Un bilancio del viaggio nel Golfo, tra necessità americane e nuovi interessi regionali: Washington riallaccia con i suoi partner, ma i risultati concreti sembrano modesti

Ultimo aggiornamento: 19/07/2022 17:22:14

La tournée mediorientale del presidente americano Joe Biden, la prima da quando questi siede alla Casa Bianca, aveva lo scopo di rilanciare la partnership tra Washington e Paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, per fermare la perdita di terreno degli Stati Uniti nei confronti di Cina e Russia e convincere i regnanti di Riyad a mitigare gli effetti della guerra in Ucraina sul fronte energetico. Ha raggiunto i suoi scopi? I risultati che traspaiono dal comunicato congiunto tra gli Stati Uniti d’America e il Regno d’Arabia Saudita, rilasciato dopo i vari colloqui tra il capo di Stato americano e la leadership – formale e de facto – del Regno, sono modesti, soprattutto se paragonati con gli ambiziosi e irrealistici proclami che erano circolati nei giorni precedenti al viaggio: normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, NATO del Medio Oriente, aumento della produzione di petrolio.

 

Nel primo ambito si è comunque registrato qualche progresso. L’Arabia Saudita ha aperto il suo spazio aereo a tutti i vettori civili, compresi quindi quelli israeliani, mentre Israele ha dato il benestare definitivo al passaggio delle isole Tiran e Sanafir dall’Egitto all’Arabia Saudita. Queste decisioni certificano che i rapporti tra Riyad e Gerusalemme godono di ottima salute, anche se servirà tempo per arrivare a un riconoscimento diplomatico ufficiale. La leadership saudita ha comunque negato di avere progetti che vanno in questa direzione, rifugiandosi in dichiarazioni di circostanza sulla questione palestinese alle quali è sempre più difficile credere.

 

I risultati del viaggio sono modesti, soprattutto se paragonati agli ambiziosi e irrealistici proclami dei giorni precedenti 

Biden ha poi ribadito l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza della regione e la propria determinazione a garantire la deterrenza nei confronti dell’Iran e impedire che quest’ultimo si doti di armi nucleari. Come? I tentativi di rispondere a questa domanda sfociano in un groviglio di contraddizioni. Se il ripristino del JCPOA (l’accordo sul nucleare iraniano) potrebbe scongiurare il pericolo, ma appare sempre più improbabile, anche per l’opposizione di alcuni Stati arabi della regione, il confronto aperto sembra invece la strada più certa per convincere Teheran della necessità di avere un arsenale atomico. Biden, che nell’editoriale consegnato la settimana scorsa al Washington Post per spiegare le ragioni del suo viaggio si era vantato di essere il primo presidente americano dall’11 settembre 2001 a visitare il Medio Oriente senza che vi fossero impegnate delle truppe statunitensi, ha lasciato intendere durante la sua sosta a Gerusalemme di non escludere un intervento militare contro la Repubblica islamica. Arabia Saudita ed Emirati, che negli ultimi anni avevano lamentato gli effetti del ripiegamento strategico americano sulla propria sicurezza, indicando proprio nell’Iran una minaccia esistenziale, hanno mostrato una posizione più cauta. Il consigliere del Presidente emiratino ed ex ministro degli Esteri della Federazione Anwar Gargash ha anche affermato che Abu Dhabi non fa parte di alcun asse contro Teheran e che la parola d’ordine di questo decennio deve essere “de-escalation”. Difficile in questo scenario trovare la quadratura del cerchio: saggiamente, Arabia Saudita ed Emirati non vogliono un conflitto che sarebbe devastante per tutta l’area (e non solo); allo stesso tempo, però, rifiutano la reintegrazione dell’Iran nel sistema regionale, perché temono che questo assegnerebbe a Teheran una posizione egemonica.

 

Quanto alla produzione petrolifera, Biden ha dichiarato che tra un paio di settimane i portafogli dei cittadini americani inizieranno a beneficiare dei frutti dei suoi incontri, ma le rassicurazioni saudite circa la stabilità del mercato globale dell’energia rimangono vaghe, se non ambigue, e bisognerà aspettare il prossimo incontro dell’OPEC+ per sapere se Riyad intende davvero soddisfare le richieste dell’alleato americano.

 

In ogni caso, grazie alla sponda di Israele, prima tappa del viaggio di Biden, e all’espediente dell’incontro allargato a tutti i leader della regione, il presidente americano è riuscito a riallacciare con un Paese con cui i rapporti erano precipitati, ma la cui l’imprescindibilità è stata messa in evidenza dalla guerra in Ucraina. A guadagnarci davvero sono senza dubbio i governanti dell’area, a partire da quelli sauditi. Questi, oltre ad aver potuto fare sfoggio della ritrovata centralità regionale del Regno, hanno incassato la legittimazione americana del principe saudita Muhammad Bin Salman, sempre più saldo nella sua strada verso la successione al trono del Regno nonostante l’affaire Khashoggi. Biden ha anche lodato il nuovo corso della Monarchia, manifestando apprezzamento per la Vision2030 e per l’impegno profuso «nella promozione della partecipazione delle donne all’economia e del dialogo interreligioso».

 

Tacere di fronte a una chiara violazione dei diritti umani è del tutto incoerente con chi siamo, con quel che siamo, con quello che faremmo e con quello che crediamo - Joe Biden

 

Determinato a percorrere il crinale strettissimo tra idealismo e realpolitik, Biden non ha rinunciato a sollevare la questione del dissidente saudita ucciso a Istanbul nel 2018: «per il presidente degli Stati Uniti – ha detto l’inquilino della Casa Bianca dopo gli incontri con la leadership saudita – tacere di fronte a una chiara violazione dei diritti umani è del tutto incoerente con chi siamo, con quel che siamo, con quello che faremmo e con quello che crediamo». L’appello è stato rispedito al mittente prima ancora di essere enunciato. In una lettera aperta rivolta al presidente americano dieci giorni prima della sua partenza, il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla aveva esplicitamente invitato Biden a «evitare irritanti discorsi sui diritti umani e la democrazia». Dal canto suo, Mohammed bin Salman, principale indiziato come mandante dell’omicidio Khashoggi, non si è limitato a respingere le accuse, ma ha ricordato a Biden gli abusi di Abu Ghraib e l’inerzia americana di fronte all’uccisione della giornalista palestinese Shirin Abu Aqleh. Rispondendo alle domande della CNN, il Ministro di Stato agli Affari Esteri, Adel Jubair ha poi detto candidamente che «quello che voi chiamate dissenso dal nostro punto di vista è un atto di terrorismo». Gli Emirati ci hanno messo del loro, arrestando a Dubai Asim Ghafoor, ex avvocato di Jamal Khashoggi, il giorno prima dell’arrivo di Biden a Gedda.

 

I Paesi del Golfo perseguono sempre più autonomamente i loro interessi, anche guardando a Cina e Russia Alle divergenze radicali sulla questione dei diritti umani si aggiunge una distanza di fondo sulle reciproche visioni dell’ordine internazionale. Soprattutto da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti stanno visibilmente spingendo, attraverso la retorica dello scontro tra democrazia e dittatura, per riaffermare uno schema bipolare con il quale hanno decisamente più dimestichezza. Se ai tempi della guerra fredda l’alleanza tra Washington e Riyad aveva fatto leva su una forte convergenza anti-sovietica e la “guerra al terrore” non aveva faticato a far breccia tra i governanti sauditi, alle prese anche loro con una minaccia jihadista interna (e con altre forme di dissenso), ora le monarchie del Golfo non hanno ragioni altrettanto solide per distanziarsi da Russia e Cina, due Paesi con cui condividono interessi e valori senza doversi giustificare per il loro deficit democratico. Biden ha promesso che in Medio Oriente gli Stati Uniti non «lasceranno un vuoto che Cina e Russia possano riempire». Tuttavia i regimi del Golfo stanno scommettendo su un mondo multipolare e giocano secondo le regole che questo impone. È sufficiente sfogliare i giornali sauditi degli ultimi giorni per rendersene conto. Domenica scorsa il quotidiano panarabo, ma di proprietà della famiglia reale, al-Sharq al-Awsat ha celebrato in prima pagina la ritrovata intesa con gli americani; lunedì, tra gli editoriali si poteva leggere un articolo dell’ambasciatore cinese a Riyad, che criticava la «barbara aggressione» degli Stati occidentali ai danni dei Paesi di Asia, Africa e America latina e indicava nelle relazioni sino-arabo un modello per le relazioni internazionali.

 

Il presidente americano ha lanciato il messaggio di un rinnovato impegno americano in Medio Oriente, ma è difficile che questo basti a invertire un processo che precede l’amministrazione Biden e continuerà nonostante gli sforzi contrari di Washington.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici

Tags