte più sulle questioni etiche ed economiche e sui principi universali che sull’imposizione della sharî‘a, un tema che non è all’ordine del giorno nemmeno per il partito d’ispirazione islamica Giustizia e Sviluppo (AKP). Il secondo vettore di trasformazione è l’allargamento della sfera pubblica, permesso dal fatto che le voci secolari si stanno islamizzando mentre quelle islamiche si stanno secolarizzando, in una fecondazione reciproca che rende ragione all’idea di Habermas secondo cui l’onere della traduzione delle proprie visioni in un linguaggio universalmente comprensibile ricade sia sui soggetti religiosi che su quelli non religiosi. Il terzo asse è l’economia, e la sorprendente crescita economica (basti dire che dal 2002 a oggi il valore delle esportazioni turche è passato da 30 a 180 miliardi di dollari) a cui hanno contribuito le reti economiche a base religiosa, le quali a loro volta sono state trasformate dalla crescita economica in una dinamica che vede allo stesso tempo la religione penetrare nel processo di modernizzazione ed essere penetrata da tale processo.

Queste considerazioni dimostrano che l’esclusione della Turchia dall’allargamento europeo per motivi religiosi (perché onestamente non si vedono altre ragioni plausibili) è un grosso errore. Nonostante la persistenza di alcuni problemi, l’economia e la democrazia sono di gran lunga più avanzate in Turchia che in altri Paesi europei. Neppure i recenti fatti di piazza Taksim possono mettere in discussione i progressi del processo di democratizzazione, né possono essere assimilati alla Primavera araba. Le persone che hanno manifestato non sono né anti-democratiche, né anti-capitaliste, ma sono critiche di una certa visione della democrazia e di una certa visione del capitalismo. Quanto alla democrazia, esse sono contrarie a una democrazia maggioritaria, ridotta al solo momento elettorale. Esse vogliono una democrazia più attenta al dibattito pubblico, che consenta una partecipazione più regolare e che non si limiti al governo della maggioranza  ma offra le dovute garanzie alle minoranze. Quanto al capitalismo, i manifestanti criticano soprattutto la disattenzione verso i problemi ambientali. Peraltro, la maggior parte dei dimostranti di piazza Taksim non proviene dalle classi meno abbienti, ma dalle famiglie della borghesia medio-alta. Hanno visioni del mondo diverse, ritengono che l’Islam istituzionale, e in particolare il Direttorato degli Affari religiosi, sia incapace di produrre idee e discorsi e non riesca a catturare l’immaginazione dei giovani. Per questo si rivolgono più facilmente alle forme di Islam neo-sufi, molto spesso influenzate dalla new-age.

Quanto sta accadendo in Turchia insomma non è una crisi, ma l’espressione di un dibattito o se si vuole di una tensione interna al Paese: tensione tra il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro, tensione tra il 50% dei turchi, che sostiene il Primo Ministro e il resto della popolazione, che ha una visione diversa di che cosa è la vita buona. È un dibattito morale, politico e intellettuale, ma non è una crisi.

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[1] Cfr. Hakan Yavuz, Turkey: Islam without Shari‘a?, in Robert W. Hefner, Shari‘a Politics. Islamic Law and Society in the modern World, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis 2011, 146-178.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Hakan Yavuz, Se il jihad si combatte nel bazar, «Oasis», anno IX, n. 18, dicembre 2013, pp. 50-52.

 

Riferimento al formato digitale:

Hakan Yavuz, Se il jihad si combatte nel bazar, «Oasis» [online], pubblicato il 1 dicembre 2013, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/turchia-islam-e-democrazia.

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