I vent’anni dall’11 Settembre coincidono con il fallimento occidentale in Afghanistan, che è culturale prima ancora che politico e militare. I due eventi impongono una riflessione sul rapporto tra Occidente e mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:08

È raro che un anniversario coincida anche con la fine di un ciclo storico. Succede con questo 11 settembre 2021, che simbolicamente chiude la stagione della guerra al terrore e dell’esportazione della democrazia aperta da George W. Bush nel 2001. I risultati di questa guerra possono essere giudicati confrontandone l’atto d’esordio e quello di chiusura: invasione nel 2001 dell’Afghanistan dei Talebani, colpevoli di aver dato rifugio a Bin Laden e ad al-Qaida; ritorno dei Talebani al potere nel 2021 e maldestro (a dir poco) ritiro statunitense dal Paese, macchiato tra le altre cose dall’attentato compiuto dalla branca locale dello Stato Islamico, un’organizzazione che senza la guerra al terrore forse neanche esisterebbe. A suggellare questo beffardo epilogo hanno pensato i Talebani, scegliendo di inaugurare proprio l’11 settembre il loro nuovo governo.

 

Ciò non significa che negli ultimi due decenni nulla sia cambiato o che le operazioni americane siano state del tutto inefficaci. Al-Qaida è molto indebolita, lo Stato Islamico, dopo il terrificante exploit del triennio 2014-2016, non è sconfitto ma è in fase di ripiegamento, il jihadismo sta evolvendo sempre più verso forme territoriali e locali, e gli Stati, soprattutto quelli occidentali, hanno sviluppato una capacità di controllo e prevenzione che rende molto più remota la possibilità di attentati di larga scala sul loro territorio. Da questo punto di vista, suscita semmai una forte inquietudine per il futuro della democrazia l’efficienza raggiunta da strumenti di sorveglianza e apparati di repressione totalitaria, come ha rilevato Thomas Hegghammer su Foreign Affairs.

 

L’Afghanistan inoltre non è mai stato una priorità strategica degli americani, e il ritiro non segna il passaggio di consegne tra gli Stati Uniti e la Cina quale potenza egemone. Più che sul fallimento politico o militare dell’Occidente, è dunque sulla dimensione culturale che mi pare opportuno riflettere. Insieme al disastro iracheno, il fallimento in Afghanistan mette infatti in discussione il modello e la visione del mondo di cui gli Stati Uniti, e in subordine i loro alleati europei, si erano fatti più o meno convinti promotori. Se non si affronta il tema del rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo, non basteranno ipotetici progetti di Difesa comune europea o riforma della NATO a cambiare davvero le cose.

 

Un’antropologia immaginaria

 

Comincio il mio ragionamento tornando sulla vicenda afghana. Lo faccio attraverso un libro, pubblicato nel febbraio del 2021 e intitolato Le Gouvernment transnational de l’Afghanistan. Une si prévisible défaite (Il governo transnazionale dell’Afghanistan. Una sconfitta così prevedibile). Il testo è opera di un politologo francese, Gilles Dorronsoro, che sulla base della sua pluridecennale esperienza di studio del Paese centroasiatico ha messo in luce con molta accuratezza e discreto anticipo le clamorose disfunzioni del sistema messo in piedi dalla coalizione a guida americana. Fra i vari aspetti analizzati da Dorronsoro vi sono la lettura distorta del terreno, la sottovalutazione del nemico, un approccio incoerente alla politica regionale e una gestione caotica della nuova amministrazione, in cui la pletora di soggetti (enti statali, agenzie americane, organizzazioni internazionali, ONG) che per vent’anni ha governato l’Afghanistan – da cui l’idea di un “governo transnazionale” – ha generato un colossale spreco di denaro, abusi di potere e corruzione diffusa: più che un processo di State-building, una vera e propria opera di State-destruction.

 

L’aspetto più originale e forse più interessante del libro è però rappresentato dal capitolo dedicato ai presupposti intellettuali di questo sgangherato intervento. Il contemporaneo afflusso nel Paese di consistenti risorse finanziarie e di un imponente numero di esperti – antropologi, politologi, economisti, giuristi, consulenti in sviluppo e contro-terrorismo – ha infatti prodotto una mole senza procedenti di conoscenze: centinaia di ricerche, pubblicazioni, report e statistiche, finalizzati a orientare e valutare la miriade di programmi elaborati e messi in atto da istituzioni internazionali e ONG. Dominato dalla predilezione neopositivista per la quantificazione, questo sapere fatto di metrics e benchmark, autoreferenziale per sua natura perché ultimamente pensato per soddisfare le attese dei committenti, ha impedito una reale conoscenza dell’Afghanistan, creando, nelle parole dell’autore, una «antropologia immaginaria» della società locale. Il tutto condito da un ottimismo dogmatico e assertivo, come ha potuto sperimentare Dorronsoro nei tre anni trascorsi come ricercatore in un think tank di Washington, dove era vietato dire che le cose andavano male.

 

Dorronsoro attribuisce questa débâcle intellettuale, politica e militare all’ubriacatura neo-liberale degli ultimi decenni. Non ha torto, ma per capire cosa è davvero in gioco è opportuno allargare ulteriormente lo sguardo. Servirà non soltanto a capire che cosa si è sbagliato in Afghanistan, e magari a non ripetere altrove gli stessi errori, ma anche a mettere a fuoco quale possa essere il ruolo dell’Occidente nel mondo.

 

L’oscuramento dell’intelligenza

 

La riduzione del sapere ai suoi aspetti quantitativi e strumentali non è in realtà una deriva degli ultimi decenni. A questo proposito, le considerazioni di Dorronsoro mi hanno richiamato alla mente un altro libro, pubblicato nel lontano 1970 e scritto da un acuto critico della modernità, il filosofo Michele Federico Sciacca. Quest’ultimo vedeva proprio nella «riduzione del sapere e del reale a un insieme di sensazioni-dati-fatti-fenomeni “senza essere”, razionalmente calcolabili e organizzabili a fini pratici» uno dei segni di quell’Oscuramento dell’intelligenza – questo il titolo del volume – che a partire dal XVII secolo aveva colpito l’Occidente. La manifestazione storica di tale “oscuramento” era per Sciacca l’Occidentalismo, cioè l’«assunzione della decadenza dell’Occidente come progresso». Se l’Occidente, nato dalla sintesi creativa tra mondo greco-romano e Cristianesimo, si fonda su apertura alla trascendenza, intelligenza dell’essere, senso del limite e tensione armonica tra naturale e soprannaturale, l’Occidentalismo si sbarazza con presunzione di ogni vincolo, opera un appiattimento mondano dei fini dell’uomo e afferma potenza militare ed espansione economica quali parametri esclusivi dello sviluppo umano.

 

Nel severo giudizio di Sciacca, ne consegue che l’Occidentalismo «non ha niente da insegnare e da esportare, tranne che tecnica e benessere, dati, numeri, calcoli, robots, computers e corruzione: non ha da esportare valori morali religiosi estetici, neanche sociali politici giuridici, che tutti ha adulterato e perduto; quel che dichiara alle frontiere come “occidentale”, etichetta per ingannare i doganieri, è merce avariata, di bassa qualità». E se molti popoli sono ostili all’Occidente è «perché, avendolo conosciuto, hanno sofferto la sua oppressione», nella forma della sua degenerazione occidentalista.

 

L’Islam nella trappola occidentalista

 

Tutto questo è decisivo per capire, ancora oggi, il nostro rapporto con il mondo musulmano. L’Islam moderno vede infatti la luce nel confronto con un Occidente già accecato dalla volontà di potenza. Quando nella seconda metà del XIX secolo l’Europa proietta trionfalisticamente il proprio dominio su buona parte del mondo musulmano, il rapporto tra queste due realtà entra in una nuova fase. Non cambiamo soltanto i rapporti di forza; muta la logica stessa della loro interazione. Lo si vede dai dibattiti dell’epoca: se le dispute medievali tra cristiani e musulmani vertevano su quale fosse la vera religione, ora si discute di quale sia la civiltà più prospera e potente. Alcuni intellettuali musulmani cadono nella trappola, e mentre invocano la resistenza alla conquista dell’Occidente restano impigliati nelle sue categorie. Per capire cosa intendo basteranno alcune parole dei due capofila del riformismo islamico tardo-ottocentesco, Jamal al-Din al-Afghani e Muhammad ‘Abduh, che congiuntamente scrivono:

 

Tra i fondamenti della religione islamica vi sono la ricerca del dominio, la forza, la conquista, l’onore e il rifiuto di qualsiasi legge che confligga con la sua e di ogni potere che non ne applichi le norme. Chi consideri le fonti di tale religione e legga una sura del suo libro rivelato concluderà senza esitazione che i suoi fedeli non dovrebbero essere militarmente secondi a nessuno […]. Chi mediti il versetto «Allestite contro di loro forze quanto potete» (Cor. 8,60) si convincerà che chi aderisce a questa religione dovrebbe essere animato dall’amore del dominio e dalla ricerca di ogni mezzo per conquistarlo, e non solo dal desiderio di non cadere sotto il dominio altrui.

 

Ecco in nuce – siamo negli anni ’80 dell’Ottocento – il credo di tutti gli islamismi a venire, dai Fratelli musulmani a Isis. Ma il sorpasso islamista ai danni dell’Occidente occidentalista (mi si passi il gioco di parole) non si realizza. Anche lo Stato islamico, chimerica alternativa ai corrotti regimi occidentali e filo-occidentali, tarda a materializzarsi. Dove finalmente lo si edifica, porta solo repressione e violenza. Per l’islamismo restano due opzioni: il ripiegamento pragmatico nella “democrazia musulmana” (la strada tentata da Ennahda in Tunisia) e la tanto brutale quanto inconcludente guerra di logoramento (al-Qaida, Isis, etc.). La vittoria dei Talebani, movimento islamista atipico, può aver ridato un po’ di morale a chi sogna la rivincita dell’Islam, ma non cambia i termini della questione. Come ha notato Kamran Bokhari sul Wall Street Journal, anche loro dovranno fare i conti l’impossibile quadratura del cerchio: essere pragmatici e ideologici allo stesso tempo.

 

Ma non vince neppure l’occidentalismo, che, come notava Sciacca, non ha molto da esportare, e a cui non bastano – fortunatamente – bombe “intelligenti” e droni di ultima generazione per affermare fino in fondo il suo dominio.

 

La via dell’intelligenza e della fratellanza

 

Sciacca non era un nostalgico passatista. La sua soluzione all’oscuramento dell’intelligenza non consisteva in un impossibile ritorno a quei secoli tra Carlo Magno e il Rinascimento che coincidevano per lui con la manifestazione dell’Occidente. Invitava invece ad “attraversare” i problemi posti dal nichilismo occidentalista, recuperando tutto l’apparato tecnico-industriale in una nuova sintesi «nel segno dell’intelligenza». Confidava inoltre che i valori dell’Occidente sarebbero rinati in una nuova cultura, che, alimentandosene, avrebbe contribuito a rinnovarli, e prevedeva che potesse essere l’America Latina a «porsi all’avanguardia di questo movimento».

 

Seguendo la sua intuizione, non è difficile immaginare la possibile via d’uscita dallo scontro tra occidentalismo e islamismo: è la strada della fratellanza e dell’amicizia sociale indicata dal Papa argentino e percorsa con lui dall’imam al-Tayyeb.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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