La diffusione del Coronavirus e il collasso del mercato petrolifero stanno mettendo a dura prova l’economia del Regno e i progetti di Muhammad bin Salman. La Vision2030 rischia di naufragare definitivamente e le politiche di austerity minacciano la tenuta del contratto sociale

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:53

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L’emergenza sanitaria causata dalla diffusione del coronavirus ha colpito duramente l’economia globale e il mercato del petrolio. Il crollo dei prezzi del greggio sta mettendo a dura prova le economie di tutti i Paesi del Golfo, in particolare quella saudita. Dai primi anni ’30, quando fu scoperta la presenza del petrolio in Arabia Saudita, le finanze del Regno dipendono quasi esclusivamente dall’oro nero. Nei decenni il modello economico-finanziario saudita ha conosciuto fortune altalenanti, seguendo l’andamento del mercato petrolifero. Dopo il decennio magico 2003-2014 in cui il prezzo del barile aveva segnato un massimo storico di 145$ nel luglio 2008, l’estate 2014 ha inaugurato una fase ribassista durata fino allo storico accordo OPEC raggiunto a Vienna nel 2016. A inizio 2020, con la diffusione della pandemia e lo stop alla produzione industriale mondiale, la domanda di petrolio è crollata di quasi 30 milioni di barili al giorno. Questo dato è piuttosto significativo se si pensa che prima della crisi la domanda era arrivata a sfiorare i 100 milioni di barili giornalieri. L’emergenza sanitaria ha generato uno squilibrio inedito: neppure la Guerra del Golfo, che pure fece diminuire la domanda di greggio di 4/5 milioni di barili al giorno, provocò un’instabilità così grave. In un mercato caratterizzato da un enorme eccesso di offerta e con la capacità di stoccaggio giunta a livelli di guardia, i produttori dell’OPEC e i suoi alleati hanno contrattato un taglio della produzione di 10 milioni di barili al giorno a partire dal mese di maggio, taglio che però gli analisti ritengono insufficiente. Questo scenario ha innescato il collasso del prezzo del petrolio, che dalla fine del 2019 ha segnato un ribasso del 60%. 


L’Arabia Saudita si sta dunque avviando verso quella che potrebbe rivelarsi la contrazione del mercato più grave di sempre. A inizio maggio il ministro delle Finanze saudita Muhammad al-Jad‘an ha annunciato una serie di misure che il Regno intende adottare per far fronte alla crisi, tra cui l’innalzamento dell’IVA dal 5% al 15% dal mese di luglio, e il taglio di una componente del salario dei dipendenti pubblici dal mese di giugno. Quest’ultima misura andrà a colpire 1,5 milioni di dipendenti statali, che dal 2018 percepivano un’indennità mensile di 1000 riyal, circa 267 dollari, per compensare l’aumento del costo della vita dovuto all’incremento interno dei prezzi del gas e all’introduzione dell’IVA nel 2015. 


All’inizio di aprile re Salman aveva annunciato misure straordinarie a sostegno del settore privato, che includevano lo stanziamento di 2,4 miliardi di dollari per pagare parte dei salari dei lavoratori impiegati nel settore privato e dissuadere le aziende dal licenziamento del personale.


Il delicato quadro finanziario in cui versa oggi il Regno, tuttavia, non dipende esclusivamente dal rallentamento economico innescato dalla pandemia. Il germe della crisi si era già manifestato qualche anno fa. Nel 2015, quando Re Salman succedette al fratello, le riserve in valuta estera ammontavano a 732 miliardi di dollari mentre a dicembre 2019 erano calate a 499 miliardi, segnando una diminuzione di oltre 200 miliardi. Una traiettoria analoga, benché di segno opposto, si è prodotta anche con il debito pubblico, che negli ultimi cinque anni è cresciuto costantemente: nel 2014 ammontava a 12 miliardi di dollari, quattro anni dopo era salito a 151 miliardi e nel 2019 era pari a 183 miliardi, segnando in cinque anni una crescita in termini assoluti del 1500% e passando, in percentuale rispetto al PIL, dall’1,6% al 23%


Oltre al crollo del prezzo del petrolio, sull’economia saudita stanno gravando anche l’aumento della spesa pubblica in ambito sanitario per garantire l’assistenza ai malati di Covid-19, la diminuzione dei ricavi non petroliferi legati all’interruzione delle attività produttive e alla sospensione del turismo religioso nelle città di Mecca e Medina, che genera entrate pari a 12 miliardi di dollari l’anno. Nel Regno il lockdown è entrato in vigore il 25 marzo e prevedeva inizialmente il divieto di entrare e uscire da Mecca, Medina e Riyadh – le città con il maggior numero di casi di Coronavirus, e di circolare tra le province. Sulla situazione economica del Regno graverà ulteriormente la decisione di limitare il pellegrinaggio annuale, previsto nel 2020 per la fine di luglio e l’inizio di agosto, ai soli residenti nel Paese. In caso di annullamento, al danno economico – il pellegrinaggio è un elemento centrale dell’economia saudita, basti pensare che nel 2019 erano affluiti a Mecca 2,5 milioni di fedeli – si aggiungerebbero anche le ricadute sul piano simbolico: è infatti attraverso la custodia delle città sante di Mecca e Medina che i Sa‘ūd legittimano il loro ruolo di leadership nel Paese, e il titolo di cui si fregia il sovrano saudita “khādim al-haramayn – custode dei due luoghi santi” ricorda costantemente il compito di cui si vuole investita la famiglia reale.

 


Quale futuro per la Vision2030


Peraltro, le misure intraprese dal Regno potrebbero non rivelarsi sufficienti per fronteggiare la crisi, e quest’ultima potrebbe avere delle ripercussioni anche a livello socio-politico. 
Il contratto sociale saudita che regola il rapporto tra i sudditi e la famiglia regnante si fonda su un generoso sistema di welfare in cambio del quale i cittadini promettono totale fedeltà ai Sa‘ūd, accettano il ruolo di sudditi, l’assenza di rappresentanza politica e le misure repressive messe in atto di tanto in tanto dal governo in nome della sicurezza e del benessere. Con la drammatica riduzione dei proventi del petrolio non è però scontato che il governo riesca a mantenere invariato questo stato di cose. Quasi i due terzi dei sauditi sono infatti impiegati pubblici e le retribuzioni statali rappresentano circa la metà della spesa del governo. 


L’Arabia Saudita tuttavia, non è l’unico Paese interessato da questa forma di contratto sociale, poiché questa configurazione dei rapporti tra sovrano e cittadini è piuttosto diffusa anche in altri Paesi del Golfo. Se dovessimo stilare una classifica degli Stati del Golfo con il più alto tasso di impiegati statali, sul podio salirebbero gli Emirati Arabi Uniti (93%), il Qatar (90%) e il Kuwait (79%), seguiti immediatamente dall’Arabia Saudita (66%). Questo sistema è evidentemente molto problematico: genera la corsa al posto pubblico a scapito del settore privato, non garantisce la qualità delle prestazioni lavorative e diventa sempre più insostenibile a fronte dell’importante tasso di crescita demografica. 


Negli anni, l’Arabia Saudita ha cercato di rimediare a questo problema attuando una politica di “saudizzazione”, una strategia di sviluppo pensata dal ministero del Lavoro in base alla quale le società private, saudite o straniere, con sede nel Regno, sono tenute ad assumere una quota di cittadini sauditi determinata sulla base del numero complessivo dei dipendenti dell’azienda. Questa politica è stata tentata molte volte, ma sempre senza successo. La campagna di sostituzione dei lavoratori stranieri con lavoratori locali infatti va avanti dagli anni ’80, quando fu lanciato il quarto piano di sviluppo quadriennale (1985-1989). Da allora, sono seguiti altri sei piani di sviluppo e tutti prevedevano una diminuzione delle quote di manodopera straniera a favore dei cittadini sauditi. Negli ultimi anni, inoltre, il governo saudita ha aperto alcune posizioni lavorative riservate esclusivamente ai suoi cittadini che, secondo le statistiche pubblicate dalla General Authority for Statistics, nel 2018 rappresentavano il 63% dei 33 milioni di residenti nel Regno. Il problema non sembra dunque risolto, anche perché il sistema d’istruzione saudita non è particolarmente d’aiuto essendo carente sotto tanti punti di vista nonostante l’astronomico budget annuale destinato alla scuola ($53 miliardi nel 2017, pari all’8% del PIL).   


La politica di saudizzazione peraltro è anche uno dei punti forti della Vision2030, il piano di sviluppo socio-economico lanciato da Muhammad bin Salman ad aprile 2016 per diversificare l’economia, creare nuove opportunità di lavoro e innalzare la qualità della vita nel Regno. Sostanzialmente il progetto si articola in 96 obbiettivi che interessano tre macro-aree, indicate nei documenti ufficiali attraverso altrettanti altisonanti slogan: “una società viva, un’economia fiorente e una nazione ambiziosa”. Per realizzare la Vision, nel 2017 il Consiglio per gli Affari economici e lo Sviluppo ha creato dodici programmi. Uno di questi è il Programma di trasformazione nazionale 2018-2020. Esso prevede, tra le tante iniziative, la messa in campo di misure a sostegno dell’impresa privata, che oggi rappresenta ancora una minima parte delle attività produttive presenti nel Regno. Nello specifico il Programma si propone di agevolare gli imprenditori che vogliono aprire un’attività, attrarre investimenti dall’estero, sviluppare l’economia digitale e il settore della vendita, e promuovere la cultura dell’imprenditoria e dell’innovazione per far sì che le piccole e medie imprese possano creare posti di lavoro e contribuire al PIL nazionale.  


Il Public Investment Fund Program (PIF), presieduto da MBS, è invece il programma che dovrebbe fungere da motore della diversificazione economica del Regno e dello sviluppo dei settori strategici, trasformare il Fondo d’Investimento Pubblico (PIF) nel maggiore fondo sovrano al mondo e costruire delle partnership economiche internazionali strategiche per rafforzare il ruolo dell’Arabia Saudita a livello regionale e globale.


Questo fondo è alimentato in larga parte da finanziamenti provenienti dal Governo, dal trasferimento di beni pubblici, da prestiti e altri strumenti di debito, e dagli utili ricavati dagli investimenti. Una parte di questo fondo è destinata al finanziamento di tre grandi progetti, punte di diamante della Visione di MBS: Neom, la smart city iper-automatizzata che dovrebbe ospitare 1 milione di abitanti dal 2030; il progetto Mar Rosso, che prevede lo sviluppo di un’area di resort di lusso su 90 isole naturali della costa occidentale del Regno; e al-Qiddiya, una città per l’intrattenimento, lo sport e la cultura che dovrebbe sorgere a 40 chilometri da Riyadh ed essere completata nel 2022. L’agenda di spending review adottata dal Regno a inizio maggio per far fronte alla crisi economica conseguente alla pandemia prevede il taglio di quasi 8 miliardi di dollari inizialmente destinati alla realizzazione di questi progetti. Il Coronavirus sta mettendo alla prova le ambizioni del principe ereditario e la Vision2030 corre il rischio di diventare la prossima vittima della pandemia.

 

 

Il nazionalismo populista di MBS


In un futuro non troppo lontano, la crisi economica rischia di minare anche la narrazione di MBS, fondata su un’idea (piuttosto costosa!) di Paese, difficilmente realizzabile se il prezzo del greggio non risalirà già nei prossimi mesi ai livelli pre-crisi.  


Oggi sembra lontano il tempo in cui l’Islam era la sola identità dell’Arabia Saudita, o in cui essa si identificava con l’ideologia pan-islamica. Il nazionalismo islamico, che ha dominato il Paese dalle origini ai primi decenni successivi alla nascita del terzo Stato saudita nel 1932, ha agito da collante tra le diverse tribù ed etnie che abitavano il territorio, contribuendo a creare quel senso di appartenenza nazionale necessario a mantenere la coesione e governare. Successivamente, negli anni della guerra fredda, l’Arabia Saudita avrebbe rivendicato la propria leadership islamica globale in qualità di custode dei luoghi sacri di Mecca e Medina, finendo per promuovere un’identità pan-islamica transnazionale. In entrambe le fasi, lo Stato era il gestore della politica mentre l’establishment religioso aveva in carico la sfera religiosa, culturale e sociale. Ciò che cambiava era il livello di proiezione islamica internazionale: se nella prima fase si pensava a livello locale, nella seconda fase si faceva leva sulla capacità di incidere a livello globale.


Questi modelli sembrano essere stati superati dall’ascesa di MBS, che ha avviato un’importante opera di rebranding. Si tratta tuttavia di un cambio di rotta che ha origini più lontane. Già durante il regno di re ‘Abdullah (regno 2005-2015) infatti era stato fatto qualche tentativo per superare il primato dell’establishment religioso nella gestione delle pratiche sociali, per esempio rendendo festivo il giorno della festa nazionale saudita (23 settembre) contro il volere delle autorità religiose che vedevano in questa decisione un distacco dalla tradizione. 


Oggi, il modello ideale di cittadino saudita non è più il musulmano pio che conosce a memoria i detti del Profeta sapendo citare quello giusto nell’occasione giusta, o la famiglia che iscrive il figlio alla gara di Corano nella speranza che vinca il primo premio, rigorosamente finanziato dalle casse dello Stato. E non lo è neppure il giovane che per cenare al ristorante si trova a dover scegliere tra la “family section” o la “men section”, dal momento che la segregazione dei sessi nei locali pubblici è stata superata da un decreto a fine 2019. 


Quella di MBS è una narrazione populista in cui l’ideologia islamica e pan-islamista, che dagli anni ’60 ha consentito di diffondere il wahhabismo in tutto il mondo islamico, ha lasciato il posto alla promozione di uno spirito “imprenditoriale” locale. La nuova retorica del principe ereditario celebra la gioventù saudita (gli under 30 costituiscono il 60% della popolazione), che partecipa attivamente allo sviluppo economico del Paese accettando di buon grado il superamento del vecchio contratto sociale su cui da decenni si fonda il rapporto tra sudditi e re, e che si mostra fedele alla monarchia assoluta in cambio di un allentamento delle restrizioni sociali e della concessione del diritto al divertimento, negato fino a qualche anno fa. 


In Arabia Saudita l’industria del divertimento era quasi inesistente fino al 2018; per molti anni le uniche fonti di svago erano rappresentate da Manama, capitale del vicino Bahrein, dove i sauditi residenti nella provincia Orientale si recavano a frotte nel fine settimana, le feste organizzate dalle ambasciate e dai consolati per gli expat e a cui partecipavano anche i (pochi “fortunati”) sauditi di Riyadh e Jeddah con le giuste entrature, o le feste nelle abitazioni private. Oggi il mercato dell’intrattenimento offre molto più rispetto al nulla del passato – il primo cinema ha aperto a Riyadh nella primavera del 2018, e lo stesso anno è stato consentito alle donne di assistere alle partite di calcio nello stadio di Jeddah, per non parlare della tanto celebrata – dai media sauditi ma anche e soprattutto da quelli occidentali – abolizione del divieto di guida per le donne da giugno 2018. Il giovane principe, classe 1985, punta dunque a raccogliere il consenso dei giovani promettendo loro meno conservatorismo sociale e zelo religioso, e più divertimenti e opportunità di impiego in cambio della fedeltà alla corona. 


In questo quadro rientra anche il superamento dell’avversione per il patrimonio culturale pre-islamico, tradizionalmente alimentata dagli ambienti salafiti. Com’è noto, il salafismo tende a eliminare la memoria di tutto ciò che precede l’avvento dell’Islam, comprese le tracce delle civiltà sorte nella cosiddetta Jāhiliyya, l’epoca dell’ignoranza pre-islamica. Se fino a qualche anno fa l’unico sito storico degno di tale nome era Dir‘iyya, insediamento a nord di Riyadh e capitale del primo Stato saudita fino al 1824, oggi la storia e la cultura del Paese sembrano diventate prioritarie nella visione di MBS. I siti archeologici come Mada’in Salah e al-Ula, antichi insediamenti nabatei situati 400 chilometri a nord di Medina, o il quartiere di al-Balad, la parte più antica della città di Jeddah, con i suoi palazzi di epoca ottomana costruiti in pietra corallina e legno intarsiato, sono diventati il fiore all’occhiello della campagna turistica lanciata dal principe ereditario, a dispetto dell’oblio in cui erano caduti per diversi decenni. L’inedita apertura al turismo è effettivamente uno degli obbiettivi del National Transformation Program, che prevede l’accesso ai visitatori di 447 siti turistici entro il 2020 (contro i 241 del 2017) e un giro di affari di oltre 17 miliardi di dollari. L’Arabia Saudita, che in passato ha sempre avuto regole piuttosto restrittive per l’ingresso di visitatori stranieri, da settembre 2019 si è aperta definitivamente al turismo internazionale. Che lo sviluppo del turismo fosse parte integrante del programma del principe è diventato chiaro nel 2017, quando è stata istituita la Royal Commission for alUla, finalizzata a preservare e valorizzare questo sito vecchio di 2000 anni. A pochi mesi di distanza il principe avrebbe lanciato il progetto per il Restauro delle moschee storiche, che finora ha portato al restauro di 30 moschee in diverse regioni del Paese per un costo totale di 50 milioni di reali. Nonostante le testate giornalistiche saudite continuino a pubblicizzare il patrimonio artistico-culturale del Regno e l’inedita apertura del Paese al turismo esterno, anche questo progetto rischia di essere seriamente compromesso dalla diffusione della pandemia.  

 

 

Il trono di spade


Il “nuovo corso” di MBS, tuttavia, non prevede il superamento delle politiche repressive che, anzi, si sono fatte ancora più severe non soltanto verso chi manifesta il proprio dissenso, ma anche verso chi risulta troppo tiepido nel mostrare la propria accondiscendenza verso la monarchia. Le parole “traditore” e “nemico” sono entrate nel vocabolario corrente della retorica del giovane principe ed è in quest’ottica che devono essere interpretate le campagne di arresto lanciate dal 2017 a oggi contro predicatori, attivisti per i diritti umani, membri della famiglia reale e uomini d’affari. Alla prima campagna di arresti dell’autunno 2017 che ha portato alla detenzione di predicatori e intellettuali accusati di complottare con i nemici (in particolare i Fratelli musulmani e il Qatar) ai danni dello Stato, è seguita l’operazione che ha portato alla detenzione presso l’hotel Ritz Carlton di Riyadh di ex esponenti dell’apparato statale e influenti uomini di affari, accusati di corruzione e successivamente rilasciati su pagamento di laute cauzioni. A pochi mesi di distanza è seguito l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post, ucciso il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato saudita di Istanbul. All’inizio del 2020 un altro giro di purghe ha portato in prigione, tra gli altri, l’ex ministro dell’Interno ed ex principe ereditario Muhammad bin Nayef, il fratello di quest’ultimo Nawaf bin Nayef, e Ahmed bin Abdulaziz, unico fratello ancora in vita di re Salman. Quest’ultima tornata di “arresti reali” sembra essere dettata dal tentativo del giovane principe di assicurarsi il trono consolidando la sua precedenza nella linea di successione. Muhammed bin Nayef e Ahmed bin Abdulaziz sono effettivamente personalità ingombranti: il primo gode di un’ottima reputazione a Washington e nel 2017 ha ricevuto dall’allora direttore della CIA Mike Pompeo la medaglia George Tenet per il suo contributo all’antiterrorismo. Il secondo è il fratello minore di re Salman, a cui spetterebbe di diritto il trono se quest’ultimo non avesse invertito la logica di ascesa al potere introducendo un sistema verticale che prevede la trasmissione del potere da padre a figlio anziché da fratello a fratello come era stato dal 1932 al 2017. Sebbene il principe Ahmed abbia dichiarato pubblicamente più di una volta di non aspirare al trono, a metterlo in una posizione scomoda sarebbe stata la sua appartenenza al potente gruppo dei “sette Sudairi, un blocco di sette figli di re ‘Abdulaziz, nonno di MBS e fondatore del terzo regno saudita, nati dalla sua moglie preferita, Hussa bint Ahmed al-Sudairi. Due di questi fratelli sono ascesi al trono, re Fahd che ha governato dal 1982 al 2005, e l’attuale re Salman in carica dal 2015, mentre gli altri cinque hanno ricoperto importanti cariche istituzionali. Il principe Ahmed è finito nell’occhio del ciclone anche per le critiche rivolte alle politiche di MBS: nel 2015 aveva preso pubblicamente posizione contro la campagna militare saudita iniziata in Yemen, e nel 2017 si era opposto alla decisione di re Salman di cambiare le logiche di successione al trono a favore del figlio.    


Nelle ultime settimane, diversi principi e principesse saudite detenute hanno cercato il sostegno di Washington, prendendo contatto con avvocati e lobby vicini al presidente Trump, nella speranza che il governo americano possa esercitare pressioni sulla famiglia reale per il loro rilascio, ciò che conferma le profonde divisioni che lacerano da tempo la famiglia reale saudita. 


Sul piano religioso, la Vision2030 di MBS è guidata dall’idea del ritorno a un fantomatico Islam moderato delle origini. Già nel 2018 in un’intervista rilasciata ai media internazionali, MBS aveva espresso l’idea che i guai dell’Islam fossero iniziati nel 1979, con la rivoluzione iraniana e l’assedio della moschea di Mecca ad opera del gruppo di ribelli capeggiato da Juhainam al-Otaybi. Nella sua narrazione, questi due eventi avrebbero favorito la diffusione in tutto il mondo islamico di interpretazioni radicali dell’Islam veicolate dagli islamisti. Così facendo il principe solleva il Regno da qualunque responsabilità, e adombra l’idea che esso fosse un’oasi di tolleranza prima dell’avvento dell’anno di tutti i mali, dimenticando (od omettendo volutamente) come sia stato proprio l’impeto jihadista a permettere ai suoi antenati di unificare le tribù da cui si sarebbero costituiti i primi regni sauditi. Al netto di queste considerazioni, MBS dovrà essere abile a non alienarsi totalmente l’establishment wahhabita e mantenere intatto quel sottile equilibrio che storicamente ha consentito ai Sa‘ūd di esercitare l’autorità sul Paese del Golfo, un’alleanza che potrebbe tornare utile nel caso (piuttosto probabile!) in cui i risultati economici della Vision dovessero farsi attendere e il malcontento iniziare a serpeggiare tra la popolazione.  

 

 

Un uomo solo al comando


Nel delicato quadro economico che va profilandosi a seguito della pandemia, MBS sta intensificando gli sforzi di propaganda nel tentativo di consolidare il culto della sua persona e garantire la stabilità del sistema. Nel giorno del terzo anniversario della sua nomina a principe ereditario (19 maggio 2020), la stampa saudita in lingua araba ha dato ampio risalto all’evento, a differenza dei quotidiani locali in inglese. Il quotidiano pro-governativo Al-Riyadh ha dedicato una quarantina di pagine alla ricorrenza, titolando a caratteri cubitali «Mano nella mano rimarremo fedeli alla promessa…ciò che è stato realizzato ha superato la barriera del tempo». Le pagine successive contenevano numerosi trafiletti di elogio al principe redatti dai governatori delle tredici province del Paese – si direbbe che il governatore del Qassim, Faysal bin Mish‘al Āl Sa‘ūd, abbia particolarmente a cuore la questione a giudicare dal numero di spazi acquistati all’interno del giornale –, a cui si alternavano pagine acquistate da famiglie discendenti da influenti tribù arabe (per esempio gli al-Jarba, ramo della tribù degli Shammar), da aziende e società saudite pubbliche e private (tra cui la società di assicurazione sanitaria Bupa, il gruppo finanziario Samba, la società di risorse umane Mahara, l’azienda fornitrice di energia elettrica al-Ojaimi…) che rinnovavano pubblicamente il patto di fedeltà al re e al principe alla corona.

 

Lunghi articoli, intervallati da immagini celebrative di MBS ritratto insieme al padre, raccontavano le glorie del giovane principe, descritto con epiteti altisonanti: “architetto della sagace politica moderna”, “leader d’eccezione, che guarda al futuro e costruisce la storia”, “l’uomo dei cambiamenti storici”, “il fautore della rinascita saudita”. Tra i meriti riconosciuti al principe quello di aver rafforzato la posizione del Regno a livello politico, economico e internazionale, di aver guidato il Paese verso il progresso culturale e sociale, e realizzato le speranze delle donne, concedendo loro di guidare e di accedere al mercato del lavoro. Com’è normale nel giornalismo di propaganda, nessun accenno veniva fatto alla detenzione delle femministe saudite come Loujain al-Hathloul, Aziza al-Yousif o Hatoon al-Fassi. 


Nella narrazione giornalistica saudita, MBS è l’uomo che guarda al futuro e difende, allo stesso tempo, la tradizione. Il giorno successivo all’anniversario, sempre al-Riyadh pubblicava un’immagine che ritraeva MBS insieme al padre e al nonno ‘Abdul ‘Aziz ibn Saud, fondatore e sovrano del terzo regno saudita per oltre vent’anni. Un titolo altisonante accompagnava l’iconica raffigurazione: “Il discendente della gloria, in continuità con il padre e il nonno”. Curiosamente, questa pagina è stata sponsorizzata dalla Saudi Telecom Company (STC), compagnia telefonica di cui è azionista il PIF (Public Investment Fund), presieduto da MBS. Il ricordo del passato peraltro è costantemente celebrato dallo stesso MBS che in un tweet fissato dal 2017 sulla bacheca del suo account Twitter scrive: “Se non sai da dove sei partito, non sai dove stai andando” per poi rilanciare la canzone “Started with the desert”, composta da una band pakistana nel 1992 in occasione della festa nazionale saudita per celebrare la storia del Regno e le glorie della famiglia Saud.   

 

 

Una difficile partita


La crisi globale generata dalla diffusione del Coronavirus sta mettendo a rischio la tenuta del sistema economico, politico e sociale del più grande rentier state del Golfo. Con il prezzo del petrolio più che dimezzato dalla fine del 2019 a oggi, ci sono buone ragioni per credere che l’Arabia Saudita non sarà risparmiata dalla prospettiva della recessione globale. Il sistema economico del Paese si fonda principalmente sulla rendita derivante dall’esportazione del greggio, i cui proventi vengono redistribuiti ai cittadini sotto forma di impieghi nel settore pubblico, sussidi e servizi completamente gratuiti. Secondo una stima del Fondo monetario internazionale, per alimentare questo sistema occorre che il prezzo del petrolio si stabilizzi sui 76 dollari al barile. Se questo non dovesse verificarsi in tempi brevi, il governo si vedrà costretto a ridurre drasticamente il welfare e ad aumentare ancora la pressione fiscale, mettendo definitivamente fine all’assunto su cui da anni si fondano i rentier state del Golfo: no participation without taxation. MBS potrebbe allora trovarsi a fare i conti con il malcontento popolare e non sarà facile per lui – oggi pressoché solo al comando, dopo essersi alienato una parte della famiglia reale e dell’establishment religioso – salvare il Paese dal declino. La narrazione fatta di grandi progetti e di un energico nazionalismo populista potrebbero infatti non essere più sufficienti. A quel punto al principe ereditario rimarrebbe soltanto l’opzione della repressione iper-autoritaria (già ampiamente praticata senza troppe remore) per vincere una partita che si sta facendo sempre più difficile. 

 

 

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