Durante la sua breve ma intensa visita a Rabat, il Papa si è trovato in grande sintonia con il re del Marocco. Rimangono differenze e punti sensibili, ma la strada della convivenza è tracciata

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:53

«Siii!», urlano in coro i ragazzi di una scolaresca, rispondendo all’insegnante che domanda loro se la convivenza interreligiosa sia possibile. Lo fanno al termine della visita a una mostra sulla presenza cristiana in Marocco, allestita presso l’Archivio del Regno a Rabat in occasione dell’arrivo del Papa nella capitale del Paese. La collezione presentata al pubblico non è invero particolarmente ricca: non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Marocco è stato tradizionalmente terra di coabitazione tra musulmani e ebrei più che tra musulmani e cristiani. Per l’epoca precoloniale si tratta soprattutto di salvacondotti concessi da califfi e sultani per permettere il transito o il soggiorno di religiosi cristiani sul loro territorio. Per il periodo successivo la mostra testimonia delle opere caritatevoli ed educative gestite in Marocco da congregazioni cattoliche e dei rapporti tra il Regno nordafricano e la Santa Sede. Sono invece assenti le pagine più scomode di questa storia, come la vicenda dei protomartiri francescani o la parziale compromissione del Cattolicesimo con il mondo coloniale. Quello che conta, infatti, è il messaggio contenuto nel sottotitolo: “La vita in comune”, che il Regno si è impegnato a diffondere nelle scuole per preparare le nuove generazioni non solo a ricevere il Pontefice, ma anche a immunizzarsi dall’esclusivismo fondamentalista.  

 

Dal 2003, anno degli attentati di Casablanca, il re Muhammad VI ha intrapreso un’opera di rinnovamento delle istituzioni islamiche del Paese, e ha fatto di quest’apertura all’altro il marchio di fabbrica con il quale il Marocco vuole presentarsi all’estero. Nel discorso in quattro lingue pronunciato nel fine settimana sulla spianata della torre Hassan, il monarca ha insistito in particolare sui valori comuni ai tre monoteismi, ma ha anche aggiunto che il dialogo e la tolleranza sono «insufficienti nella realtà di oggi». Le tre religioni abramitiche, ha affermato il re, non esistono infatti «per tollerarsi, con rassegnazione fatalista o cortese accettazione, ma per aprirsi le une alle altre e conoscersi reciprocamente nella ricerca costante del bene di tutte». Immediatamente gli ha fatto eco Papa Francesco, dimostrando notevole sintonia con il suo ospite: «abbiamo sempre bisogno di passare dalla semplice tolleranza al rispetto e alla stima per gli altri. Perché si tratta di scoprire e accogliere l’altro nella peculiarità della sua fede e di arricchirsi a vicenda con la differenza, in una relazione segnata dalla benevolenza e dalla ricerca di ciò che possiamo fare insieme. Così intesa, la costruzione di ponti tra gli uomini, dal punto di vista del dialogo interreligioso, chiede di essere vissuta sotto il segno della convivialità, dell’amicizia e, ancor più, della fraternità».

 

In un passaggio ampiamente ripreso dai giornali marocchini al termine del viaggio papale, il re, che non è solo capo di Stato ma anche massima autorità religiosa del suo Paese, si è inoltre dichiarato «Comandante di tutti i credenti», garante del «libero esercizio del culto delle religioni del libro» e «protettore degli ebrei marocchini e dei cristiani provenienti dagli altri Paesi»: parole molto forti, che se esprimono una chiara presa di posizione di Mohammed VI a favore della convivenza interreligiosa, suggeriscono anche che questa non si fonda sulla cittadinanza paritaria, ma rimane vincolata al tradizionale quadro della protezione dall’alto, dalla quale risultano peraltro esclusi i “cristiani marocchini”.

 

È probabilmente questo l’aspetto sui cui si è registrata la divergenza più significativa con il Papa. Francesco ha infatti espresso apprezzamento per le scelte politiche del Paese, dalle iniziative per la formazione delle guide religiose (Istituto Mohammed VI), alla tutela delle minoranze (Conferenza di Marrakech del 2016), alla preoccupazione per la questione ambientale (svolgimento in Marocco della XXII Conferenza sui cambiamenti climatici). Ha inoltre citato il discorso del re alla Conferenza intergovernativa sulle migrazioni di Marrakech, per dire che «un migrante non è più umano o meno umano in funzione della sua ubicazione da una parte o dall’altra di una frontiera». Tuttavia, come aveva già fatto ad Abu Dhabi, ha anche sottolineato che «la libertà di coscienza e la libertà religiosa – che non si limita alla sola libertà di culto ma deve consentire a ciascuno di vivere secondo la propria convinzione religiosa – sono inseparabilmente legate alla dignità umana».

 

Questa notazione tocca un elemento particolarmente sensibile per la società marocchina. Per l’autorità religiosa che incarna, e per la necessità di mediare tra le varie anime che convivono nello spazio pubblico marocchino, il re si muove con estrema prudenza tra le linee rosse tracciate dall’identità islamica del Paese. Questo atteggiamento si riflette in aspetti paradossali e decisioni talvolta contradditorie. È il caso, per esempio, dei pronunciamenti sull’apostasia dell’Alto Consiglio Scientifico degli ulema marocchini: nel 2012, quest’organo aveva emesso una fatwa che, rifacendosi alla giurisprudenza islamica tradizionale, confermava la pena di morte per il reato di apostasia. Nel 2017, la stessa istituzione ha pubblicato un lungo documento, intitolato “La via degli ulema”, nel quale rivedeva la posizione espressa cinque anni prima, affermando che la pena prevista per la conversione non si applica a chi semplicemente abbandona l’Islam, ma soltanto a chi, cambiando religione, minaccia anche la coesione della comunità di appartenenza.

 

Nessuno dei due documenti dell’Alto Consiglio Scientifico ha inciso sul sistema giuridico marocchino: il codice penale già non prevedeva il reato di apostasia, ma continua a perseguire il proselitismo, anche se negli ultimi anni sembrano essersi ridotti gli arresti legati a questa fattispecie, che peraltro riguarda soprattutto le attività dei missionari evangelici. Il testo della “Via degli ulema” è inoltre difficile da reperire ed è passato piuttosto inosservato nella società marocchina. Entrambe le concezioni dell’apostasia continuano invece a circolare nei sermoni pronunciati nelle moschee, come ci ha spiegato Salim Hmimnat, ricercatore all’Istituto di Studi Africani dell’Università Mohammed V di Rabat ed esperto di relazioni tra politica e religione in Marocco.

 

La questione delle conversioni rimane un nervo scoperto della società marocchina. Il Papa si è però posto su un piano diverso, precisando il contenuto della libertà religiosa invocata sulla spianata della torre Hassan. Lo ha fatto nel discorso pronunciato durante l’incontro con i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e il Consiglio ecumenico delle Chiese alla Cattedrale di Rabat, nel quale, citando Benedetto XVI, ha ribadito che «La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza».

 

Con la visita in Marocco, si chiude il dittico dei viaggi effettuati dal Papa in terra d’Islam nell’anno dell’ottocentesimo anniversario dell’incontro tra San Francesco e il Sultano al-Kamil. Il legame tra Abu Dhabi e Rabat è stato esplicitato da Francesco sul volo di ritorno dalla capitale marocchina, rispondendo a un giornalista che gli chiedeva quali sarebbero stati i frutti della sua presenza in Marocco: «Direi che adesso ci sono i fiori, i frutti verranno dopo! Ma i fiori sono promettenti. Sono contento, perché in questi due viaggi ho potuto parlare di questa realtà che mi sta tanto a cuore, tanto, cioè la pace, l’unità, la fraternità». L’esperienza racchiusa in questa duplice tappa è ricchissima, e oltre a proporre con chiarezza una strada, ha anche indicato che ci sono compagni di viaggio disposti a percorrerla.

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