Benché impegnati a cercare un difficile equilibrio tra Mosca e Washington, Emirati e Arabia Saudita non hanno nascosto le loro inclinazioni pro-russe. Questo rivela un movimento culturale più profondo, le cui radici precedono il conflitto in Ucraina e le cui ramificazioni annunciano tendenze valide per il Medio Oriente dei prossimi anni

Ultimo aggiornamento: 06/06/2022 09:42:38

Anche se tra crisi e contraddizioni, la partnership tra Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti è stata una costante degli ultimi decenni. Dall’avvento dell’amministrazione Biden, e soprattutto da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, i segnali che provengono dai due Paesi del Golfo annunciano una significativa inversione di tendenza. Benché formalmente equidistanti tra le parti in conflitto e impegnati a cercare un difficile equilibrio tra Mosca e Washington, infatti, Emirati e Arabia Saudita non hanno fatto molto per nascondere le loro simpatie pro-russe. Il principe ereditario saudita Muhammad Bin Salman ha rifiutato una conversazione telefonica con Biden solo pochi giorni dopo aver sentito Putin; gli Emirati hanno invece accolto il presidente siriano Assad, alleato di Putin inviso a Washington, e inviato il loro ministero degli Esteri a Mosca per un incontro con il presidente russo, mentre Dubai è diventata il principale rifugio degli oligarchi russi in fuga dalle sanzioni occidentali.

 

Le preferenze politiche dei due Paesi traspaiono anche dai contenuti dei loro media, tanto critici nei confronti degli Stati Uniti quanto accondiscendenti verso gli argomenti di Mosca. Tra i molti esempi spicca il lungo articolo del leader ceceno Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin e neopromosso generale dell’esercito russo, che sul quotidiano emiratino Al-Ain ha annunciato il “crollo del mondo unipolare” riportando pedissequamente le tesi del Cremlino sull’“operazione speciale in Ucraina”.

 

Le ragioni più immediate di questa scelta di campo vanno cercate nell’irritazione per il parziale disimpegno statunitense dal Medio Oriente e nella manifesta antipatia tra il presidente Biden e le leadership di Arabia Saudita ed Emirati. Le ha esplicitate con chiarezza il politologo emiratino Abdulkhaleq Abdulla in un articolo in cui si legge che le relazioni tra il suo Paese e gli Stati Uniti si trovano al punto più basso degli ultimi 50 anni e che l’amministrazione Biden «rischia di perdere un partner regionale sempre più sicuro di sé».

 

Non bastano tuttavia queste considerazioni a spiegare l’evoluzione della geopolitica mediorientale. Le inclinazioni pro-russe del Golfo rivelano anche un movimento culturale più profondo, le cui radici precedono il conflitto in Ucraina e le cui ramificazioni annunciano tendenze valide per il mondo arabo dei prossimi anni. Oltre che da interessi contingenti, Russia, Arabia Saudita ed Emirati sono legati anche da un un’avversione profonda per le manifestazioni di piazza, l’attivismo della società civile e i processi di democratizzazione. Non a caso i tre Paesi si trovano dalla stessa parte in Libia, hanno appoggiato l’ascesa del generale al-Sisi in Egitto e stanno convergendo nella loro posizione sulla Siria, dove inizialmente Riyad e Abu Dhabi erano favorevoli a un cambio di regime che avrebbe ribaltato gli equilibri regionali a scapito dell’Iran. D’altronde Muhammad Bin Salman e Muhammad Bin Zayed non vedrebbero probabilmente troppo male un successo russo in Ucraina, a certificare che il vento della storia soffia nelle vele delle autocrazie.

 

Allo stesso tempo, il modello russo non riflette del tutto le aspirazioni di Emirati e Arabia Saudita. È difficile che le due monarchie del Golfo si riconoscano nelle ossessioni passatiste di Putin e nelle cupe pulsioni reazionarie degli ideologi che informano la visione del mondo del Cremlino. Riyad e soprattutto Abu Dhabi sono proiettate verso il futuro, si trovano a loro agio nella globalizzazione e guardano perciò con ammirazione alla potenza del sistema tecnico americano. Ad allontanarle dagli Stati Uniti sono piuttosto i richiami ciclici alla democrazia e ai diritti umani. Le attuali tensioni tra Washington e Riyad, per esempio, sono esplose quando l’amministrazione Biden ha esplicitamente accusato il principe ereditario saudita di essere il mandante dell’omicidio Khashoggi. Peraltro, il catalogo dei diritti umani promossi dall’Occidente si va sempre più ampliando, finendo per delineare un’antropologia che è profondamente diversa da quella della Dichiarazione Universale del 1948 e la cui universalità resta tutta da dimostrare.

 

Si capisce allora la crescente sintonia tra questi Paesi e la Cina. Il gigante asiatico è saldamente collocato nel campo degli autoritarismi, ma è in grado di competere con la forza economica e tecnologica degli Stati Uniti. Già nel suo Lo scontro delle civiltà, Samuel Huntington prevedeva la formazione di un asse “islamo-confuciano”, non sulla base di un’inesistente affinità religiosa e culturale tra mondo musulmano e mondo cinese, bensì in ragione della loro comune ostilità nei confronti dell’Occidente, soprattutto in tema di democrazia e diritti dell’uomo. A differenza di quanto Huntington pensava, tuttavia, l’allontanamento di Paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati dagli Stati Uniti non è l’esito di qualche forma di risveglio islamico; nasce piuttosto dalla volontà di questi Paesi di affermare la propria autonomia all’interno di un sistema multipolare. In ogni caso, che confermi o meno la tesi del politologo americano, la recente partecipazione del ministro degli Esteri cinese all’incontro dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica ha senza dubbio un forte valore simbolico, tanto più se si pensa alla questione del Xingjang.

 

Questi sviluppi pongono naturalmente più di un interrogativo all’Occidente. A essere in gioco al momento non è la supremazia americana. Gli Stati Uniti rimangono la prima potenza militare del pianeta e né la Cina né la Russia sarebbero in grado di farsi carico della sicurezza dei Paesi del Golfo, per i quali il ripiegamento strategico di Washington rappresenta innanzitutto un motivo d’inquietudine.

 

Il tema di fondo è semmai il rapporto tra l’Occidente e il resto del pianeta. Nelle conclusioni del suo magnum opus, sempre Huntington affermava che l’universalismo degli Stati Uniti, cioè la volontà esportare il proprio modello, era una minaccia per l’Occidente e per il mondo. Da allora, la diffusione planetaria dei valori occidentali è stata seriamente compromessa da una serie di clamorosi fallimenti, a partire dalla scellerata idea di esportare la “democrazia” attraverso le armi.

 

L’unificazione tecnologica del pianeta operata dalla globalizzazione, inoltre, non solo non ha generato alcuna cultura universale, ma ha creato l’ambiente propizio per l’affermazione di forme di dominio e autoritarismi sempre più sofisticati.

Criticare tale deriva non significa necessariamente rassegnarsi al relativismo. Non si tratta di rinunciare alla promozione di valori universali, bensì alla loro enunciazione ed applicazione astratta, privilegiando invece un rapporto dinamico tra culture che permetta di riconoscere e valorizzare ciò che è comune alle diverse tradizioni ed eventualmente criticare ciò che in ognuna di esse si rivela problematico o inadeguato. Per lo stesso Huntington, profondamente incompreso su questo punto, lo scontro delle civiltà non era un programma da realizzare, ma una grave minaccia da evitare. Per farlo era necessario a suo avviso favorire le relazioni e gli scambi tra culture (intese in modo troppo statico, questo sì), in modo che tutte cooperassero all’edificazione della civiltà (al singolare) contro la barbarie.

 

Porsi in questa prospettiva vuol dire in fondo prendere sul serio la visione più volte formulata da Papa Francesco, che in alternativa alla globalizzazione “sferica” e uniformante propone il modello del poliedro con molte facce, ognuna rispettata nel suo valore.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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