Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:44

«Stasera parlerò come studioso, ma anche come osservatore coinvolto». Esordisce così Marc Lynch, professore associato di scienze politiche e affari internazionali alla George Washington University e considerato un ponte tra il mondo accademico americano e l’amministrazione Obama (il suo blog è uno dei più seguiti). A Venezia il 25 marzo scorso su invito del professor Matteo Legrenzi (nel quadro delle iniziative della Ca’ Foscari School of International Relations), è chiamato a sviluppare il tema Che cosa resta della primavera araba. Con rapidi e precisi tratti ricostruisce la percezione negativa del Medio Oriente che si era radicata tra gli americani (un posto violento, dove il cambiamento è impossibile) dopo l’11 settembre, per poi evidenziare la sorpresa generata dalle rivolte dei primi mesi del 2011: salivano alla ribalta dei media movimenti non violenti, «gente come noi, con cui identificarsi». L’entusiasmo però è durato poco e oggi è tornato a dominare il pessimismo: in Medio Oriente il cambiamento – questa la conclusione che va per la maggiore – alla fine ha effetti negativi. Lynch non è d’accordo. Riconosce degli elementi di verità a questa diagnosi, ma ritiene che i fatti di Piazza Tahrir non vadano letti come un evento puntuale, una sorta di miracolo, ma come l’espressione di un cambiamento strutturale nelle società arabe che viene da molto più lontano, almeno dagli anni Novanta. Fino a quel momento infatti il dibattito politico in Medio Oriente era totalmente inesistente. I regimi controllavano ogni aspetto della vita dei cittadini e avevano il monopolio dell’informazione. Esempio eclatante: quando Saddam Hussein invase il Kuwait, la maggior parte dei sauditi lo venne a sapere solo quattro giorni dopo. La leadership saudita infatti, indecisa sul da farsi, preferì tenere all’oscuro il popolo su quanto stava avvenendo. Stiamo parlando di appena vent’anni fa, ma sembra un’altra epoca. Dopo alcune timide aperture, la svolta arriva con il canale satellitare al-Jazeera. O meglio la prima al-Jazeera, quando l’emittente qatariota godeva di una sostanziale libertà d’azione, a differenza di oggi. Al-Jazeera «adottò un approccio inusuale alla politica: scelse di parlarne». L’enorme successo (indici di ascolto del 50-60% in tutto il mondo arabo, quando un gigante come Fox News oggi non va oltre il 5% negli Usa) era indizio di un bisogno. Le prime discussioni vertevano soprattutto sulla politica estera, con la condanna dell’invasione americana dell’Iraq, ma rapidamente le critiche presero a investire anche la politica interna. Questo trend di lungo termine, in cui i new media hanno agito da moltiplicatori, è la ragione per cui Lynch non ritiene possibile un ritorno al passato. Ma quale fu allora la novità delle rivolte arabe del 2011? Che la protesta, per la prima volta, ebbe successo. I manifestanti, con loro stessa sorpresa, si videro appoggiati dalla popolazione locale. Per questo, secondo Lynch, l’immagine della primavera araba non è del tutto fuori luogo se presa per delimitare un periodo di tempo che va da gennaio a marzo 2011, quando nei Paesi arabi si diffuse l’idea che il cambiamento fosse possibile e anzi inevitabile. La caduta di Ben Ali ne era stata il segnale, le dimissioni di Mubarak la conferma. Tuttavia la primavera conosce una brusca battuta d’arresto nel mese di marzo: l’Arabia Saudita, attraverso generose concessioni economiche e l’intervento del proprio apparato di sicurezza, contiene la protesta in patria e soffoca la rivolta in Bahrein, giocando per la prima volta la carta del settarismo, opponendo cioè sunniti e sciiti. Sempre nello stesso mese la rivolta in Yemen e Siria si trasforma da non-violenta ad armata e Gheddafi arriva a un passo dall’eliminazione fisica degli insorti in Cirenaica. È il momento in cui la NATO decide d’intervenire a Bengasi. Finisce così la speranza che un cambiamento pacifico sia possibile ovunque. Da quel momento infatti è l’opzione militare a prendere il sopravvento. Ma anche laddove il sollevamento arabo (questo il termine preferito da Lynch) ha fallito, come nel Golfo, le cose non sono tornate e non potranno tornare al punto di prima. La previsione dello studioso americano è abbastanza ottimista per il Nord Africa, almeno nel medio periodo, una decina d’anni: nonostante siano stati commessi tutti gli errori possibili immaginabili, soprattutto in Egitto, nonostante una stagnazione politica, una crescente polarizzazione e il rischio di un fallimento economico dietro l’angolo, la partita è ancora aperta. Per il Golfo Lynch ipotizza invece una crescita delle proteste popolari, mentre le prospettive sono molto nere per la Siria e gli Stati confinanti (tradizionalmente noti come Levante). Regna l’anarchia, fazioni rivali si contendono il territorio e il rischio di un allargamento della crisi è tutt’altro che remoto, soprattutto se anche il problema palestinese dovesse conoscere una recrudescenza. Ed è proprio dal Levante che prende spunto Lorenzo Cremonesi, inviato di guerra del Corriere, per replicare all’esposizione di Lynch in qualità di respondent. Concede la maggior parte dei punti, ma sottolinea come la situazione di anarchia abbia generato un sentimento diffuso di stanchezza tra la popolazione. Ora la priorità sarebbe il ripristino dell’ordine, a ogni costo. Cita la sua esperienza personale con i notabili afghani subito dopo l’intervento Nato: abbiamo accettato i talebani – spiegavano – perché il Paese era così degenerato che avevamo bisogno prima di tutto di ordine. Cremonesi inoltre osserva come la campagna di Libia abbia cambiato natura nel corso dei mesi: dalla difesa di Bengasi si è passati alla fase offensiva che ha evidenziato l’ambiguità dei ribelli. Da ultimo mette in guardia sulla penetrazione effettiva di Internet in questi Paesi: è un fenomeno ancora limitato, c’è un’intera fetta di Paese, ad esempio in Egitto, che ne è totalmente tagliata fuori. Su un punto tuttavia si registra un accordo completo: è il peso della rivalità tra sunniti e sciiti, riesplosa dopo la guerra del 2003 in Iraq. È l’ultima chiave di lettura che gli oratori consegnano al pubblico.