Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:45

La tournée del Primo Ministro turco Erdogan in Nord Africa era rivolta soprattutto alle popolazioni e alle opinioni pubbliche, più che a governi transitori. Anche se, naturalmente, Erdogan ha incontrato parecchi responsabili politici (per l’Egitto: il maresciallo Tantâwî, il capo di stato maggiore delle forze armate ‘Inân, il Primo Ministro Sharaf, il grande imam di al-Azhar e il Muftì della Repubblica) e ha sottoscritto numerosi accordi di cooperazione (undici al Cairo). In Egitto gli è stata riservata un’accoglienza trionfale. Enormi ritratti della sua persona decoravano le arterie principali della città. Diverse forze politiche, principalmente i Fratelli Musulmani, hanno mobilitato le loro truppe per salutarlo e rendergli omaggio. Lunghe trasmissioni televisive hanno trattato della Turchia. Gli editorialisti hanno cantato la sua gloria, ciascuno spiegando il suo successo in funzione della propria agenda: islamista, laica, concordista,… Gli imprenditori e gli uomini d’affari sono accorsi alla cena organizzata in suo onore. I pochi “sdegnati” che temevano un “ritorno dell’ottomanesimo” o deploravano la presenza ostentata della sua sicurezza personale erano voci isolate che si perdevano nell’oceano dell’infatuazione generale. Erdogan infatti da qualche anno è l’uomo di Stato più popolare in Egitto – e forse anche in altre parti della regione. Questo successo (che spiega in parte i suoi pessimi rapporti con Mubarak) è, fin da ora, ben più duraturo e solido di quello effimero di Ahmadinejad. Duraturo poiché non si basa esclusivamente sulle prese di posizione, molto ferme, nei confronti di Israele risalenti all’alterco con Peres a Davos nel 2009 e poi culminate, alcune settimane fa, nell’espulsione dell’ambasciatore israeliano, in seguito alla pubblicazione del rapporto Palmer sull’episodio dell’assalto della marina di Tsahal a una nave turca che si stava dirigendo verso Gaza. La risolutezza di Ankara ha sedotto molti in Egitto, soprattutto se paragonata alla timida risposta delle autorità locali quando sei soldati egiziani sono stati uccisi dal fuoco presunto israeliano. Questo spiega, se non giustifica, l’assalto dei manifestanti egiziani all’ambasciata dello Stato ebraico. Le opinioni pubbliche riconoscono il fatto che le misure turche sono più efficaci delle rodomontate di Teheran che, in ultima analisi, forniscono dei comodi pretesti all’intransigenza israeliana. Ma Erdogan dispone di atouts più solidi di quelli dell’Iran. In primo luogo, è sunnita – anche se non credo che questo sia l’essenziale. La sua giovinezza e il suo dinamismo colpiscono molto in questa regione governata da settuagenari e ottuagenari. Soprattutto, ostenta, e si sa, risultati economici impressionanti e che fanno invidia. Per tutti i “transitologi” e gli intellettuali, egli è l’esempio di ciò che occorre fare per conciliare islamismo e democrazia – dimenticando o fingendo di dimenticare la specificità del contesto turco e la difficoltà di trasporre la "ricetta" AKP. Infine, soprattutto in Egitto, dove la popolazione è molto credente, Erdogan passa per colui che ha ridato diritto di cittadinanza all’Islam in Turchia e che ha ri-orientato la politica estera turca per coinvolgerla nella regione. Le lettere dei lettori ai quotidiani, per esempio, mostrano come in Erdogan vedano la più grande chance della umma alla ricerca di un nuovo splendore. Ovviamente le cose sono più complicate. Ed Erdogan ha avuto il merito e il coraggio di ricordarlo facendo davanti all’opinione pubblica sbigottita l’apologia della laicità, spiegando che essa non significa «ostilità verso le religioni», ma mettere una distanza, vantaggiosa per le religioni, tra il politico e il religioso, trovandosi quest’ultimo affrancato dal controllo del Principe. I Fratelli Musulmani, che cercavano di far credere di essere moderati quanto l’AKP, che avevano mobilitato le loro truppe i cui striscioni promettevano una riconquista «con te, andremo a Gerusalemme», che sognavano ad alta voce il califfato, hanno immediatamente deplorato tale «ingerenza negli affari interni egiziani». Ingerenza che, naturalmente, è stata accolta con favore dai non islamisti egiziani, compresi i sovranisti. I commentatori si sono prodigati a spiegare questa dichiarazione – e non si è certi se abbiano capito fino in fondo la questione. Per alcuni, Erdogan, che ha le "antenne" sensibili, ha capito che gli islamisti egiziani, pur essendo le forze egemoniche in Egitto, non sono maggioritari nell’opinione pubblica e pertanto ha voluto parlare alla "strada". Per altri il messaggio era destinato a mostrare alle capitali occidentali che Erdogan è un fattore di moderazione, che può usare il suo immenso prestigio per "far passare dei messaggi". Per altri ancora la politica estera turca, che è certamente troppo sottile e creativa per essere riassunta in poche frasi, mira a "stabilizzare la regione", allentare le tensioni e moltiplicare le cooperazioni, creare un grande mercato comune. Recentemente essa ha anche proposto un partenariato, un’alleanza strategica con l’Egitto, l’altro "grande paese" del Mediterraneo orientale. Di certo, molti legami intessuti nel corso dei secoli uniscono i due paesi. Di certo sono entrambi alleati degli Stati Uniti, non sempre a loro agio con la "pesantezza" di Washington e dello Stato ebraico. Di certo hanno in comune un interesse oggettivo per la stabilità della regione, a differenza, per esempio, dell’Iran. Di certo le due economie possono potenziare i loro scambi. La bilancia degli scambi commerciali è di 3,2 miliardi di dollari. L’ammontare degli investimenti turchi in Egitto è di 1,2 miliardi di dollari. Ma la situazione egiziana rischia di stabilizzarsi solo tra qualche anno e i Fratelli, a torto o a ragione, sono percepiti come un fattore di destabilizzazione, un potenziale alleato dell’Iran, che suscita l’inquietudine di molte capitali regionali, prime fra tutte Riyad. Non che la dichiarazione di Erdogan sia necessariamente un casus belli nei confronti della formazione islamista. Al momento, sembra più appropriato vedervi uno o due richiami sgradevoli ma utili. Nonostante questo episodio, sta forse nascendo un idillio? L’idillio tra Erdogan e i popoli arabi ha già qualche anno. Resta da capire come i futuri dirigenti arabi lo “vivranno”, se come risorsa o vincolo, fonte di forza o di debolezza. In privato, i funzionari egiziani dell’ex regime dicevano che fare i gradassi con Israele è più facile quando non si hanno frontiere comuni con quello Stato. I nuovi dirigenti hanno fatto ricordare dai loro organi di stampa che l’Egitto non ha mai sviluppato alcuna collaborazione militare con Israele e si sono chiesti se le spettacolari prese di posizione contro Netanyahu non nascondessero, di fatto, una disputa in proposito. Essi ripetono ad nauseam che la Turchia è troppo dipendente in materia di tecnologia da Israele che l’ha già aiutata ad aggirare ampiamente gli embarghi occidentali. Riserve legittime o espressione di irritazione? Ma l’opinione pubblica, sempre alla ricerca di un salvatore, sembra non voler intendere ragione.