Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:55
Non è facile scrivere qualcosa sul dialogo interreligioso in Pakistan dopo che la minoranza cristiana è stata duramente colpita da gruppi radicali. Ma è durante questi momenti di tensione e lotta che siamo costretti ad approfondire la riflessione, giungendo a conclusioni inaspettatamente sorprendenti.
Negli ultimi mesi si sono verificate inusitate violenze contro la comunità cristiana in Pakistan. Il 1° agosto scorso due attacchi alle Comunità cristiane hanno provocato, forse per la prima volta, vittime. La cosa meno importante è sapere quante case sono state bruciate oppure le ragioni che stanno dietro a questi attacchi. In entrambi i casi un cristiano è stato accusato di blasfemia contro il Sacro Corano. Ma, come ha detto il Primo Ministro del Punjab in uno dei suoi discorsi alla nazione, «Nessuno, per quanto grave sia l’offesa, può farsi giustizia da solo», anche se la condanna sembra un po’ debole per un attacco brutale conclusosi con sette persone bruciate vive, tutti parenti di un frate francescano, di cui due bambini. Ad attirare la mia attenzione sono stati gli eventi che hanno preceduto questo attacco ed è di questo che vorrei parlare per poi trarre alcune conclusioni.
Solo un paio di settimane prima dell’assalto di Gojra, la città di Kasur, al confine con l’India, aveva sperimentato la stessa violenza, sebbene senza vittime. Ancora due giorni prima dell’attacco di Gojra i cristiani avevano chiesto aiuto alla polizia perché la tensione stava crescendo. Vi era dunque un precedente a Kasur City e una tempestiva richiesta di aiuto da parte delle agenzie di “law enforcement”. Tuttavia nessuno ha mosso un dito …
Tanto più che le moschee locali, come dichiarato dal Presidente della Commissione dei Diritti umani del Pakistan, avevano lanciato una propaganda aggressiva invitando i musulmani “a ridurre i cristiani in brandelli”. Anche se saremmo scorretti se non riconoscessimo le famiglie di buon cuore che hanno dato rifugio ai cristiani che scappavano dalle loro abitazioni incendiate mentre la folla li attaccava.
Dopo gli attacchi il leader di uno dei gruppi più fondamentalisti del Pakistan, la Jama’at-e-Islami, ha organizzato un “incontro interreligioso” cui i leader delle minoranze sono stati invitati per discutere le possibili modalità d’azione dopo gli avvenimenti di Gojra. Tutto questo dopo che lo stesso leader aveva definito quell’azione una possibile cospirazione di coloro che volevano sfidare le leggi islamiche del paese (le famigerate “Blasphemy Law”).
Si potrebbero a questo punto sollevare alcuni interrogativi: perché la polizia non ha preso misure preventive per proteggere i cristiani quando certi messaggi venivano lanciati delle moschee? È stata solo una reazione spontanea della popolazione musulmana locale venuta al corrente delle dissacrazione di una copia del Corano o si è trattato di qualcos’altro, dal momento che quelli che si sono mossi in maniera più aggressiva sono riusciti a bruciare più di cinquanta case in un tempo molto breve? Gli ultimi sviluppi mostrano che molte delle persone che hanno provocato gli incidenti appartenevano a organizzazioni fondamentaliste bandite dal Governo.
Una delle possibili conclusioni si riassume in una parola: impunità. L’impunità con la quale le organizzazioni bandite possono organizzare e portare a termine questo tipo di azioni. L’impunità delle autorità locali, che non le impediscono per timore di prendere provvedimenti ogni volta che le moschee o le scuole islamiche sono coinvolte in azioni fanatiche. Il mondo sta prestando scarsa attenzione a queste notizie, eppure essere dimostrano un fatto: c’è un paese che permette che centri di formazione di futuri leader religiosi diventino scuole di odio. Sappiamo che non tutte le scuole rientrano in questa categoria, ma, come sacerdote, mi preoccuperebbe sapere che un seminario cristiano, ovunque nel mondo, trasmette un’ideologia terrorista e addestra i giovani a questo scopo. Posso assicurare che esistono molte madrasse di questo tipo. I pakistani lo sanno e lo sa anche il governo. Perché allora non vengono presi provvedimenti?
La riflessione mi porta ora alla parte positiva del mio articolo: il fatto che tra i musulmani, e lo dico sulla base della mia personale esperienza, ci sono molte brave persone. Raramente infatti mi sono sentito rifiutato per il fatto di essere un non-musulmano in Pakistan. Il Pakistan è una società molto più tollerante di quello che molti potrebbero pensare. Questo paese è nato con l’ideale di permettere a ogni persona di ogni religione di praticare e vivere la propria fede. I nostri studenti cristiani sono spesso aiutati da industriali locali a trovare un buon lavoro o a portare a termine i loro studi. Devo ringraziare i fratelli e le sorelle musulmani di tutto il mondo che stanno lavorando per un mondo migliore. Penso però che abbiano davanti a loro un cammino duro e pericoloso, che anche in Occidente è costato molto sangue: il cammino verso la libertà.
Nessuno purificherà una religione dai suoi fondamentalisti se non i credenti di quella stessa religione. Non possiamo aspettarci che qualcuno da fuori, soprattutto quando quel qualcuno è percepito come una minaccia più che come un aiuto, faccia quello che i musulmani dovrebbero fare. Certo, anche noi siamo chiamati a giocare un ruolo nel cammino che l’Islam autentico deve percorrere perché noi stessi l’abbiamo già percorso. Non sono affatto pessimista. Forse l’ottimismo è un marchio di fabbrica di noi Salesiani di Don Bosco, eppure io vedo molti segni di speranza intorno a me: le molte iniziative per la pace in paesi come l’Indonesia e le Filippine, le manifestazioni per elezioni liberi in Iran, il tentativo di farla finita con leggi che discriminano le minoranze nei paesi musulmani, la tolleranza e l’apertura di paesi come il Qatar o Dubai, le visite di leader Musulmani in Vaticano. Tutti segnali che qualche cosa si sta muovendo e che siamo sulla strada giusta. Ecco perché non possiamo permettere che vincano i radicali. Semplicemente essi non devono trovare posto su questa terra e i nostri fratelli e sorelle musulmani devono dirlo a voce alta.
Forse è tempo di riconsiderare il modo con cui guardiamo il dialogo interreligioso e vedere come le cose possono cambiare attraverso questo dialogo. Un dialogo che non porta frutti è una perdita di tempo. Poco importa se i risultati richiedono tempo. Non stiamo parlando di una impresa facile, ma pensiamo a come migliorare la situazione attuale. Personalmente vedo pochi risultati dagli incontri ai quali partecipano persone che non hanno intenzione di ascoltare o che non ascoltano col cuore. So di belle iniziative prese a livello locale, tra cittadini che semplicemente si incontrano una volta al mese, ebrei, cristiani e musulmani. Spiegano la propria fede gli uni agli altri, si confrontano e imparano insieme, e normalmente scoprono di non essere poi così distanti gli uni dagli altri e finiscono con un pasto comune che aiuta a farli sentire più uniti. È un modo di costruire delle comunità su una scala di piccole dimensioni. Senza riversare sugli altri la nostra fede, senza la pretesa di convertire nessuno, ma crescendo insieme. Penso che la strada sia questa.
L’Islam è una teocrazia. Le persone istruite, in un paese che come il Pakistan ha un alto tasso di analfabetismo, conoscono bene la loro religione. Le loro famiglie hanno trasmesso la percezione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato e hanno acquisito valori che condividono con il resto dei non-musulmani. Trovo molto facile individuare un terreno comune con loro. Non si tratta solo di spendere parole o di scrivere un comunicato stampa destinato ad essere subito archiviato. Se come salesiano sono pragmatico e ottimista, come spagnolo sono diretto. Ogni volta metto sul tavolo la domanda: “Cosa puoi fare per la nostra minoranza e per mostrare il tuo impegno verso l’umanità?” Li sfido: “Tu puoi vedere quello che migliaia di missionari fanno nel mondo, sai che rinunciano a tutto e rischiano la vita per la loro fede … Sono il prodotto della nostra formazione … Ora, tu, musulmano, cosa puoi fare per aiutarci a costruire una società migliore?” Sarete sorpresi dai risultati: il Direttore della Compagnia nazionale dell’elettricità mi rende visita in privato per aiutare il nostro Centro Tecnico, l’impegno di uomini d’affari locali a sostenere quasi totalmente le spese dei nostri studenti, o il loro aiuto ogni volta che un nostro studente viene arrestato con una falsa accusa, la vergogna che hanno espresso in occasione di fatti come quelli di Gojra … Ecco forse una delle ragioni per cui adoro lavorare in Pakistan: tante volte ho visto il male faccia a faccia, nel volto di chi uccide e muore uccidendo. Ma ancor più spesso ho incontrato Dio nelle persone semplici che ci aiutano e che rifiutano la violenza. Credo fermamente i tempi siano maturi per un vero dialogo interreligioso. Insieme mostreremo che quello che abbiamo provato insieme in Pakistan recentemente non riflette l’atteggiamento di una fede contro l’altra, piuttosto il bisogno di non cedere a coloro che, tra di noi, non seguono Dio ma i loro interessi personali. Il Pakistan è stanco di subire violenze, ma ha dato ospitalità ai violenti per troppo tempo. Preghiamo perché i responsabili politici si impegnino a costruire un futuro migliore contrastando il male creato nel corso degli anni.
* P. Miguel Angel Ruiz, SDB è rettore del Centro Don Bosco Technical and Youth Centre, Lahore. Pakistan.