Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:17

Autore: Laura Zanfrini Titolo: Cittadinanze. Appartenenza e diritti nella società dell’immigrazione Editore: Laterza, Roma-Bari 2007, pp. XXIII – 111 L'immigrazione disturba perché obbliga a smascherare il modo in cui lo Stato pensa la cittadinanza» (p. 8). Da qui comincia l’accurata indagine di Laura Zanfrini, inoltrandosi nella complessa discussione intorno al principio stesso della convivenza, quello che distingue chi sta dentro da chi sta fuori. Ecco perché sembra davvero più corretto parlare di “cittadinanze” al plurale, dal momento che i dilemmi contemporanei dell’inclusione non sembrano (più) risolvibili in modo univoco. A cominciare dall’interrogativo «cittadino si nasce o si diventa?» (p. 3), il percorso indaga attentamente il modo in cui la disciplina sulla cittadinanza cambia a seconda di come ius soli e ius sanguinis si riconfigurano. Ed è interessante, a riprova della tesi iniziale, che a stimolare la riforma della legislazione è spesso l’esperienza delle generazioni nate dall’immigrazione. Si tratta di stranieri o di cittadini a pieno titolo? Rispondere non è facile, così, in molti paesi, si è optato per una sorta di status intermedio. Con l’istituto della denizenship si tenta di evitare di generare una underclass permanente di membri marginali, senza richiedere loro l’adesione alla comunità politica. Il che, tuttavia, alla lunga diviene problematico: la disgiunzione tra diritti sociali – in genere garantiti a tutti i residenti – e il diritto-dovere di partecipazione politica finisce per «dare fiato alla pretesa di un diritto di prelazione che dovrebbe essere riconosciuto a coloro che appartengono alla nazione» (p. 28). Così, la discussione sulla cittadinanza prosegue per altre vie, esplorando la risorsa giuridica della cosiddetta “doppia cittadinanza”. Questo concetto di “membership transnazionale” sembra funzionare bene, ad esempio, nel caso delle coppie miste e dei loro figli, dal momento che «consente di conciliare il principio dell’unità familiare (garantito dalla comune nazionalità) col diritto di entrambi i coniugi (in particolare della donna) a mantenere la propria nazionalità, pur avendo contratto matrimonio con un cittadino straniero» (p. 38). Sottostante, vi è l’idea che la concezione tradizionale e atomistica della nazionalità, indipendente dalla nazionalità degli altri e astratta dai contesti sociali, sia incapace di rendere conto del fatto che «la relazione di un individuo con una famiglia di una differente nazione ha un effetto sul suo senso dell’identità nazionale» (p. 39). Ed è proprio lungo questo vettore di “nazionalità relazionale” che si passa infine all’idea di cittadinanza cosmopolitica. Anche se, va detto, il salto è notevole. Tra tutte le soluzioni prospettate, infatti, quella della cittadinanza cosmopolitica o post-nazionale è la più drastica, proprio perché è l’unica a prevedere il superamento della prerogativa statuale nella determinazione dell’idea di membership. Si tratterebbe qui di provare a difendere un principio di membership fondato non più sulla nazionalità, bensì sulla personhood, sull’appartenenza all’umanità. Utopia? Talvolta lo si pensa, anche perché troppo spesso gli “occhiali” con cui gli Stati (anche europei) guardano la realtà dei flussi migratori sono ancora «intrisi di nazionalismo metodologico» (p. 76), cosicché sembra ancora valida la questione posta da Hanna Arendt: si ha diritto ai diritti umani quando non si è cittadini? Malgrado le oggettive difficoltà, la “cittadinizzazione” non è però un processo senza sbocco, soprattutto quando ci si accorge, come indica la Zanfrini, che spesso «è proprio attraverso le iniziative della società civile che si costruisce la cittadinanza» (p. 30), cioè attraverso le forze dei diretti interessati, che discutono e ridiscutono i termini della loro convivenza, in un mondo sempre più interconnesso.