Il cittadino dovrà fare i conti con l’interculturalità e l’inter-religiosità in una società plurale che domanda di superare un’attitudine egemonica

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:55

Intervento del Card. Angelo Scola - Arcivescovo di Milano e presidente della Fondazione Oasis - all'evento “Islam in Europa: la sfida della cittadinanza” (23 novembre 2016) in Università Cattolica di Milano. La conferenza ha concluso il progetto conclusivo del Progetto di Oasis “Non un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca”, con il sostegno di Fondazione Cariplo

Comunità di destino e vita sociale buona. Ho aperto questa prospettiva anche a proposito del rapporto con i nostri fratelli di fede musulmana che vivono in Italia – ma la prospettiva vale a livello globale – perché questa pare a me una condizione inevitabile per l’esprimersi della dignità totale della persona, nel rispetto della sua singolarità e tesa a riconoscere il peso dell’altro e degli altri nella propria vita. Ho bisogno di questa amicizia civica, solidale e di questa comunità di destino, quindi non posso non incontrare chi è con me parte della famiglia umana, a partire dalla propria fede e cultura, e non posso andare verso di lui se non condivido, nel pieno rispetto del suo volto, questa appassionata ricerca del senso sostanziale della cittadinanza. Quando penso alla riduzione della cittadinanza alle pur necessarie formulazioni dei diritti minimi e sostengo che bisogna andare oltre, metto in evidenza un problema nostro degli italiani, non è un’invenzione a tavolino per integrare i nostri fratelli di altra fede.

Pensiamo al problema dell’ecumenismo all’interno dell’immigrazione nel nostro Paese: i bambini rumeni che frequentano la scuola elementare, provenienti dalla confessione ortodossa di Bucarest, sono 150 mila. Paragonate questo numero al gelo demografico che stiamo sperimentando, come ha di recente messo in evidenza Gian Carlo Blangiardo. Parlare di amicizia civica e comunità di destino significa parlare del destino di tutti noi, perché non posso edificare e costruire qualcosa se non sulla pratica di convincimenti che mi permettono di stare bene nella società e nel mondo, perché già la vita porta con sé il suo fardello, come diceva Pavese. Dobbiamo ritrovare a tutti i livelli questo ideale alto, che come tutti gli ideali, a differenza delle utopie, impatta sul reale e lentamente lo cambia a seconda di come le libertà dei singoli, dei corpi intermedi e della realtà di una nazione si giocano con esso.

Da questo punto di vista, non posso non fare riferimento all’esperienza del Cristianesimo europeo, perché è la strada che mi consente di capire come il mio fratello musulmano potrà fare quest’operazione che l’imam Oubrou ha descritto così bene e addirittura ha ricondotto – per me un suggerimento originale – all’origine dell’Islam. Posso farlo condividendo quell’esperienza di appartenenza non egemonica, non settaria, non radicale che connota la mia storia di uomo: l’esperienza della fede respirata in casa fin da bambino, nel piccolo contesto del paese, nella parrocchia e nell’oratorio. L’elemento della tradizione, nel senso potente e nobile della parola, è il punto di partenza non per fare un discorso sulle radici cristiane, che pure ci starebbe, ma proprio per guardare al futuro. Vedo la debolezza dell’Occidente europeo, “la società della stanchezza” come l’ha definita il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han.

Come dice bene il numero 24 di Oasis, bisogna guardare al futuro almeno rispettando due condizioni, per quanto riguarda noi cristiani, ma la posizione di dialogo e apertura è possibile con tutti. Il primo elemento per noi battezzati è vivere e assumere fino in fondo, senza selezioni arbitrarie, ciò che il Cristianesimo è, cosa che abbiamo smesso di fare da troppo tempo. Il Cristianesimo non è riducibile al Vangelo, ai sacramenti, allo slancio di condivisione di carità, ma i Misteri della vita cristiana vissuti da Gesù, da Maria, dai santi e dal popolo santo di Dio hanno delle implicazioni preziosissime che volenti o nolenti hanno plasmato per secoli la realtà europea. Per esempio il rapporto tra l’uomo e la donna, o il modo di concepire la società civile. Noi cristiani dobbiamo imparare nuovamente a vedere questi problemi come implicazioni necessariamente contenute, anche se passibili di evoluzioni, all’interno, per esempio, del Mistero della Trinità. Faccio spesso questo esempio ai giovani: noi facciamo fatica a pensare la differenza sessuale oggiperché non vediamo più l’incidenza storica della Trinità. Non vediamo tutte le implicazioni concrete del Mistero della Trinità. Romano Guardini dice come una convivenza civile plurale può essere costruita a partire dalla contemplazione del mistero trinitario, il luogo dell’assoluta identità dei tre, che però praticano la forma massima di differenza possibile. Tutte le differenze sono superate dalla differenza delle persone della Trinità. Perché i cristiani non devono fare teologia, non devono pensare questi aspetti? Da quando abbiamo cominciato Oasis abbiamo cercato tanti tavoli di dialogo, però il tema del dialogo teologico che ha espresso l’imam Oubrou, che ringrazio, non era mai uscito.

Ci si limitava al tema del diritto. La prima condizione, dunque, è che il Cristianesimo sia visto nella sua forza di proposta libera e non egemonica per il futuro, ma deve essere assunto in tutte le sue implicazioni, non secondo un dualismo, ma secondo la mentalità e i sentimenti di Cristo, come una condizione che nelle debite e radicali distinzioni tra pratiche di vita cristiana e cittadinanza, sono vissute dal soggetto in unità. Io sono uno, di conseguenza non posso non vedere il punto in cui queste distinzioni importantissime convergono. La seconda condizione è che tutto questo avviene in una società plurale, che domanda a tutti di superare un’attitudine egemonica di presenza nella società.

Posso capire che la politica partitica punti all’egemonia, anche se in questo caso non supera mai il rischio di cadere nell’utopia e quindi nella violenza. Però nella proposta di un’amicizia civica che discenda da una comunione di destino l’unica strada è la testimonianza. Vale a dire: raccontare, narrare il bene della propria vita ed esperienza, delle sue appartenenza costitutive. Di narrarlo, di lasciarlo narrare agli altri, di impostare un dialogo che io chiamo “dialogo di fecondazione”. Mi ha sempre colpito la tesi dei padri cappadoci che dicevano, intorno al IV secolo, che prima del peccato originale l’uomo nasceva dall’orecchio. Un’immagine che fa vedere che la fecondità sta nell’accoglienza e nell’ascolto. Giocarsi con ciò che si dice, non giocare con questi problemi. Non l’egemonia, ma la testimonianza e grande atteggiamento di umiltà. Lo dico con una frase di Fethi Benslama nel numero 24 di Oasis, parlando dei foreign fighters e dei giovani radicalizzati delle banlieue parigine ha detto: “Si sottomettono a Dio solo sottomettendo Dio a sé”. Questo è un rischio che corriamo anche noi senza usare la violenza.

L’uomo bomba, nella sua superbia, non deve mai essere chiamato “martire”, perché il martire non passa attraverso il sangue di nessuno, non viola la sacralità di nessuno, non torce un capello. Il martire è una benedizione anche per il carnefice, perché offrendosi in un atteggiamento di dono e perdono riesce a superare l’esperienza di male ingiustificabile che è contenuto in atti come quello del Bataclan. È la vittima, il martire che apre la porta a una giustificazione. In questi giorni ho trovato una frase nel versetto 8 del capitolo 6 del profeta Michea che è molto adatto: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio”. Questo è lo stile del nuovo cittadino europeo, che, volente o nolente, dovrà fare i conti con l’interculturalità e l’inter-religiosità. Le paure si possono capire, non si devono disprezzare ma educare, perché le paure da sole non portano da nessuna parte in nessun campo della vita umana. L'intervento è stato pronunciato durante la conferenza Islam in Europa: la sfida della cittadinanza, nell'ambito del progetto "Non un'epoca di cambiamento, ma un cambiamento d'epoca".