Il Papa ha indetto una giornata di preghiera e digiuno il 23 febbraio per il Paese africano e il vicino Congo, da anni attraversati da violenze. Una testimonianza da Juba

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:54:02

A gennaio mi sono recato a Juba, la capitale del Sud Sudan, per incontrare il gruppo dei Missionari Comboniani che lavorano nelle diverse parti del Paese. Era la mia prima visita a Juba dopo l’indipendenza del 2011, la quarta dopo la fine della guerra.

 

Erano riconoscibili le tracce del grande sviluppo che ha avuto luogo nel periodo tra la fine della guerra nel 2005 e la ripresa delle ostilità otto anni dopo. In quegli anni la capitale del Sud Sudan si era molto estesa, arricchendosi di nuove costruzioni e di strutture. Questo processo di sviluppo si è improvvisamente interrotto con l’inizio del conflitto intestino.

 

Nel dicembre 2013, vecchi rancori e una disomogenea distribuzione del potere e delle ricchezze proveniente dall’estrazione del petrolio avevano acceso gli scontri tra i due principali gruppi etnici del Paese. A quella fiammata, era seguita una relativa tranquillità fino al 2016, quando il conflitto si è esteso con la creazione di una miriade di milizie locali con cui il governo non è riuscito a trovare un accordo. Le conseguenze sono stati l’esodo di migliaia di rifugiati verso i Paesi limitrofi e il rischio di una frammentazione, come già accaduto in Somalia.

 

Il conflitto in numeri

Le cifre parlano di un milione e settecentomila rifugiati e altrettanti sfollati interni: un quarto della popolazione. Sorprende sempre la disponibilità e la capacità dei Paesi vicini – Uganda, Etiopia e Congo – di accogliere e di far fronte a crisi umanitarie di tali dimensioni.

 

Negli ultimi mesi Juba e la maggior parte del Paese sono stati tranquilli in virtù di una tregua sottoscritta poco prima di Natale da quasi tutti le parti coinvolte nel conflitto. Non sono mancate le violazioni, ma molto occasionali e periferiche.

 

Inevitabile la crisi economica. I mancati proventi del petrolio, la distruzione dei raccolti e delle normali attività di sostentamento per milioni di persone stanno avendo gravi ripercussioni in tutto il Sud Sudan.

 

Ho avuto modo di incontrare personalmente vari esponenti della società civile – e soprattutto ecclesiastici – impegnati nei colloqui di pace ad Addis Abeba, in Etiopia. L’ottimismo è di rigore, ma nessuno nasconde le difficoltà di questo quadro dove la fiducia reciproca è ridotta a un lumicino.

 

La visita del Papa cancellata

Fin dall’inizio delle ostilità, l’impegno per la pace è stato condotto dalla Chiesa cattolica in collaborazione con i responsabili della Chiesa anglicana e doveva culminare lo scorso maggio con la visita congiunta a Juba di Papa Francesco e del primate anglicano, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby. Tale visita dovette essere cancellata infine per ragioni logistiche e di sicurezza.

 

Negli ultimi mesi si sono registrati interventi importanti: localmente sono stati rimpiazzati dalle autorità alcuni governatori che erano stati troppo coinvolti con i massacri degli scorsi anni e questo ha molto rasserenato il clima sociale in alcune aree. I colloqui di pace continuano.

 

L’atmosfera che ho percepito tra i missionari al lavoro in Sud Sudan è di lieve ottimismo, se non altro ispirato dal desiderio di pace così intenso da parte di una popolazione esausta per il conflitto. E poi ricominceranno la ricostruzione e l’impegno a guarire tante vite ferite e a riconciliare parti che ora fanno molta fatica a parlarsi.

 

Per il 23 febbraio, Papa Francesco ha promosso una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Sud-Sudan, associando questo Paese al suo vicino, la Repubblica Democratica del Congo. Avendo nella mente luoghi, persone, amici e fratelli, con gioia aderisco a questa proposta.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis