Una delle sette meraviglie del mondo negli scritti dei viaggiatori arabi, dalle narrazioni leggendarie di al-Mas‘ūdī alle descrizioni di Ibn Battūta

Ultimo aggiornamento: 06/06/2022 09:31:55

Questo articolo fa parte della serie “L’angolo dei giovani studiosi”, che raccoglie contributi scritti da promettenti neo-laureati a partire dalle loro tesi.

Sarah Loiodice ha conseguito la laurea triennale in Scienze linguistiche per le Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con una tesi sulle immagini mediavali di Alessandria d'Egitto.

 

Nel 1938, il celebre letterato Taha Husayn, nel futuro della cultura in Egitto, sostenne la necessità di riscoprire l’appartenenza del suo Paese alla civiltà occidentale e al mondo mediterraneo, pur senza negare il ruolo di primaria importanza che esso ha svolto per il mondo orientale e la cultura araba. L’Egitto, per quasi mille anni della sua lunga e ricca storia, è infatti appartenuto al mondo greco-latino, sebbene il ricordo dell’età ellenistica e del periodo romano sia spesso oscurato dalla memoria dell’epoca faraonica o del successivo periodo islamico. In realtà, diversi narratori arabi medievali hanno tramandato elementi dell’eredità greco-romana del Paese, al cui centro si colloca la cosiddetta “perla” o “sposa del Mediterraneo”: la città di Alessandria d’Egitto, con tutte le sue bellezze e il suo fascino senza tempo.

 

«Ma cos’è questa nostra città? Cosa si riassume nella parola Alessandria?», si domanda Lawrence Durell all’inizio del Quartetto di Alessandria[1]. La “città di Alessandro”[2], come il nome stesso suggerisce, fu fondata dal conquistatore macedone nel 332 a.C. e fin dall’inizio fu concepita come un vitale centro di collegamento tra il Mar Mediterraneo e la Valle del Nilo. Destinata a evolversi in «una magnifica città greca»[3], Alessandria si sviluppò nei pressi dell’antica cittadella egiziana di Rhakotis e divenne rapidamente una culla di civiltà e fedi diverse, dall’ellenismo all’ebraismo, al cristianesimo primitivo. La continuità di questa metropoli dall’epoca antica a quella araba trova il suo simbolo nel Faro, una costruzione imponente che fu protagonista di numerose storie e leggende. Una delle sette meraviglie del mondo antico, fu edificato dal successore di Alessandro, Tolomeo Filadelfo, e progettato dall’architetto Sostrato di Cnido. Posizionato sulla piccola isola di Pharos – da cui l’edificio prende il nome – rappresentava «la più grande realizzazione pratica della mente alessandrina, nonché l’espressione esteriore degli studi matematici condotti nel Museion», l’istituzione scientifica voluta dai Tolomei[4].

 

Uno dei primi autori arabi a descrivere questa meraviglia oggi perduta fu il viaggiatore al-Mas‘ūdī, nato a Baghdad attorno all’893 e morto al Cairo nel 956. L’autore, che si guadagnò in età moderna il soprannome di “Erodoto degli arabi”, trattò del Faro di Alessandria in due opere distinte, il Kitāb Murūj al-dhahab[5], composto nel 943, e il Tanbīh wa-l-ishrāf, completato nel 956. Egli propose «due resoconti di carattere e origine differenti, che sono stati riprodotti da autori successivi»[6]. La prima versione, proposta all’interno dei Murūj, riveste un carattere marcatamente mitologico, come si comprende fin dalle prime righe, quando al-Mas‘ūdī passa in rassegna le diverse ipotesi su chi possa essere il fondatore del monumento, senza escludere personaggi leggendari come Romolo, il mitico re di Roma. Inoltre, nella sua prima descrizione del Faro, al-Mas‘ūdī inserisce diversi particolari originali, come il riferimento a una base di vetro a forma di granchio su cui si sarebbe retta l’intera struttura, nonché la menzione di statue che avrebbero circondato la costruzione. Ciascuna di queste, secondo l’autore, presentava una propria peculiarità: la prima indicava il sole seguendolo nella sua rotazione, la seconda allertava i cittadini dell’avvicinamento dei nemici dal mare e la terza mostrava il trascorrere del tempo con un suono ogni ora diverso, ma sempre piacevole. Secondo lo scrittore, il Faro ospitava in origine uno specchio magico[7] che avrebbe permesso ai sovrani della città di scorgere da lontano qualsiasi nemico; sotto di esso si troverebbero infine alcuni tesori, appartenuti a Shaddād, re della popolazione araba antica degli ‘Ād, che Alessandro avrebbe ritrovato e nascosto sotto il Faro. Il califfo omayyade al-Walīd (r. 705-715), ingannato dai bizantini, avrebbe rimosso lo specchio e la metà superiore del Faro alla ricerca di tali tesori, privando gli abitanti della città del vantaggio strategico che quest’ultimo forniva loro[8].

 

Nel Tanbīh wa-l-ishrāf, invece, al-Mas‘ūdī presenta il Faro in termini molto diversi, attribuendone correttamente la fondazione a un successore tolomaico di Alessandro e riportando un aneddoto che ha come protagonisti i cristiani dell’epoca, che erano soliti recarsi nelle vicinanze del Faro per trascorrere il Giovedì Santo presso le sue fondamenta[9]. In questo scritto, inoltre, l’autore descrive la costruzione come una torre restaurata, alta circa 230 cubiti[10] e composta da tre strutture sovrapposte, aggiungendo che originariamente la sua altezza sarebbe stata di quasi 400 cubiti[11]. Anche in questa seconda narrazione, nel complesso più realistica, al-Mas‘ūdī fa riferimento allo specchio del Faro, ma in questo caso senza menzionare alcuna statua né la storia di al-Walīd e piuttosto attribuendo il deterioramento dell’intera costruzione «a cause naturali, terremoti e alle rigide condizioni climatiche di Alessandria»[12]. Secondo l’archeologa e storica dell’arte Doris Behrens-Abouseif, «la storia della demolizione riportata nei Murūj sembra appartenere, come il resto del racconto, al regno del mito, sebbene possa essere stata creata per spiegare la configurazione del Faro nel primo periodo islamico, dopo che ebbe perso i suoi originali piani superiori in pietra»[13].

 

Al-Mas‘ūdī, però, non fu certo l’unico autore arabo medievale a citare il Faro di Alessandria nelle sue opere. Un secondo grande viaggiatore arabo che ne fece menzione fu Ibn Battūta, il celebre giramondo nato a Tangeri nel 1304 e morto nel 1368-9 (o, secondo altre supposizioni, nel 1377). Noto come “il Marco Polo arabo”, quest’uomo ebbe l’occasione di vedere il Faro in due momenti distinti della sua vita e vi dedicò una breve descrizione all’interno del suo resoconto di viaggio. A differenza di al-Mas‘ūdī, le parole di Ibn Battūta a proposito del Faro si limitano a descriverne l’aspetto, tralasciando ogni tipo di leggenda mitica. In particolare, il Faro è descritto come una costruzione quadrata, la cui porta era elevata da terra, mentre uno dei lati era andato distrutto. In effetti, già quando Ibn Battūta vide la struttura per la prima volta, nel 1326, essa risultava infatti gravemente danneggiata da un violento terremoto e così «del colossale Faro (…) restava solo la parte inferiore»[14], mentre al suo interno erano state realizzate delle abitazioni, secondo un fenomeno tipico del Medioevo. Quando l’autore vi fece ritorno nel 1349, lo trovò completamente in rovina a seguito di un secondo terremoto. In tale occasione, Ibn Battūta dovette pertanto constatare il completo collasso del monumento, pur menzionando la decisione del sultano mamelucco Ibn Qalāwūn[15] di erigere un faro simile al primo di fronte alla costruzione ormai distrutta. Tale progetto, tuttavia, non fu mai terminato a causa della morte del sultano.

 

Nel complesso, un’analisi critica di ciò che scrissero al-Mas‘ūdī e Ibn Battūta, ma anche dei testi di altri autori arabi che trattarono del Faro[16], può permetterci di comprendere come quest’ultimo sia stato protagonista di una lunga serie di modifiche, cambiamenti e distruzioni fin dall’inizio del periodo islamico. Come conclude Doris Behrens-Abouseif, «se mai i musulmani hanno visto il Faro nella sua piena forma ellenistica, questo avvenne solo per un breve periodo che non ha lasciato alcuna testimonianza»[17], tanto che «nessun autore arabo fornisce una descrizione realistica del Faro nella sua configurazione tardo-antica»[18] poiché spesso, come si è visto, «i riferimenti al Faro preislamico si fondono con le leggende dello specchio, del granchio di vetro e delle gemme nascoste sotto di esso»[19].

 

Eppure, anche se incomplete, le narrazioni a noi pervenute assumono un valore inestimabile: con le loro immagini suggestive e leggendarie, lasciano intuire le memorie perdute di un’eredità, in parte diversa, ma in parte comune, che l’Egitto condivide con l’Europa.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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[1] Lawrence Durell, The Alexandria Quartet. Justine, Faber and Faber, London 1962, p. 5.

[2] In arabo la città è chiamata al-Iskandariyya che, letteralmente, significa La città di Alessandro (Magno).

[3] Edward Morgan Forster, Alexandria. A History and a Guide, Tauris Parke, Bloomsbury 2019, p. 9.

[4] Ibi, p. 19.

[5] L’opera è stata integralmente tradotta in francese a fine Ottocento da Charles Barbier de Meynard e Abel Pavet de Courteille e successivamente rivista da Charles Pellat. Il titolo è traducibile come “le praterie d’oro”.

[6] Doris Behrens-Abouseif, The Islamic History of the Lighthouse of Alexandria, «Muqarnas» n. 23, (2006), p. 1.

[7] Probabilmente un telescopio. «Alcuni ritenevano che lo specchio offrisse una visione distante fino a Costantinopoli, mentre altri sostenevano che permettesse di mettere a fuoco i raggi del sole per bruciare le navi nemiche». Ibidem

[8] Doris Behrens-Abouseif, The Islamic History of the Lighthouse of Alexandria, 2. Al-Mas‘ūdī sostiene che il Faro rimase senza la sua parte superiore fino al momento in cui egli compose l’opera, ovvero fino al 332 , sebbene nel frattempo fossero stati svolti dei lavori di ricostruzione promossi da patroni musulmani. Ciò indicherebbe che l’autore avrebbe fatto ricorso a testi precedenti che non prendevano in considerazione i lavori di ricostruzione. Ibidem

[9] Ibi, p. 2.

[10] Nei Murūj invece menziona solo l’altezza del Faro prima che al-Walīd lo distruggesse parzialmente e indica un’altezza originaria di circa mille cubiti. Ibidem.

[11] La stima dell’altezza originaria fornita da al-Mas‘ūdī (anche nei Tanbīh) sarebbe in realtà esagerata. Ibi, p. 3.

[12] Ibi, p. 2.

[13] Ibi, p. 3.

[14] Ibn Baṭṭūṭa, I viaggi, traduzione a cura di Claudia Maria Tresso, Einaudi, Torino 2018, p. 18, nota 3.

[15] Ibn Qalāwūn, vissuto dal 1285 al 1341, fu uno dei più importanti sultani mamelucchi, il cui regno si articolò in tre momenti distinti: nel 1293-4, dal 1299 al 1309 e dal 1310 al 1341.

[16] Si veda Doris Behrens-Abouseif, The Islamic History of the Lighthouse of Alexandria, pp. 1-14.

[17] Ibi, pp. 8-9.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.