L’inedito orizzonte arabo. Le rivolte dei mesi scorsi hanno determinato la rottura con i modelli politici del passato: la priorità assegnata alla umma,il culto del leader, il nemico esterno responsabile di tutti i mali…
Una rottura resa possibile dalla nuova situazione demografica, politica e religiosa.
 

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:54

La primavera araba segna una netta rottura con la cultura politica che ha finora dominato quel mondo: la priorità assegnata a un’identità collettiva (il popolo arabo, la umma), il culto del leader carismatico (Nasser, Arafat, Nasrallah, Gheddafi), l’individuazione di un nemico esterno responsabile di tutti i mali della società (l’imperialismo, il sionismo, il colonialismo), l’estrinsecità di un apparato statuale basato principalmente sui servizi di sicurezza (servizi segreti o mukhâbarât, polizia, esercito). Questa rottura è stata possibile perché durante gli ultimi vent’anni sono cambiati tre paradigmi: il paradigma demografico, il paradigma politico e quello religioso. La rivoluzione demografica Il tasso di fertilità nel mondo arabo ha cominciato a precipitare alla fine degli anni ’80. Nel 2009 il tasso di fertilità delle donne tunisine è stato di 1,9 figli, mentre in Francia si avvicina a 2. Ciò significa che la generazione che ha fatto la primavera araba è l’ultima numerosa: oggi ha un grande peso demografico, ma ha fatto e farà meno figli. Questi giovani sono più istruiti della generazione dei loro genitori e meno sottomessi ai vincoli di una società patriarcale. Anche le donne sono più istruite, sono entrate nel mondo del lavoro, si sposano più tardi e con uomini di età e istruzione simile alla loro. La nuova generazione preferisce il modello della famiglia mononucleare (anche se la scarsità di alloggi è spesso un ostacolo) a quello della famiglia patriarcale estesa. Inoltre è più aperta al mondo esterno: è informata (televisioni via satellite), è connessa e comunica, eludendo le restrizioni imposte dalla sorveglianza (dalla polizia ai genitori) innanzitutto grazie ai cellulari e, in misura minore, tramite internet. Spesso ha accesso a una lingua straniera che, se non parla, almeno comprende. E la tecnologia moderna è individualizzante dato che è possibile connettersi alle reti sociali con risorse finanziarie minime. È di fatto una generazione di “pari”, non più dominata dai “padri”. È più individualista, accetta la diversità e il dibattito. Vuole un “buon governo” piuttosto che entusiasmi identitari sfocianti nella dittatura e nella miseria. Questa cultura dei “pari” mina quella del rispetto dell’autorità. È una generazione più mobile o almeno sogna di esserlo: il 6% degli arabi sono “mobili” ovvero migranti, contro il 3% della popolazione mondiale (Fargues); secondo i sondaggi il 25% dei marocchini vuole lasciare il Paese. L’individualizzazione è anche una conseguenza dell’apertura dei mercati, in tutti i sensi del termine: l’individuo può scegliere (beni di consumo, idee, religione) senza la mediazione del gruppo. Questo fa sì che non sia tanto la miseria a spiegare la volontà di partire, quanto piuttosto la frustrazione rispetto alle aspettative non realizzate. Il problema è ben lungi dal ridursi a una questione economica: si tratta dell’adeguamento tra il reddito a disposizione (che può permettere di sopravvivere) e lo status al quale si aspira, che va ben oltre il posto assegnato a ciascuno. Naturalmente non bisogna annettere un’importanza esagerata all’emergere di una società civile come risultato dell’espansione esponenziale di Facebook e dei social network: si rimane verosimilmente tra giovani di ambienti sociali simili e le solidarietà territoriali (quartiere, villaggio, luogo di lavoro) avranno ancora molto da dire. Ciò non toglie che sia ora possibile comunicare direttamente eludendo il controllo famigliare, statale e quello del clan (‘asabiyya). Il campo politico Tale trasformazione sociale è il riflesso di un cambiamento della cultura politica: le grandi ideologie olistiche così come le idee semplicistiche («il Corano è la soluzione», lo slogan preferito dei Fratelli Musulmani) o la fede nei capi carismatici non sono più molto quotate. Ecco perché l’islamismo o il panislamismo non mobilitano più come in passato, anche se i movimenti islamisti sono ancora presenti sulla scena politica e le grandi cause come la Palestina esercitano ancora un importante impatto emotivo. I movimenti islamisti come i Fratelli Musulmani sono così costretti a ripensare il loro programma politico, anche se non possono rinunciare a una certa utopia islamica. I giovani militanti non obbediscono più ciecamente ai vecchi leader, come si è visto nel febbraio del 2011, quando hanno raggiunto piazza Tahrîr nonostante la direzione del movimento, così come d’altra parte il clero copto, avesse dato istruzione di non partecipare. Come ho avuto modo d’illustrare vent’anni fa, l’utopia dello Stato islamico si è rivelata un fallimento[1]. D’altra parte i Fratelli Musulmani non hanno più molto da dire sulla questione sociale, a parte un discorso sul ritorno ai valori: sostengono la sacralità della proprietà e il rifiuto della lotta di classe, ciò che implica ormai una grande diffidenza verso l’azione sindacale (questo spiega anche perché in Marocco, Tunisia ed Egitto i sindacati laici e di sinistra continuano a dominare in ambito sociale). Mentre mantengono una significativa attività caritatevole nei quartieri diseredati, sono in difficoltà con i movimenti sociali, come gli scioperi degli operai delle fabbriche o le rivolte dei mezzadri sfrattati dalle loro terre in seguito alla controriforma agraria di Mubarak. I Fratelli Musulmani si sono imborghesiti e sono ormai a favore del parlamentarismo, ma vedono con difficoltà nella democrazia un valore in sé. Se alcuni hanno già compiuto il grande passo (seguendo l’esempio dell’AKP turco, rifiutando il concetto di sharî‘a e di Stato islamico e definendosi prima di tutto democratici), molti esitano a mettere in discussione la centralità del riferimento religioso[2], anche se non sanno bene che cosa farsene salvo ricorrervi per aggrapparsi a un discorso incantatore o a provvedimenti altamente simbolici (velo, codice di famiglia) che, guarda caso, ruotano tutte intorno alla questione della donna. E come assumere pienamente il concetto di cittadinanza, il quale suppone un’uguaglianza totale con i cristiani? Più oltre si vedrà che i Fratelli Musulmani non hanno più il monopolio del riferimento all’Islam nel campo politico. Il cambiamento di cultura politica è ben illustrato dagli slogan dei manifestanti: «Vattene!» significa innanzitutto la totale desacralizzazione del leader politico, ridotto a un semplice predatore. Un altro slogan comune a tutta la regione è “karâma(t)”, “dignità”, invece di kheyrat (ghayra) o nâmûs (due termini che significano “onore” sia in persiano che in arabo e che erano ricorrenti, per esempio, nella rivoluzione iraniana): la differenza è che l’onore rimanda al gruppo o alla nazione, mentre la dignità rimanda all’individuo. La rivolta si fa in nome dei diritti dell’uomo, non in nome di un’identità collettiva. È un tema kantiano: è la dignità dell’uomo universale che troviamo in ogni individuo. Tutto il discorso di un Bin Laden rimanda invece alla difesa dell’onore della umma, della comunità dei musulmani, mentre l’individuo non è nulla: esso diventa un eroe quando si sacrifica per il gruppo. Vale il contrario per gli eroi della primavera araba come Muhammad Bouazizi, suicidatosi dandosi fuoco a Sidibouzid. Questi ha innescato il movimento di protesta sacrificandosi a causa di un’umiliazione personale: si tratta qui di un suicidio di protesta, non di un atto di terrorismo. Tale ricerca di dignità nella primavera araba passa attraverso il buon governo, la giustizia sociale, la fine della corruzione e l’instaurazione dello Stato di diritto. Si basa dunque su un progetto giuridico e civico, non ideologico. È una richiesta di buon governo, non più di emozioni (tra i contestatori non vi è retorica ma piuttosto dello humor ‒ a differenza delle manifestazioni pro-Bashar o pro-Gheddafi che scandiscono: «Daremo il nostro sangue per te»). Questo anti-eroismo e questo rifiuto dell’utopia si traducono paradossalmente nel rifiuto di prendere il potere e addirittura nel rifiuto di esercitarlo. In questo senso il movimento non è rivoluzionario, chiede ai governanti di essere buoni governanti, responsabili davanti al popolo. Ma il rischio è che siano gli altri attori, coloro che non hanno fatto la rivoluzione, se non persino quanti si sono opposti, ad esercitare il potere in futuro. Una nuova religiosità La grande ondata di re-islamizzazione della vita quotidiana che ha investito il Medio Oriente arabo a partire dagli anni ’70 sembrava con ogni evidenza aver favorito nel campo politico le ideologie islamiste, allontanando le società arabe da una democratizzazione che in Occidente viene associata alla secolarizzazione. La grande sorpresa della primavera araba è che la rivendicazione politica si è esercitata al di fuori del riferimento all’Islam anche se in precedenza non si era registrata alcuna tendenza verso la secolarizzazione. Il fatto è che l’ascesa dell’islamismo è sembrata essere la causa della re-islamizzazione della società mentre, probabilmente, ne era solo un sintomo. In parole povere, in Occidente si è preso troppo alla lettera lo slogan degli islamisti: «Nell’Islam non vi è separazione tra il mondano e il divino, tra il religioso e il politico», ciò che peraltro non è la stessa cosa. L’islam politico è stato in larga parte una re-islamizzazione delle grandi ideologie precedenti o, piuttosto, un’islamizzazione del concetto di ideologia politica: marxismo e panarabismo sono stati “islamizzati”. Tutta una generazione di militanti politici si è probabilmente riconosciuta in questa ideologia islamica negli anni ’80 e ’90 ma per la nuova generazione l’Islam politico fa parte, in una certa misura, del passato: i successi (l’Iran, l’Afghanistan dei talebani), come i fallimenti (la repressione in Egitto, la guerra civile in Algeria), non sono sufficienti a suscitare entusiasmo. L’islamismo si è infranto contro il suo stesso progetto di utopia politica anche se resta forte su un punto: la richiesta di un riferimento all’Islam in campo politico. Ma tale richiesta oggi è molto diversificata ed è ripresa da diversi gruppi, come i salafiti. Il paradosso della re-islamizzazione è che essa è andata di pari passo con due grandi tendenze: l’individualismo e la diversificazione del campo religioso. Non è più la umma, la fusione con la comunità, a situarsi al centro della preoccupazione dei nuovi credenti, quanto piuttosto la fede, la realizzazione di sé, la ricerca di un nuovo equilibrio: in parallelo con le aspirazioni dei born-again cristiani, il born-again musulmano ricerca innanzitutto una via spirituale, una riconciliazione della sua fede e del suo essere nel mondo[3]. Naturalmente la diversificazione è frutto anche di questa individualizzazione e dello sviluppo di un mercato del religioso: si può vagabondare, cercare il proprio maestro spirituale al di fuori della moschea del quartiere, si può confrontare, comporre e addirittura andare a cercare altrove (convertirsi). Non vi è più alcun monopolio del religioso, ciò che hanno compreso molto tardi sia gli islamisti (che pensavano di essere gli unici a offrire una trasposizione dell’Islam in campo politico facendo leva sul riferimento olistico dell’Islam tradizionale: tutto è nel Corano, è necessario cercare il migliore tra i musulmani a cui obbedire), sia gli ‘ulamâ’ di Stato (al-Azhar), incapaci di difendere il copyright che si arrogano sulle interpretazioni del Corano. È quello che hanno compreso tutti i piccoli o grandi imprenditori del religioso: gli imam di quartiere, i predicatori televisivi, i dispensatori di fatwa su internet, i quali hanno saputo cavalcare la domanda di diversificazione del religioso. Quella del mercato d’altra parte non è sempre una metafora: anche qui vi è una dimensione economica[4]. L’islamismo classico che fa della religione un’ideologia e ne dà il monopolio a un partito politico si oppone all’apertura della religiosità. Questa tensione compare d’altronde anche all’interno dei partiti islamisti dove i giovani Fratelli egiziani, per esempio, recalcitrano e non vogliono più obbedire ciecamente alle consegne dell’amîr. Bisogna ammettere che lo sviluppo di quello che ho chiamato “neo-fondamentalismo” o salafismo, lungi dall’essere un ritorno della tradizione, è un’espressione moderna di questa individualizzazione e “de-socializzazione” del religioso, che s’identifica unicamente con una serie di norme esplicite, ben lungi dall’inculturazione del messaggio coranico in una cultura tradizionale. In breve, il fondamentalismo è una creazione e un agente della modernità, ciò che apparve chiaramente con la riforma protestante (che sarebbe inutile associare unicamente al secolarismo, allo sviluppo dei diritti dell’uomo e dei Lumi). Ecco dunque il paradosso della primavera araba: essa non è associata alla secolarizzazione, ma a un mutamento della religiosità in cui individualizzazione e diversificazione del religioso procedono di pari passo. Esiste un rapporto analogico tra i due registri (lo spazio politico della democrazia e lo spazio religioso dell’individualizzazione della fede) ma non un rapporto filosofico o teologico che farebbe dipendere la transizione verso la democrazia da un’interpretazione del corpus teologico. È questa la ragione per cui, sulla scia della primavera araba, le grandi correnti religiose hanno difficoltà a “razionalizzare” il loro nuovo rapporto con l’ambito politico: esse devono o accettare il pluralismo, pur insistendo perché i loro valori siano presi in considerazione, o allearsi a elementi conservatori non religiosi (l’esercito in Egitto) per tentare di ristabilire un partito dell’ordine di fronte ai disordini, o ancora ritirarsi dal politico, ciò che è la tentazione di alcuni salafiti. Cosa fare del “religioso” e del Cristianesimo d’Oriente? La primavera araba ripropone la grande domanda che percorre tutte le teorie della modernità: qual è il rapporto tra secolarizzazione e democratizzazione? Si è parlato di “ritorno del religioso” per definire la volontà delle comunità di fede (cristiane, musulmane o ebraiche) di essere visibili nello spazio pubblico e di affermarvi i loro valori, come se ogni riaffermazione del religioso nello spazio pubblico fosse una regressione rispetto alla “modernità”. Ma in certi contesti è necessario considerare anche che l’irruzione di una riformulazione del religioso a carattere “fondamentalista”, negatrice cioè della confusione tra religione e cultura e decisa a tornare ai fondamenti scritturali della rivelazione, è anch’essa un possibile fattore di modernità, così come lo è stata la riforma protestante di Martin Lutero, che non era certamente un “liberale”. Questo fondamentalismo protestante ha senza dubbio aperto una breccia nel mondo occidentale cristiano rompendo l’egemonia cattolica del riferimento religioso grazie alla dimensione politica che ha potuto acquisire. Non sono le “verità” e le norme che difendeva ad aver prodotto la modernità bensì lo slittamento verso una religione individualizzante e distaccata tanto dalle culture quanto dalle tradizioni. Analogamente, il salafismo non è il ritorno alla comunità del Profeta. Esso pone al contrario la questione di pensare l’assoluto della fede in una società individualizzata secondo modalità nuove: individualità, libertà, scelta e soprattutto autonomizzazione rispetto alla cultura, al legame sociale, al conformismo; il prototipo è la femminista islamica («indosso il velo, è una mia scelta»). Naturalmente i salafiti sognano un ritorno all’unanimismo ma le loro lacerazioni interne dimostrano che il progetto salafita non può essere un progetto di società poiché può esistere solo con la costituzione di un “altro”: l’empio, il cattivo musulmano o il cristiano. Il dover dare lezioni e predicare permanentemente, caratteristica del salafismo, mostra che questa ricerca della purezza assoluta realizzata nel rispetto altrettanto assoluto della norma è irraggiungibile, e sempre al di qua o al di là dello spazio pubblico. Una conseguenza di questo cambiamento di religiosità è l’autonomizzazione del campo religioso: non è controllato né dallo Stato, né dagli islamisti, né dal clero “ufficiale”; d’altra parte lo stesso clero reclama oggi sempre più questa autonomizzazione e lo shaykh di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, ha chiesto, sulla scia della primavera araba, che la moschea-università diventi autonoma rispetto allo Stato[5]. Il politico si fa al di fuori del religioso ma questo non significa che i manifestanti siano laici: il religioso rimane come riferimento identitario, come si vede dal rifiuto di rimettere in discussione il primato dell’Islam così come definito dalle Costituzioni. Ma che cosa significa questo riferimento? Se per i salafiti e una parte dei Fratelli Musulmani esso presuppone implicitamente un rimando alla sharî‘a, per molti altri si tratta di un riferimento collettivo puramente identitario, visto che la fede è una scelta personale. La primavera araba non oppone laicità a religione ma piuttosto fa riferimento a un triangolo: uno Stato neutro che assicuri il buon governo, una religione come riferimento identitario e culturale sulla base di quella che i tedeschi definiscono Leitkultur (cultura dominante) e, infine, la fede e la pratica religiosa che dipendono dalla libertà di ciascuno. Far propria questa configurazione significa accettare di separare il cittadino e il credente in una stessa persona e significa anche fare della libertà religiosa un diritto individuale e non più un diritto della minoranza. Questo presuppone che si possa cambiare religione in ogni direzione, possibilità già riconosciuta da un dissidente dei Fratelli Musulmani candidato alla presidenza, ‘Abd al-Moneim Abou el-Fotouh[6]. Il movimento democratico ridefinisce dunque l’appartenenza religiosa facendo della fede e non dell’origine famigliare il criterio giuridico di affiliazione religiosa (believing sostituisce belonging). Ciò pone una sfida straordinaria alle Chiese tradizionali d’Oriente che si definiscono come minoranze collettive su base quasi etnica (si è maroniti o greci ortodossi per eredità e non per fede, ciò significa che un marxista ateo come Georges Habbash possa essere sepolto con il rito religioso), mentre i protestanti evangelici si riconoscono in questa individualizzazione della religiosità. In fondo le Chiese tradizionali preferiscono definire la libertà religiosa come un diritto collettivo e non come un diritto dell’individuo per la stessa ragione per la quale preferiscono un dittatore laico a una democrazia dominata dai movimenti islamisti. La reticenza delle gerarchie cristiane non deriva né da opportunismo né da conservatorismo ma piuttosto dall’idea che esse hanno delle comunità cristiane come minoranze pseudo-etniche (il cristiano detto d’Oriente, diviso in una decina di gruppi o tâ’ife, preoccupati per i loro confini e le loro prerogative), piuttosto che come comunità di fede tese all’irradiazione spirituale. In fondo la primavera araba permette anche ai cristiani di porsi una semplice domanda: che cosa significa essere cristiano? E questo avviene proprio nel momento in cui la democratizzazione consente di concepire il cittadino al di sopra della comunità e porre la fede come una libera scelta, al di sopra delle eredità che peraltro si sfaldano e si perdono nell’esilio.
[1]Olivier Roy, L’échec de l’Islam politique, Seuil, Paris 1992. [2]I Fratelli Musulmani egiziani hanno protestato contro il desiderio, espresso dal Primo Ministro turco Erdoǧan durante l’intervista al canale satellitare egiziano Channel Dream il 13 settembre 2011, di vedere l’Egitto adottare la laicità. Dal canto suo il tunisino Ghannoushi, dirigente del partito islamista al-Nahda, ha approvato Erdoǧan. [3]Olivier Roy, L’Islam mondialisé, Seuil, Paris 2002. [4]Patrick Haenni, L’Islam de marché: l’autre révolution conservatrice, Seuil, Paris 2005. [5]Documento di al-Azhar del 19 giugno 2011. [6]http://www.almasryalyoum.com/en/print/439184 [consultato il 20 settembre 2011].