Ospiti della famiglia reale hashemita, i responsabili delle diverse chiese e comunità cristiane sono riuniti in Giordania per discutere del futuro dei cristiani in Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:59

Mentre il mondo attende con il fiato sospeso la decisione del Congresso americano, il re di Giordania convoca ad Amman i rappresentanti di tutte le chiese e comunità cristiane del Medio Oriente per riflettere sul loro futuro. L’idea per la verità risale a qualche mese fa, ma una coincidenza provvidenziale (termine da prendere qui alla lettera) ha voluto che s’inserisse nell’angusto varco temporale apertosi tra l’annunciato attacco americano e la sua imprevista sospensione. Nella sala congressi dell’hotel Le Royal la fotografia della cristianità araba è accuratissima, essendo stati invitati tutti i responsabili delle diverse comunità, ma potrebbe diventare drammaticamente obsoleta nel momento in cui in Siria divampasse una guerra a tutto campo: lo sconvolgimento che ne seguirebbe assesterebbe infatti un durissimo colpo alla presenza cristiana in Medio Oriente. Di questo “rischio epigrafe”, i partecipanti all’incontro sono ben consapevoli e in diversi interventi, a cominciare dal messaggio del Papa dei copti Tawadros II, esprimono la volontà di non cedere alla rassegnazione o alla violenza. La semplice lettura dei titoli dei partecipanti, che potrebbe servire da utile ripasso per uno studente alla prese con un esame di storia della Chiesa, è sufficiente a dare la misura della complessità della presenza cristiana nella regione: copti, siri, melkiti, maroniti, armeni, caldei, latini.... Se si aggiunge poi che quasi ogni intervento non ha mancato di ricordare l’impressionante lista di civiltà che si sono susseguite in Medio Oriente, e di cui cristiani e musulmani arabi sono in qualche modo gli eredi, si può toccare quasi con mano una realtà che, vista con gli occhi dello studioso, risulta di una ricchezza affascinante. Ma che sul piano pratico è anche un peso immane da reggere, soprattutto quando si constata che alla fin fine le ricette sono le stesse per tutti, cattolici, ortodossi e protestanti: libertà di culto e di coscienza, cittadinanza, riforma dell’istruzione religiosa, contrasto dell’estremismo e della violenza, diritti uguali per tutti. Vengono in mente le parole di Naghib Mahfuz nel suo controverso romanzo Il rione dei ragazzi. Il premio Nobel egiziano scriveva infatti provocatoriamente rappresentando le vicende Medio Oriente nello specchio di un quartiere del Cairo: «Gli abitanti dei dintorni […] ci invidiano e parlano del nostro inesauribile patrimonio e dei nostri imbattibili capi. Sono cose vere, ma non si accorgono che siamo poveri al pari dei mendicanti». Nel Levante attuale, con una guerra alle porte di cui nessuno sa valutare l’entità, con due milioni di profughi siriani e con una violenza diffusa che incide negativamente su economie già provate, limitarsi alla rievocazione di un passato glorioso può risultare consolante, ma non offre prospettive per il futuro. Una figura che lo ha ben chiaro è il Principe Ghazi, cugino del re e regista dell’incontro. Già ispiratore della dichiarazione Una parola comune, nel suo discorso di apertura ha stigmatizzato i recenti attacchi alle chiese, osservando che «i cristiani arabi sono presi di mira in alcuni Stati – per la prima volta da centinaia di anni – [...] per il solo fatto di essere cristiani» e non soltanto per il generale sconvolgimento che travaglia la regione a partire dal 2011. Tuttavia nel suo intervento non si è fermato qui, lasciando intendere che la questione non è soltanto dei cristiani. «La democrazia a cui dobbiamo aspirare non è arrivare al potere attraverso le urne perché la maggioranza possa reprimere la minoranza. Questa è la dittatura della moltitudine, è demagogia e ingiustizia, vuol dire consolidare le divisione e dare inizio a guerre civili e settarie». Lo Stato islamico – ha osservato – non si può fondare sull’opinione della maggioranza, ma sul consenso generale e la cultura democratica significa anche separazione dei poteri, equilibrio tra di essi, ricerca delle convergenze e diritti per tutti i cittadini, mentre dal canto suo l’ex-mufti d’Egitto Ali Gomaa ha criticato duramente il discorso religioso intollerante che monopolizza diverse moschee, auspicando quanto meno che sia contenuto all’interno dei luoghi di culto, senza debordare nelle strade confinanti attraverso un’amplificazione assordante. A ben vedere, sono le stesse richieste avanzate dalle comunità cristiane arabe, prova che esse anticipano soltanto il destino delle loro società. Se non ci sarà posto per loro, non ce ne sarà neppure per il pluralismo dentro l’Islam. Il nesso è molto chiaro agli organizzatori di questo convegno e certamente ne è uno dei motivi ispiratori, tanto quanto la preoccupazione per l’avvenire dei cristiani arabi.