Al coraggio di registi che – come accade in Iran – rischiano la vita  per raccontare la realtà che conoscono, troppo spesso corrisponde  il difetto di sguardo di colleghi occidentali, che allontanano  le pellicole dal dramma vero e le deviano sul “nemico” interno.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:01

Accade che succedano cose talmente grosse, nel mondo del cinema, da finire sui giornali e debordare sulla realtà. Bisbigli, se paragonati alle rivoluzioni che stanno devastando il Mediterraneo: ma chissà che i cambiamenti veri, di carne e non di cartone, alla fine non nascano proprio da lì. Dall’Iran, arrivano notizie sul cinema preso di mira dal regime. Niente di nuovo, si dirà. E invece sì: non si parla più soltanto di censura ma di galera, di sequestri, di condanne e frustate.

Se Tacere non si Può

Sei documentaristi sono stati arrestati con l’accusa di aver collaborato con BBC Persia, «fornendo immagini filmate e documenti segreti allo scopo di descrivere in modo negativo l’Iran e gli iraniani». Il documentario in oggetto, per la cronaca, racconta la carriera di Khamenei e i giochi di potere seguiti alla morte dell’Ayatollah Khomeini. Mojtaba Mir Tahmasb è finito nel carcere di Evin, a Teheran, dopo aver realizzato ed esportato, su chiavetta usb, un film che non è un film – così si chiama, This is not a film –, cronaca di una giornata passata col collega Jafar Panahi, condannato nel dicembre 2010 a sei anni di carcere e a non esercitare più il suo mestiere per vent’anni. Panahi – già Leone d’Oro a Venezia per Il cerchio – è la spina nel fianco del governo iraniano. Scrive lo Spiegel che il suo nome è diventato nel mondo «il simbolo della libertà artistica minacciata dai regimi totalitari»: ha sempre rifiutato di lasciare il suo Paese (contrariamente ai tanti che sono emigrati in Europa, da Kiarostami a Makhmalbaf, dalla Satrapi a Shirin Neshat), e pochi giorni fa la sua condanna è stata resa definitiva in appello. Lui non si arrende, dice: «I nostri problemi sono anche le nostre risorse». Panahi è in buona compagnia: manca all’appello Sahand Samadian, autore di Io amo Teheran, un film sulla condizione giovanile che era stato selezionato per il festival di Beirut, ritirato all’ultimo minuto come Rosso, bianco e verde, un film del regista Nader Davoodi dedicato alle contestate elezioni presidenziali del 2009.

Attori in galera come Rami Parchami, arrestato per aver solidarizzato con la primavera araba o come Marzieh Vafamehr, condannata a un anno di prigione e a 90 colpi di frusta per aver recitato, «senza autorizzazione e a capo scoperto», in alcune scene di un piccolo film, My Teheran for sale, realizzato in una scuola di cinema in Australia. È andata meglio, per il momento, ad Asghar Farhadi: il suo film, Una separazione, ha vinto a Berlino un Orso d’oro e due d’argento, ha avuto un milione di spettatori in Francia e un successo tale in patria da costringere le autorità iraniane a candidarlo all’Oscar. «Il sistema non è monolitico come appare» racconta. «I contrasti al suo interno sono più forti dell’opposizione al sistema stesso. Queste crepe rendono possibili le contraddizioni». Nel suo film, dove una coppia divorzia perché lei vuole emigrare e lui deve restare a casa col vecchio padre ammalato di Alzheimer, si descrive un mondo borghese, dove la vita scorre come su un piano inclinato: lo squilibrio è in agguato a ogni inquadratura, minaccioso come il giudice che deve decidere il futuro della coppia. Farhadi è tra i pochissimi registi che possa viaggiare all’estero: suo il compito più che ingrato di dire e non dire. «Tacere non si può» ammette. «Ma a volte troppo clamore peggiora le cose». Racconta di come lo stile faccia tutt’uno con la capacità di gestire la censura, proprio come accadeva ai registi dell’Est europeo prima dell’89. Un esempio? Quel chador che, appoggiato con disinvoltura sui capelli, dice molto delle donne iraniane. Nei film sono obbligate a portarlo anche dentro le mura di casa, cosa che non accade nella realtà. E Farhadi, che non vuole mentire e nemmeno mettersi nei guai con i divieti religiosi, mostra le donne sempre sulla soglia, né dentro né fuori. Sulla soglia di un Paese dove non si può vivere ma da cui non si vuole andar via resta anche il cinema iraniano.

Nasce un Nuovo Genere?

Se l’Iran è il Paese del mondo che registra la più clamorosa fuga di cervelli, 300.000 laureati ogni anno, gli immigrati partono numerosi anche dalla Tunisia, fresca di elezioni; il Paese deve fronteggiare una crescente disoccupazione giovanile, causa prima dell’immigrazione clandestina verso l’Italia. Alle domande laiche sul “mondo nuovo” ‒ quelle che riguardano la concezione della persona, il ruolo della donna, il rapporto con l’Islam, ecc. – dovrà rispondere al-Nahda ma potrebbero farlo, da subito, anche coloro che arrivano qua. Il problema è che nel cinema italiano, che recentemente li ha eletti protagonisti assoluti, africani, tunisini, algerini, libici sono solo l’oggetto di un discorso. Si tratta di un fenomeno quantitativamente così rilevante che, durante l’ultima edizione del festival veneziano, Le Monde ha parlato addirittura di “un nuovo genere”.

A spiegarne la nascita, non bastano i numeri: nonostante l’immigrazione sia cresciuta in Italia del 1000% in poco più di dieci anni, la percentuale di immigrati resta bassa: il 7%, che arriva al 20% nel Nord. Per i cineasti italiani, potrebbe essere la grande occasione di colmare quel gap di astrazione che da anni separa lo schermo dalla realtà. E invece, niente. I film prodotti ripropongono un immaginario miserabilista che, dei suoi protagonisti, ignora tutto: lingua, storia, bisogni, desideri, speranze. Una specie di grande manifesto pubblicitario, con tante facce e poche persone. Magari sono loro che non si spiegano. O magari è il cinema italiano che ha la presunzione di raccontare quello che non conosce e si rifiuta di vedere quello che ha davanti.

Un Problema di Scrittura

Non si tratta di filmetti: Terraferma di Emauele Crialese, per esempio, si è portato a casa da Venezia un molto generoso Premio Speciale della Giuria ed è candidato all’Oscar per l’Italia. Là-bas di Guido Lombardi ha vinto il premio per l’opera prima. Il villaggio di cartone è il film apologo del maestro ottantenne Ermanno Olmi. E gli altri – Io sono Li di Andrea Segre, Cose dell’altro mondo di Patierno, Storie di schiavitù di Barbara Cupisti, ecc. – rappresentano il meglio del cinema italiano di mezzo. Aldilà dei linguaggi diversi, c’è un fattore che li unisce: i personaggi non sono persone ma ruoli, funzioni narrative (una scelta dichiarata nel film di Olmi). C’è come un difetto dello sguardo, una ritrosia ad andare al fondo delle contraddizioni che fanno il nostro tempo, un problema di scrittura che porta la cinepresa a deviare dal dramma verso un obiettivo più facile: il nemico. Immigrati buoni e poliziotti cattivi, vecchi pescatori saggi e borghesi piccoli piccoli, pronti a ributtare il clandestino a mare. Una vecchia storia che si traduce in storie vecchie, monche o ideologiche, nel lamento greve, nella polemica facile.

È abbastanza facile, così, per i critici di Le Monde, scrivere che «il cinema italiano salva l’onore del suo paese», riferendosi al giudizio terrificante che dai film emerge sull’Italia e sugli italiani razzisti. Salvo notare poi che l’onore sarà anche salvo, ma le sale sono vuote, eccezion fatta per l’unico che, ridendo e scherzando, ha fatto i soldi con l’amore irriverente di un pugliese per una bellissima immigrata, per giunta terrorista: Checco Zalone. Insomma, l’aria che si respira è sempre quella: la speranzella dei film che cambiano il mondo. Non è proprio così: capire il mondo cambia, cambia noi. Lo sapeva Amelio che, nel ’94, aveva girato Lamerica soltanto tre anni dopo l’inizio degli sbarchi albanesi sulle coste italiane. Per raccontare quelle navi stracariche di umanità dolente, ci aveva messo su un italiano briccone che si scopriva uguale a loro, gli alieni. Un film onesto, che faceva capire gli altri perché parlava di noi. Proviamo a ripartire da lì?

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