Turchia/ Per la sua capacità di combinare repubblica, laicità e Islam, il cosiddetto “modello turco” ispira alcuni dei protagonisti della transizione araba e gode di un’immagine positiva a livello internazionale. Eppure il tentativo di definirne le componenti salienti lascia emergere la sua non esportabilità e i suoi limiti.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:37

Il “modello turco” sembra essere stato plasmato allo stesso tempo dal passato politico della Turchia e dalle profonde evoluzioni attraversate oggi dal regime. Innanzitutto, l’erede dell’Impero ottomano si distingue dal resto del mondo islamico per la sua laicità[1]. Dalla guerra d’indipendenza (1919-1923) condotta da Mustafa Kemal Atatürk, nasce la Repubblica turca, regime che va progressivamente inspirandosi agli Stati nazione occidentali e in particolare al modello laico francese. Il suo fondatore, che intende portare a termine una rivoluzione non solo politica ma anche sociale e culturale, dà avvio a tutta una serie di riforme: le Atatürk İnkılapları o “rivoluzioni kemaliste”. Così, dal 1923 al 1948, nel corso del suo processo di democratizzazione e di laicizzazione, la Turchia subisce profondi mutamenti sotto l’egida del partito unico kemalista, il partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi). Nel 1950 il partito democratico (Demokrat Partisi) vince le elezioni e instrada la Turchia sulla via di una liberalizzazione spinta. Il 1960 è l’anno del primo colpo di Stato, in seguito al quale viene sciolto il Partito Democratico. Ne seguono altri (1971, 1980), l’ultimo dei quali è quello del 28 febbraio 1997, che, diretto contro la formazione politica di tendenza religiosa, il partito Refah, allora al governo, inaugura nella storia politica internazionale il concetto di colpo di Stato “post-moderno”[2]. A partire dagli anni ’50, con l’attenuazione della laicità dello Stato, vedono la luce alcuni partiti di ispirazione islamica. Essi restano tuttavia sotto la sorveglianza dei “guardiani” della Repubblica e vengono sciolti uno dopo l’altro. Tali divieti non impediranno comunque la creazione di nuove formazioni politiche che si inseriscono nella stesso filone ideologico. Le ispirazioni originarie Questo periodo, in cui si succedono nascite e scioglimenti di partiti politici islamici, termina con l’era dell’AKP (o AK Partisi), il “partito della giustizia e dello sviluppo”, apparso dopo lo scioglimento del partito Refah. Dal suo arrivo al potere nel 2002, l’AKP è riuscito a sopravvivere nella vita politica turca benché contro di esso sia stata avviata nel 2008 una procedura di messa al bando per “attentato alla laicità”[3]. Secondo l’ideologia kemalista, più di un principio fondamentale della Repubblica turca era stato infranto dal partito al potere (dichiarazioni a favore del velo nelle università, etc.)[4]. Colpo di scena nel luglio 2008: mentre i principali dirigenti del partito venivano minacciati di divieto politico in un clima di alta tensione, la Corte costituzionale turca prendeva “semplicemente” la decisione di ridurre in modo drastico le sovvenzioni statali all’AKP, in deroga quindi alla vecchia abitudine laica di interdizione dei partiti politici seguita fino a quel momento dai “guardiani” della Repubblica. Una nuova era si apriva per la Turchia repubblicana: il modello turco era ormai una realtà. L’espressione “modello turco” designa oggi in generale la “linea politica” dell’AKP, che resta difficile da definire con precisione. Pur inserendosi nella tradizione dei partiti islamici, allo stesso tempo l’AKP se ne allontana, traendo la propria originalità dal tentativo – reale o presunto – di adattarsi alle condizioni di uno Stato laico e repubblicano. Decisamente islamico nel suo orientamento di fondo, il partito della giustizia e dello sviluppo sostiene l’adattamento della democrazia e della religione al caso turco. Definendolo “democratico conservatore”, Tayyip Erdoğan, leader del partito, sembra volerlo distinguere dai movimenti islamici radicali: «Siamo un partito democratico conservatore. La nostra formazione non si fonda né su basi religiose né su basi etniche»[5]. Il modello turco è dunque caratterizzato da un Islam moderato in grado di assicurare la compatibilità tra l’Islam e la democrazia. A rappresentare una novità è l’alleanza tra questi due elementi, incarnata da una formazione politica di un Paese certamente “laico” ma musulmano. Ma questa innovazione è stata prodotta anche da alcune “rotture”. Rotture e discontinuità La prima rottura da attribuire all’AKP riguarda la vita politica: l’esercito, il quale svolgeva il ruolo di garante ufficiale della Repubblica laica – e che dunque, paradossalmente, si proclamava pilastro della democrazia – si è visto spogliare dal partito di questa funzione, trasferita al corpo politico, cioè alla nazione, attraverso “il ritorno dei militari nelle caserme” e quindi il crollo della loro influenza all’interno del sistema politico turco. La Costituzione, prodotta dalla giunta del 1980, accordava ampie prerogative all’istituzione militare. Al suo arrivo al potere, l’AKP si impegnò ad adottare una serie di misure di democratizzazione, come la soppressione del Consiglio militare, ma anche l’elaborazione di una nuova Costituzione. Questo primo elemento di rottura sembra essere stato reso possibile dal fatto che l’AKP, contro ogni attesa, puntò con forza sul processo di adesione della Turchia all’Unione Europea. Infatti, tanto il partito Refah non nascondeva le sue reticenze verso questo “club cristiano” e “vecchio colonizzatore”, tanto l’AKP ha moltiplicato i suoi sforzi per la ripresa dei negoziati, a costo di affrontare alcuni tabù della vita politica turca: questione curda, cipriota, armena… Erdoğan fa così adottare a tappe forzate le riforme chieste da Bruxelles per l’apertura dei negoziati di adesione. Accumula “pacchetti” legislativi e lavora per dare l’immagine di un Paese completamente mobilitato per la modernizzazione. Il governo esprime pienamente il “desiderio di Europa” del popolo, il quale dal 2002 gli ha sempre rinnovato la fiducia. L’AKP, che ha visto così legittimato un programma orientato verso la democratizzazione necessaria all’entrata nell’UE, ha potuto dedicarsi alle “forze vive” della tradizione kemalista laica, al primo posto delle quali figura l’esercito. In questo modo esso rafforza la sua posizione nel sistema mentre si consolidano le sue protezioni contro i vecchi meccanismi della vita politica turca. Peraltro, mettendo sul tappeto i dossier sensibili per la Turchia, l’AKP contribuisce ad aprire il dibattito su queste questioni spinose. Incarnando una dinamica viva di cambiamento, che trova nell’obiettivo della democratizzazione un surplus di credibilità, l’AKP ha verosimilmente dato il suo apporto a una doppia trasformazione: cambiamento di una certa ideologia della società turca ed evoluzione della sua immagine nel mondo occidentale. La seconda rottura operata dall’AKP si situa su un asse che, per essere “islamico”, non è meno distante dal discorso tradizionale di altri attori o movimenti politici dell’Islam, costituito dalla demonizzazione – benché relativa – dell’Occidente. Attingendo a quanto di positivo hanno i valori dell’Occidente, e in particolare alla loro capacità d’ispirare una laicità meno brutale, una modernità “alternativa” rispettosa delle differenze e una democrazia effettiva che assicura le libertà collettive e individuali, l’AKP può vantare lo sforzo di superare il preteso antagonismo tra l’Islam e l’Occidente, integrando così nel sistema politico la componente islamica della società turca. Tale adesione soddisfa anche le attese di ascesa socio-economica degli attori islamici. Negli ultimi anni infatti la Turchia repubblicana ha assistito alla formazione di una vera borghesia islamica (le “tigri anatoliche”) fedele agli obblighi religiosi, favorevole alle concessioni alla laicità che l’Islam può accogliere[6], ma anche agente della rottura politica intrapresa dall’AKP. L’alleanza tra l’identità laica e quella religiosa La Turchia è preda di una tensione permanente tra la sua componente laica e quella che si riconosce maggiormente in un’identità religiosa. Lo dimostra il caso del sindacato musulmano (MÜSAID[7]), aggiuntosi al tradizionale sindacato turco (TÜSAID), o quello delle nuove reti sociali e politiche della comunità islamica. La formula sostenuta dall’AKP, tuttavia, consiste nell’unificare questi due elementi della società. L’identità musulmana, talvolta ostentata, del partito o di certi gruppi che si riconoscono nella sua linea politica non sembra impedire l’apertura ad altri aspetti rappresentativi della Turchia. Negli ultimi anni il Paese è riuscito a compiere una “rivoluzione” che è consistita nel far valere la propria identità religiosa pur restando aperto alla laicità; in altri termini a stabilire un’alleanza tra identità laica e identità religiosa. L’AKP si presenta dunque a sua volta come promotore di quel ponte tra Occidente e Oriente, rappresentato dal “modello turco”, votato a diventare crocevia di civiltà. Forte di questo risultato, il governo turco ha sviluppato la sua politica estera: da un lato porta avanti i negoziati in vista dell’adesione all’Unione Europea, procedendo nelle riforme richieste dal processo di democratizzazione; dall’altro si impegna a riprendere o intensificare le sue relazioni con i Paesi musulmani della regione, giocando la carta di una cultura islamica comune. Il partito moltiplica le iniziative economiche e politiche per ridar lustro al blasone dell’unità della comunità islamica. In questa strategia, elaborata principalmente dall’attuale ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu[8], la parola d’ordine è “l’assenza totale di problemi con i vicini” (riallacciamento delle relazioni con i “vecchi” avversari come la Grecia, l’Armenia, intensificazione delle relazioni con la Siria, Israele) e l’affermazione di un ruolo geostrategico abbastanza forte da garantire la stabilità della regione[9]. Questa linea può consentire il raggiungimento di alcuni obiettivi puramente pragmatici: l’equilibrio raggiunto non solo favorirà lo sviluppo di scambi economici stabili con questi Paesi, ma renderà la Turchia un interlocutore obbligato. La Turchia, dunque, punta evidentemente a conquistare per gradi il rango prima di nuova potenza regionale e poi internazionale[10]. Tuttavia, si può constatare che questa politica estera ha dovuto fare i conti con realtà fondate su equilibri fragili e condizionate da diversi parametri: la questione armena pesa sulle relazioni timidamente riallacciate con l’Armenia, la questione curda e la questione palestinese interferiscono nei rapporti con l’Iraq con Israele, e tutto questo mentre sullo sfondo imperversa la crisi in Siria. Peraltro, questi stessi Paesi, che hanno pagato caro il dominio turco, manifestano non poche reticenze di fronte a questa espansione “neo-ottomana”. Potrebbe infatti essere questo il motivo nascosto che si cela dietro il desiderio di diventare una potenza mediatrice in grado di garantire la stabilità della regione. Una stessa diffidenza si profila negli ambienti occidentali, i quali colgono l’islamizzazione della politica estera di Ankara e la stagnazione delle relazioni con l’Unione Europea[11]. Se il piano “zero problemi con i vicini” sembra soffrire di alcune lacune, sarebbe tuttavia esagerato parlare di un fallimento in materia di politica estera, dal momento che la Turchia gode presso la “strada” araba[12] di un grande prestigio non solo per le sue prese di posizione, in particolare sulla questione sensibile della Palestina, ma anche come potenza economica con una crescita tale da renderla un polo d’attrazione importante della regione. Garantendo l’emersione di una “borghesia devota”, formata da artigiani e commercianti di provincia, da piccoli e medi imprenditori dell’Anatolia, sia datori di lavoro che lavoratori dipendenti, e facendo leva su giovani quadri intermedi di livello universitario, formati in particolare negli ambiti tecnici, l’AKP è riuscito a dare una sferzata all’economia turca. Questa nuova classe industriale, rivale della borghesia turca classica, si lancia alla conquista di nuovi mercati medio-orientali, caucasici, asiatici o africani, affiancando la politica estera turca che investe in queste zone. La politica estera turca, infatti, lungi dal limitarsi all’ambiente geopolitico immediato del Paese, punta, conformemente alla concezione di una diplomazia multidimensionale e multiregionale elaborata da Ahmet Davutoğlu, a diverse aree, tra le quali la Russia, i Paesi turcofoni, la Cina, l’America Latina, l’Africa. Sospinta dalla sua dinamica economica, la riuscita della Turchia consiste nel tenere conto della nuova configurazione internazionale, attraversata da profonde mutazioni, e a integrare questi diversi parametri nella sua politica estera[13]. La Primavera araba ha fornito alla Turchia l’occasione di osservare i risultati del processo di cambiamento al quale essa stessa aveva contribuito attraverso azioni diverse, sia politiche che economiche. In questo prospettiva, essa ha potuto costituire un “modello”. Paesi alla ricerca di uno sviluppo sociale ed economico si rivolgono a questo Stato a forte crescita. Avendo fatto i suoi esperimenti di modernizzazione sotto l’egida di un partito che si rifà a una cultura sicuramente religiosa ma al contempo democratica, la Turchia non mancherà di ispirare il mondo arabo, lanciato dalle rivoluzioni sulla via di una ristrutturazione politica nella quale si scorge il desiderio di superare non solo gli autoritarismi nazionali ma anche l’Islam politico radicale. Tuttavia, passati i primi entusiasmi, i diversi soggetti hanno dovuto arrendersi all’evidenza: troppe difficoltà legate all’Islam stesso fanno sì che il modello turco possa essere esportato solo parzialmente, dal momento che la cultura araba e quella turca possono incontrarsi solo sul sentimento della comune appartenenza islamica. Per esempio, alcuni partiti politici del mondo arabo possono anche dichiarare di ispirarsi alle stesse dinamiche che hanno reso possibile il successo dell’AKP, e affermare la possibilità di un’alleanza tra Islam e democrazia, ma sembra difficile dire se si impegneranno in riforme sociopolitiche di fondo. Non bisogna tuttavia cercare in questa identificazione dei partiti islamici con l’AKP una volontà di legittimazione che nasconde “un’agenda segreta”. Tale identificazione potrebbe effettivamente innescare un processo di “normalizzazione” di questi partiti attraverso il loro ingresso nel sistema politico. Se sono in tanti a interrogarsi sul contenuto del modello turco, è perché tale modello è frutto di una storia particolare, durante la quale la Turchia ha perseverato nella sua tradizione di scambio tra la modernità e la tradizione musulmana. Un prêt-à-porter politico? Diversi elementi caratterizzano il modello turco: da un punto di vista politico una forte identità islamica capace di sostenere il peso di un Paese che può garantire i principi laici e il rispetto di uno Stato di diritto; un partito islamico, l’AKP, ugualmente aperto alla gestione della modernità in un Paese dalle tendenze variegate; una rivoluzione che si è svolta pacificamente, con il potere militare che ha accettato di sottomettersi alla democrazia. E per quanto riguarda gli aspetti culturali e sociali, complementi della politica internazionale della Turchia, una politica culturale ed economica verso i Paesi musulmani vicini volta alla riconfigurazione del panorama politico regionale. Attraverso questi aspetti politiche, sociali, economiche e culturali, la Turchia si presenta in realtà più come un polo regionale che come un modello vero e proprio. L’AKP non offre veramente un modello politico alternativo: è innanzitutto un partito liberale, un tratto che salta agli occhi se si considera l’applicazione di numerose politiche di privatizzazione nel Paese. In ogni caso, modello o polo d’attrazione, questo Paese continuerà ad essere uno dei protagonisti della politica mediorientale.


[1] L’articolo 3 della Costituzione stabilisce che «[la Repubblica turca] è uno Stato democratico di diritto, laico e sociale». [2] L’espressione è stata utilizzata la prima volta dal giornalista Cengiz Çandar, sul quotidiano turco Sabah del 13 giugno 1997 (Postmodern bir akeri müdahale, “Un intervento militare post-moderno”). Essa fa riferimento all’intervento dei militari nella politica senza ricorso all’occupazione del Paese da parte delle Forze armate: il 28 febbraio 1997, il Consiglio militare (Milli Güvenlik Kurulu, “Consiglio nazionale di sicurezza”) “informa”, il governo dell’epoca (il partito Refah) di misure – cioè gliele impone – che puntano a combattere “forze islamiste in espansione” nel Paese. Il partito Refah rassegna le dimissioni e viene sciolto il 16 gennaio 1998. [3] I principi fondamentali del partito di Atatürk, chiamati “le sei frecce”, sono il nazionalismo, il populismo, la democrazia, la laicità, il patriottismo, la rivoluzione. [4] Gülçin Erdi Lelandais, L’énigme de l’AKP: regards sur la crise politique en Turquie, «Politique étrangère» (2007). [5] Tayyip Erdoğan, discorso del 12 ottobre 2003. [6] Dilek Yankaya, Un conflit patronal et ses enjeux culturels: la bourgeoisie laïque versus la bourgeoisie islamique en Turquie : http://www.iris-france.org/docs/kfm_docs/docs/observatoire-turquie/2012-05-un-conflit-patronal-et-ses-enjeux-culturels.pdf. [7] Cfr. www.musiad.tr/en [8] Gérard Croc, Une nouvelle diplomatie turque. Présentation critique de la doctrine Davutoğlu à partir de son livre Profondeur stratégique et de quelques autres textes : http://www.iris-france.org/docs/kfm_docs/docs/observatoire-turquie/2011-12-08-grard-groc---nouvelle-diplo-turque.pdf. [9] Nikolaos Raptopoulos, Rediscovering its Arab neighbours? The AKP imprint on Turkish Foreign Policy in the Middle East, «Les Cahiers du RMES» 1 (juillet 2004). [10] Umit Yazmaci, La politique extérieure de l’AKP: entre héritage ottoman et tradition républicaine, «Moyen-Orient» 9 (janvier - mars 2011). [11] Didier Billion, Une nouvelle politique extérieure de la Turquie… vous avez dit nouvelle?: http://www.iris-france.org/docs/kfm_docs/docs/observatoire-turquie/2010-09-08-policy-paper-db.pdf [12] Sugli sguardi incrociati ci si riferirà a : http://www.tesev.org.tr/tr/yayin/ortadoguda-turkiye-algisi-2011 ; http://www.tesev.org.tr/tr/yayin/arap-dunyasinda-turkiyenin-imaji [13] Didier Billon, Une nouvelle politique extérieure …

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