Testo “Bussola” per l’incontro annuale islamo-cattolico preparato dall’Ufficio ecumenismo e dialogo interreligioso della CEI in condivisione con CoReIs, Confederazione Islamica Italiana, Istituto Tevere e UCOII

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:13:13

Nessuno deve essere costretto a credere. Si può riassumere in queste semplici parole il cuore della libertà religiosa, un’idea e un principio che si trova fin nelle più antiche espressioni religiose dell’umanità. Nella rivelazione biblica essa trova la sua più piena espressione nel modo di agire di Gesù, il quale «rese testimonianza alla verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano» (Dignitatis Humanae 11). Lo stesso principio di non costrizione si trova affermato nel Corano al versetto 2,256 («Non vi sia costrizione nella fede, la retta via ben si distingue dall’errore»), che la maggior parte degli interpreti contemporanei considera come valido per ogni epoca. Analoga espressione si trova, sempre nel Corano, nella sura 109, in particolare al versetto 6: «[Di’]: A voi la vostra religione, a me la mia».

 

Tuttavia, il principio di non-costrizione ha dovuto misurarsi con un altro ideale non meno potente: l’unità della comunità umana, che per attuarsi sembrava richiedere l’unificazione dell’orizzonte politico con quello religioso. Così, nella maggior parte delle società, l’uniformità religiosa è stata (e talora è) la norma, la dissidenza l’eccezione. In molti Stati ancora oggi la libertà religiosa è ammessa solo come libertà di culto che, sebbene importantissima, rimane però esperienza limitata, se non si allarga ad altre espressioni (caritative/filantropiche, culturali, di testimonianza) in cui naturalmente le comunità religiose trovano espressione sul piano sociale.

 

Storicamente, anche se l’ideale etico della non-costrizione si trova enunciato nella Bibbia e nel Corano, la traduzione giuridica di questo principio nel diritto di libertà religiosa ha dovuto attendere le guerre di religione che tra Cinquecento e Seicento insanguinarono il Continente europeo. A partire da quell’esperienza tragica, un’idea nata in «una mezza dozzina di Stati che hanno conosciuto il loro apogeo nella prima metà del XX secolo» si è diffusa fino a raggiungere «ampiezza universale».[1] Un passaggio decisivo in questo senso è stata certamente la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 che, all’articolo 18 recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti»[2].

 

La libertà religiosa è oggi considerata dal diritto internazionale come un diritto fondamentale della persona umana, e la legislazione statale è chiamata a garantirlo sia sul piano negativo – assenza di costrizione nella scelta religiosa – sia sul piano positivo – garantire le condizioni perché le diverse comunità religiose possano esprimere socialmente la propria fede. D’altra parte, i credenti sono oggi sollecitati a elaborare la libertà religiosa nei nuovi contesti sociali e politici, caratterizzati da un alto tasso di pluralismo religioso e culturale. Si pone così anche per le religioni la sfida di tutelare in modo nuovo la non costrizione nella scelta religiosa, ma anche di adoperarsi perché le diverse comunità possano esprimere socialmente la propria fede in dialogo con il contesto sociale plurale, segnato anche da posizioni non religiose.

 

Così come fu formulata nel contesto illuminista, tuttavia, l’idea di libertà religiosa non era priva di ambiguità e questo spiega perché essa sia stata inizialmente osteggiata dalla Chiesa. Basterà pensare alla famosa parabola dei tre anelli raccontata da Lessing nel dramma Nathan il Saggio (1779), in cui tre figli, trasparente simbolo di ebrei, cristiani e musulmani, ricevono in regalo da uno stesso padre tre anelli. Ognuno è convinto di aver ricevuto l’anello vero e che gli altri due siano copie, ma in realtà – afferma la parabola di Lessing – non c’è modo di sapere chi abbia ragione. Ognuno deve limitarsi ad agire come se avesse l’anello vero.

 

Se ci si riflette un attimo, è evidente che una libertà religiosa così fondata entra in contraddizione con la pretesa di verità che Ebraismo, Cristianesimo e Islam avanzano. Per le tre religioni, infatti, non è vero che i tre anelli sono indistinguibili e alla fin fine equivalenti e non può essere questa la ragione per cui i tre fratelli si accettano a vicenda. Una libertà religiosa fondata su questi presupposti non ha alcuna chance di essere accettata da credenti convinti, anche se una norma che tuteli la libertà religiosa resta comunque un bene, quale che ne sia il fondamento filosofico.

 

Ma c’è un altro modo, molto più ricco, di pensare la libertà religiosa, ed è quello che cristiani e musulmani italiani desiderano affermare pubblicamente nel loro incontro annuale. È la libertà religiosa fondata sulla dignità umana. Le religioni non sono tutte uguali, gli anelli della parabola non sono indistinguibili tra di loro. Certo, il cammino provvidenziale che abbiamo intrapreso ci ha resi reciprocamente attenti al valore della fede dell’altro e ci ha aperto gli occhi al fatto che, per i cristiani, il Corano partecipa dell’universo biblico, mentre per i musulmani il Vangelo originario è la forma anteriore nella quale Dio ha rivelato il Suo Verbo. Tuttavia, è anche evidente che per un cristiano la rivelazione definitiva non è in un libro, ma in una persona, Gesù Cristo, e per un musulmano il ciclo della Rivelazione si compie con il Sigillo della Profezia Muhammad. Non abbiamo paura di riconoscere le differenze che ci separano, così come siamo lieti di sottolineare i punti che abbiamo in comune. La libertà religiosa che proponiamo infatti non si fonda su un nostro accordo in materia di dogma o di legge o su un agnosticismo, ma sul fatto che riconosciamo la dignità della persona che abbiamo davanti a noi.

 

È vero: l’errore non ha diritti e la verità parziale ha diritti solo parziali. La persona umana però, anche se sbagliasse completamente il proprio orientamento, non per questo perde la sua dignità. E questa dignità implica la non costrizione e la garanzia che possa vivere con libertà la propria ricerca religiosa e di senso. Lo afferma con la massima chiarezza la dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae: «Si fa quindi ingiuria alla persona umana e allo stesso ordine stabilito da Dio per gli esseri umani, quando si nega ad essi il libero esercizio della religione nella società, una volta rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia» (n. 3). Fa idealmente eco a questo testo un pensatore islamico siriano da poco scomparso, Jawdat Said, che nel Concetto di cambiamento scrive “Tu non risolverai il problema del cambiamento se non amerai colui che diverge da te. Ma come si può fare? Come si può amare l’errore? E chi lo commette? […] Dobbiamo amare il malato e odiare la malattia: in questo modo ci eleviamo a un livello più alto. Gesù, su di lui la pace, non aveva chiesto l’impossibile quando disse: ‘Amate i vostri nemici’ (Matteo 5,44)»[3]. L’ultimo e più solido fondamento della libertà religiosa non è dunque l’indifferenza dell’“ognuno ha i propri gusti” o il rassegnato pessimismo del “chi potrà mai conoscere la verità?”, ma l’amore per l’altro.

 

Queste affermazioni possono sembrare lontane dalle problematiche di tutti i giorni; in realtà, sono decisive anche sul piano politico. Infatti, la libertà religiosa è il primo piolo della scala delle libertà. Se l’uomo è costretto nella sua coscienza, presto o tardi lo sarà anche nel resto. Se l’uomo è libero nella sua coscienza, questa libertà tenderà a diffondersi anche negli altri aspetti della vita sociale e politica.

 

Come ha richiamato la Carta di Firenze[4], operare in favore della libertà religiosa per tutti, in Italia, nel Mediterraneo e nel mondo, è centrale per contribuire all’edificazione di una vita buona e di quella Fraternità umana auspicata da Papa Francesco e dal Grande Imam Ahmad al-Tayyeb. Nel documento da loro sottoscritto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 si legge infatti: «La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. […] Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano». Dello stesso tenore la lettera aperta redatta da 138 Sapienti musulmani intitolata Una parola comune tra noi e voi, testo che si rivolge ai responsabili delle comunità cristiane del mondo intero, rammentando a cristiani e musulmani la comune responsabilità di fronte all’umanità e come l’amore verso Dio sia inscindibile dall’amore verso l’umanità intera. In questo documento si legge in particolare che «giustizia e libertà di religione sono una parte cruciale dell’amore del prossimo».[5]

 

In fondo, una società senza libertà religiosa è una società in cui le energie più profonde dell’essere umano sono imbrigliate. Noi desideriamo che queste energie siano liberate.

 

 

Leggi anche il commento di Martino Diez “ Si può essere tolleranti e certi?

 

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[1] Dominique Avon, Liberté de conscience. Histoire d’une notion et d’un droit, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2020, p. 19.

[3] Jawdat Said, Vie islamiche alla non violenza, Zikkaron, Marzabotto 2017, pp. 47-49.

[4] Il testo è disponibile a questo indirizzo: https://www.chiesacattolica.it/la-carta-di-firenze/. Tra le tante affermazioni contenute nella Carta evidenziamo la seguente: «L’importanza del rafforzamento delle relazioni interculturali e interreligiose, al fine di raggiungere un livello più elevato di comprensione reciproca tra individui di diversa origine, lingua, cultura e credo religioso».

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