La catastrofe che si sta consumando tra Gaza e Israele è anche il frutto di una lunga rimozione, di cui hanno finito per beneficiare gli estremismi. Urge impedire una tragedia più grande

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:55:50

Problemi e crisi che vengono rimossi, insegnava Freud, rischiano di ripresentarsi in forme aggravate o addirittura patologiche. Trasferendo tale dinamica dalla psiche alla politica mediorientale, si può dire che così è stato per la questione israelo-palestinese, riesplosa in modo parossistico il 7 ottobre scorso con l’abominevole attacco di Hamas e la conseguente, brutale, ritorsione israeliana.

 

Già nel 1968 la diva libanese Fayrouz e i suoi geniali parolieri, i fratelli Rahbani, avevano messo in musica l’inerzia e il cinismo della comunità internazionale davanti alla sorte dei palestinesi, denunciando la realtà di una “questione” che vaga inutilmente tra tribunali e commissioni internazionali.

 

Naufragati gli Accordi di Oslo, di cui ricorreva un mese fa il trentesimo anniversario, è progressivamente calato il sipario anche su questa pantomima. Più recentemente, la rimozione del problema si è manifestata nella variante degli “Accordi di Abramo”. Il nuovo paradigma, introdotto dall’amministrazione Trump e inaugurato dagli Emirati Arabi Uniti, seguiti a ruota da altri tre Stati più o meno convinti dello storico passo, prevedeva una normalizzazione generalizzata tra Stati arabi e Israele, a prescindere da una soluzione davvero soddisfacente per i palestinesi. Nella migliore delle ipotesi, tutta da dimostrare, anche loro avrebbero ultimamente beneficiato di un Medio Oriente trasformato in una regione prospera e stabile dalla pacificazione tra i nemici di un tempo. Nei fatti, questo processo ha offerto all’Iran, che più di un indizio porta a considerare il mandante dell’attacco, la possibilità di presentarsi come l’unico paladino della causa palestinese sul piano regionale.

 

Dal lato israeliano, l’inossidabile Benjamin Netanyahu aveva fatto del congelamento del dossier un caposaldo della sua politica. La parola d’ordine era Status Quo, che poi era tale solo in apparenza: metro dopo metro, casa dopo casa, per anni lo Stato d’Israele ha metodicamente perseguito una politica di espansione territoriale, arrivando a pianificare l’accaparramento di buona parte del complesso di al-Aqsa (un luogo dall’altissimo valore simbolico, come indica il nome scelto da Hamas per il suo attacco: “Diluvio di al-Aqsa”), mentre le violenze fisiche e verbali contro la popolazione della Cisgiordania erano pressoché all’ordine del giorno. Intanto, per colpe proprie e per una deliberata strategia di Netanyahu, l’autorità palestinese è diventata sempre più evanescente, fino a pregiudicare la possibilità stessa di un negoziato. A trarre profitto da questo quadro è stata soprattutto Hamas. Forte della sua capacità militare, della sua roboante retorica, e del suo controllo ferreo sulla striscia di Gaza, la formazione islamista ha puntato a legittimarsi a livello locale come l’ultimo baluardo della resistenza palestinese, spalleggiata dal partito-milizia libanese di Hezbollah e sostenuta da Teheran.

 

I fatti dell’ultimo biennio – con i tormenti interni d’Israele, l’Occidente impegnato a sostenere l’Ucraina, la prospettiva di un’imminente normalizzazione tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita e infine la ghiotta occasione del cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur – hanno tessuto la congiuntura ideale per un colpo senza precedenti, con il quale Hamas sembra aver voluto tentare il tutto per tutto.

 

Sia per al-Qaida che per ISIS, l’apice della capacità operativa è coinciso con l’inizio del declino. Come ha documentato uno studio di Nally Lahoud, dopo l’11 Settembre l’organizzazione centrale di al-Qaida, neutralizzata dall’intervento americano in Afghanistan, non è più stata in grado di compiere una sola operazione terroristica contro l’Occidente. Allo stesso modo, la proclamazione del Califfato nel giugno del 2014 e i suoi attacchi a varie latitudini hanno innescato la campagna che ha decretato la fine dell’ISIS come realtà proto-statuale in Medio Oriente. Così potrebbe essere anche per l’organizzazione islamista palestinese, con la differenza che Hamas non può estendere altrove la propria azione e la tragica aggiunta che il suo destino è inestricabilmente intrecciato a quello di più di due milioni di persone, allo stesso tempo ostaggio dell’assedio israeliano e delle scelte dei leader islamisti.

 

Tutto dipenderà dalle scelte del governo dello Stato ebraico. Il tentativo di chiudere definitivamente i conti con Hamas ha un costo militare, politico e soprattutto morale altissimo. Come ha messo in luce René Girard, straordinario indagatore dei meccanismi della violenza, quest’ultima non è semplicemente un mezzo di cui si può disporre per ottenere un determinato fine, ma una forza autonoma che sfugge al controllo di chi ne è contagiato e che finisce per rendere tremendamente simili i contendenti che vi ricorrono. Ma la via della trattativa rischia di essere la consacrazione del gruppo islamista come rappresentante legittimo del popolo palestinese.

 

Di fronte a questo enorme dilemma, tornano in mente le parole con cui la grande antropologa e resistente francese Germaine Tillion sintetizzò il suo lungo scambio con un leader del Fronte di Liberazione Nazionale algerino, avvenuto nella Casbah di Algeri il 4 luglio del 1956, all’epoca in cui infuriava la guerra per l’emancipazione del Paese nordafricano dalla tutela coloniale francese: «agli occhi di una certa opinione, il terrorismo è la giustificazione delle torture. Agli occhi di un’altra, torture ed esecuzioni sono la giustificazione del terrorismo. È un circolo perfetto da cui è impossibile uscire».

 

Anche nella situazione attuale, in cui lo stesso dibattito pubblico è inquinato da una faziosità cieca, la strada sembra senza sbocco. I terroristi di Hamas hanno trovato il modo di superare una barriera che sembrava invalicabile. Tocca ora ai costruttori di pace tentare di scongiurare una catastrofe politica e umanitaria, cercando un varco magari impensato, ma non per forza inesistente.

 

 

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