Dalla Crocifissione di Cristo, una riflessione sulla responsabilità morale del singolo

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:51

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Medico di fama internazionale e apprezzato romanziere, l’egiziano Muhammad Kâmil Husayn prende spunto dal dramma della Crocifissione di Cristo per una riflessione sulla responsabilità morale del singolo. Quando la voce della coscienza viene messa a tacere, anche una decisione proceduralmente ineccepibile e religiosamente sanzionata può condurre all’ingiustizia.

Da quando Caifa aveva assunto il potere sugli israeliti, aveva avuto successo in molte cose: era riuscito ad assumere una posizione mediana verso i romani, né troppo dura né troppo accondiscendente, mentre nei confronti del suo popolo si era posto come un uomo giusto e sincero. Gli israeliti si erano convinti che non mirasse ad altro che al vero e questa fede li aveva condotti a tollerare da Caifa cose che non avrebbero accettato da altri.

[...] La vita di Caifa non era né facile né comoda, ma egli era dell’opinione che vero e falso fossero evidenti. Il suo buon senso non l’aveva mai tradito e solo raramente aveva conosciuto esitazioni nel giudicare. Il fatto era che possedeva norme morali semplici e chiare che lo conducevano al bene e norme razionali ben radicate che lo conducevano al giusto. Giudicava persone e cose con verità. Gli era d’aiuto nello svolgere il suo compito la circostanza che il governatore romano – nonostante la nota boria del suo popolo – apprezzasse i principi elevati e comprendesse i dilemmi del vero e della coscienza, nella misura in cui li può comprendere una persona allevata nella classe dirigente romana.

Le cose continuarono ad andare bene per Caifa, con sua personale soddisfazione, finché tra gli israeliti spuntò la nuova predicazione. Allora la perplessità lo invase: come avrebbe dovuto regolarsi con essa e con il suo iniziatore? Nel suo intimo, molto di quella predicazione gli piaceva, anche se faceva ben attenzione a non lasciarlo trasparire. Del nuovo profeta gli piaceva in particolare che avesse approvato la sua politica nei confronti dei romani. Caifa infatti pensava che i romani dovessero lasciargli gestire le questioni religiose del popolo e la sua vita privata, mentre erano liberi di riscuotere il tributo nella misura che volevano. Tuttavia egli invidiava al massimo grado l’iniziatore della nuova predicazione per il modo in cui aveva saputo esprimere questa politica, coniando una formula a cui tutta la scienza e l’intelligenza di Caifa non erano sapute arrivare:

Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.

La sua ammirazione per il nuovo profeta raggiunse il culmine quando sentì parlare del Regno dei Cieli. Per tutta la vita Caifa aveva cercato una soluzione decisiva a un problema morale per cui non aveva trovato risposta nei detti a lui noti di profeti e filosofi. Il problema che lo angustiava altro non era che la ricompensa delle virtù negative e delle virtù nascoste, e delle virtù insieme negative e nascoste. Tutti conoscono la ricompensa delle virtù positive quali il coraggio, la generosità e l’operare il bene. Il premio è chiaro: la stima della gente, il loro rispetto e il loro amore, una buona reputazione e la soddisfazione di sé. Le virtù nascoste invece come la pazienza, la rinuncia al male, la compassione per il debole, la pietà verso il povero o l’onestà, hanno una ricompensa chiara solo quando divengono note e se ne diffonde la fama. Ma proprio allora va perduto il merito e si affaccia il pericolo dell’ipocrisia. Virtù negative come l’umiltà, la sopportazione della molestia e il rifiuto del male proprio nel momento in cui sembrano esigerlo l’interesse, la prudenza, l’egoismo, il desiderio di evitare un fastidio o l’ebbrezza della vittoria, sono spesso più ardue per l’anima e più difficili a sopportare delle virtù positive, così luminose e altisonanti.

Spesso a Caifa era capitato di pensare a quanto poveri, ignoranti e semplici dessero prova di queste virtù. Studiava le loro esistenze e vi trovava un eroismo negativo e nascosto che gli riempiva il cuore d’ammirazione. Guardava alla vita delle prostitute e degli ubriaconi e persino lì rinveniva esempi elevatissimi di coraggio e sopportazione, sacrificio eroico di sé e pazienza. Gli sarebbe piaciuto riuscire a trovare una ricompensa per loro perché gli sembrava ingiusto che l’apprezzamento che discende dalle virtù si limitasse ad alcune persone e ad alcune classi, ad esclusione di altre. Non si accontentava di quel che comunemente si diceva, che cioè la ricompensa di tali virtù fosse un senso di autocompiacimento, perché questo da solo non poteva bastare. Se la ricompensa era tutta lì, la maggior parte della gente avrebbe trovato difficile perseverare in queste virtù per tutta la vita, senza cedere alla disperazione o alla noia.

Alla fine fu condotto a una soluzione che lo soddisfaceva, che cioè la natura dell’uomo è una realtà indivisibile, un’unità in cui tutto si tiene e ogni virtù – per quanto nascosta – costituisce una pietra nella costruzione della personalità. Il suo influsso perciò non va perduto anche se essa rimane nascosta alla gente. Quelli che pensano che i loro sacrifici siano vani e che nessuno conoscerà la loro pazienza di fronte a un’avversità o che la rinuncia al male che s’impongono li priverà di un bene senza che nessuno se ne accorga, quasi che non ci fosse differenza tra loro e quelli che non hanno conosciuto tali tentazioni, ebbene tutti costoro dovrebbero ricordare che quanto fanno contribuisce a formare in loro una personalità buona, sul cui conto nessuno s’ingannerà, anche se le singole azioni restassero ignote nel dettaglio. Dovrebbero sapere che le loro virtù e i loro sacrifici non sono sprecati e che sono tenuti a continuare su quella strada perché la personalità buona che verrà loro riconosciuta è una ricompensa maggiore.

Tuttavia Caifa trovò che il nuovo profeta aveva apportato a questo problema una soluzione più bella e mirabile: aveva creato il Regno dei Cieli, in ricompensa di queste virtù nascoste e negative. Entrarvi – diceva – era un diritto per i poveri, i semplici, i peccatori e gli ignoranti. In tal modo aveva ¬restituito loro la considerazione di sé e l’umanità e li aveva ricompensati per le loro virtù. Questo agli occhi di Caifa era una soluzione meravigliosa, che realizzava un tipo di giustizia da cui essi erano stati fino a quel momento esclusi. [...] Caifa era dell’opinione che nessuno capisse veramente la nuova predicazione nella sua vera portata e nel suo autentico significato tranne lui e il suo iniziatore. Dal punto di vista morale lo ammirava per il successo che aveva avuto, ma era convinto che essa non sarebbe riuscita a cambiare il carattere della gente e la loro vita. Diceva a se stesso che il nuovo profeta – per quanto sublimi fossero i suoi principi e profondi i suoi pensieri – non avrebbe conseguito alcun significativo risultato nel riformare la condizione della gente. Anche se aveva chiarito i limiti della coscienza umana del singolo, sarebbe fallito miseramente nell’impresa di creare una coscienza per la comunità. Sembrava pensasse che le società sono buone se sono buoni i membri che le costituiscono, ma questo è un vecchio errore. Dobbiamo invece creare una coscienza nella società che le impedisca di commettere il male, un freno proveniente dalla sola coscienza senza costrizione esterna. Altrimenti il male resterà tra noi, anche se ciascuno di noi lo dovesse personalmente condannare.

Caifa diceva del nuovo profeta che voleva mettere la coscienza sopra la religiosità, ma che i custodi della religiosità l’avrebbero condannato prima che i partigiani della coscienza venissero a salvarlo. Voleva elevare i piccoli fino a renderli uguali ai grandi, ma questi l’avrebbero condannato prima che quelli che voleva elevare venissero a salvarlo. Voleva elevare il sentimento di appartenenza all’umanità sopra l’amor di patria e il nazionalismo, ma l’amor di patria l’avrebbe condannato prima che il sentimento d’umanità venisse a salvarlo. Non aveva fatto del male a nessuno in Israele e nessuno singolarmente gli avrebbe fatto del male. Ma faceva del male a Israele nel suo complesso e sarebbe stata la comunità a vendicarsi di lui, anche se a ciascuno ripugnava farlo personalmente.

Ancora, diceva di essere un profeta e i suoi seguaci dicevano che era un dio. Ma il suo fallimento non era un sintomo d’impotenza? E da quando l’impotenza era un attributo divino, se non per lui e per i suoi seguaci? «Ben presto – si diceva Caifa – comprenderà che un semplice uomo come me è più attrezzato di lui per realizzare una riforma, fosse anche sostenuto dallo Spirito Santo. Non sa dunque che la riforma è tanto più destinata al successo quanto più è vicina alla realtà e che la riforma troppo ardita, che si distacca eccessivamente dalla condizione della gente, non ha speranza di riuscire? Ignora che il vero riformatore è colui che porta la sua gente appena un poco al di sopra delle loro preoccupazioni? Dovrebbe sapere che il tempo è uno dei fattori più importanti in una riforma; neppure i profeti possono sottovalutarlo, neppure gli dei. La predicazione che andrà bene alla gente tra migliaia di anni sarebbe una rovina se fosse attuata prima che le loro anime vi siano preparate. Avrà pure una coscienza migliore della mia, un’anima più pura e un carattere più nobile: io però sono migliore di lui nell’azione e più utile alla gente».

Così pensava Caifa quando si trovava da solo a riflettere sulla nuova predicazione e sul suo iniziatore, pacatamente, perché in queste cose non voleva assolutamente procedere in modo avventato. Ma poi tutta Israele si era unita contro il nuovo profeta chiedendone il sangue. Si era formato un consenso generale per condannarlo alla croce. A quel punto Caifa si era reso conto che la cosa si era fatta seria. Non era più questione di una ricerca filosofica distaccata. Era suo dovere accettare quanto avevano stabilito il giorno precedente, se era vero, o opporsi alla loro decisione, se errata.

In vita sua Caifa non era mai stato così perplesso come riguardo a questo verdetto emesso dal suo popolo dopo un esame accurato e una discussione prolungata. [...] «Perché mai quest’uomo ha scelto di rivolgere la sua predicazione agli israeliti? Siamo gente religiosa e morale, tra i popoli della terra siamo quello che tiene di più ai comandamenti di Dio. Perché si preoccupa di purificare la nostra coscienza, noi che tra i popoli della terra siamo quello più puro? Non farebbe meglio ad andarsene a Roma a predicare? I romani sono pagani, ingiusti, stolti. Perché non cerca di convertire loro, quelli che sono tra loro ingiusti? Avrebbero un bisogno estremo della sua sapienza. Se avesse successo, renderebbe all’umanità un grandissimo servizio. Roma è signora del mondo e nelle sue mani è forza e potenza.

Invece, anche se la sua predicazione tra il popolo d’Israele fosse coronata dal successo, non ne trarrebbe beneficio nessun’altra nazione della terra. Sono pieno d’ammirazione per la sua predicazione, ma non voglio che la sua religione s’installi tra noi. Nella prova nella quale versiamo abbiamo assoluto bisogno di stringerci gli uni agli altri, ci servono concordia e tranquillità. Quello che mi preme è che la sua predicazione non sia motivo di divisione nelle nostre file. Dopodiché, per me è uguale che sia elevato in cielo o spedito in esilio all’estremità della terra o che sia crocifisso, se Dio vuole che sia ucciso ingiustamente. Se gli succederà questo, sarà il decreto di Dio. E non vi è modo di opporsi al decreto di Dio, poiché Egli conosce il Mistero più di noi.

Ecco, forse questo è il primo barlume che m’indirizza alla decisione giusta: comincerò da dove voglio finire. Non voglio che rimanga tra noi in nessun caso e se la croce è l’unico modo per allontanarlo da noi, ebbene sarà crocifisso. Crocifiggerlo sarà giusto, e doveroso per me ratificare il verdetto di ieri nella Sala dell’Assemblea. Ma come può essere retta quest’opinione? Dovrei ratificare le loro accuse anche se non sono d’accordo, dato che sono false ed egli è innocente da tutto quello che cercano di attribuirgli? Come posso dichiararlo innocente e subito dopo acconsentire alla sua condanna a morte? Se proclamo la sua innocenza, deve restare tra noi, ma questo a mio avviso è un errore. E così sono ridotto a due sole alternative: o me ne sbarazzo a costo di accuse false e menzognere, per un fine che stimo giusto, o lo proclamo innocente e allora continuerà a diffondere la sua predicazione tra noi, ma questo è un male che non posso accettare. Però se lo accuserò di cose false, avrò commesso quell’errore che rimproveravo ai peggiori politicanti. Posso usare mezzi cattivi per conseguire un fine buono? Non ho forse passato la mia vita a dire alla gente che uno dei più gravi errori è pensare che il fine buono giustifichi i mezzi cattivi, perché i mezzi cattivi non conducono mai a un fine buono? Il male non porta mai al bene se non illusoriamente e per un istante: alla fine è il sopruso a prevalere.

Tutto il mio senso della giustizia, che è la cosa che ho più cara, si ribella a queste false accuse che dovrei ingiustamente lasciar passare. Gli hanno rimproverato quei principi che sono i più elevati nella sua predicazione. Lo hanno accusato d’invitare all’abbandono a Dio, alla pietà e all’amore dei nemici e hanno detto che questo pregiudica le virtù del popolo d’Israele e il suo stile di vita. Lo hanno accusato di magia, ma non è un mago, lo hanno accusato di violare il Libro di Dio, e che questa è in lui miscredenza, ma lui ha soltanto compiuto un passo oltre nella fede rispetto alla Legge di Mosè. In questo non vedo miscredenza, ma il modo abituale con cui Dio procede, attraverso un’elevazione graduale. Tutto questo è soltanto opera dell’Accusatore[1]. Vuole arrivare rapidamente al potere, anche a costo di ingiustizie e soprusi, è un’abitudine inveterata in lui. Non viene da una famiglia che, quand’ero giovane, rifiutò di darmi in sposa una loro figlia perché mi disprezzava? Il loro primo obiettivo non è forse metterlo al mio posto?»

[...] Spuntò l’alba e Caifa era esausto e triste. Uscì per recarsi alla Sala dell’Assemblea senza sapere che fare. La sua ultima decisione fu di lasciare che le cose seguissero il loro corso. Sentì che non aveva autorità per indirizzare gli eventi in un qualsiasi modo e stabilì di mantenersi neutrale e ratificare quanto avrebbero convenuto i dotti e i maestri del pensiero nel suo popolo. Rimetteva a Dio il giudizio, su di sé e su di loro.

Perse la fiducia in se stesso e perse la fiducia nel metodo della consultazione in cui aveva sempre creduto, considerandolo come un mezzo idoneo per creare una coscienza nella comunità. La comunità infatti, non avendo coscienza, sceglie alcuni singoli che si consultino a vicenda; e visto che questi singoli hanno una coscienza, si spera che essa influenzerà quanto faranno in nome della comunità. Perse la fiducia nel vero e nel giusto, nella religione e nei suoi insegnamenti, perché essa non l’aveva guidato al vero in questo caso così ostico. Iniziò a pensare che la guida che la religione può offrire è soltanto di carattere generale, ma non si applica ai casi particolari. E sentì di aver completamente fallito e di essere stato, quel giorno, il più debole degli uomini. Nelle difficoltà si era rivelato uguale al più stolto e miserabile tra gli israeliti.

[Tratto da: Muhammad Kâmil Husayn, Qarya Zâlima (La città iniqua), ed. Maktabat al-Usra, al-Qâhira 1997, 67-79; trad. dall’arabo di Martino Diez]

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[1] Si tratta della figura del Pubblico Ministero, che nel romanzo svolge una parte decisiva nella condanna di Gesù (N.d.T.).

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Testo di Muhammad Kâmil Husayn, Così giusto da sembrare ingiusto, «Oasis», anno VIII, n. 15, giugno 2012, p. 71-75.

 

Riferimento al formato digitale:

Testo di Muhammad Kâmil Husayn, Così giusto da sembrare ingiusto, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2012, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/cosi-giusto-da-sembrare-ingiusto.

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